Egidio Romano
Egidio Romano fu uno dei più brillanti e influenti intellettuali e uomini di Chiesa tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento. Il suo De regimine principum ebbe una fortuna vastissima e costituì un vero e proprio manuale per l’educazione del principe. A distanza di circa un ventennio, Egidio compose due altri scritti, il De renunciatione Papae e il De ecclesiastica potestate, in cui la visione fondamentalmente mondana dell’opera precedente venne del tutto messa da parte in favore di una energica difesa delle prerogative del potere spirituale e della plenitudo potestatis papale. L’oscillazione tra le posizioni espresse in queste opere ha talvolta indotto a giudizi poco benevoli sulla sua correttezza morale, ma è indubbia la capacità di Egidio di esporre con coerenza logica le sue idee a favore del primato papale, garantendo ai suoi scritti ampia diffusione e capacità di attrazione e imitazione.
Egidio Romano nacque a Roma, probabilmente all’interno della famiglia Colonna, tra il 1243 e il 1247. Nel 1258 entrò nell’ordine degli eremitani di sant’Agostino, fondato da Innocenzo IV con la bolla Licet Ecclesiae catholicae appena due anni prima, e, compiuta una prima formazione nelle arti liberali, per le sue brillanti doti intellettuali, intorno al 1266, fu inviato a Parigi per completare gli studi presso la facoltà di Teologia. Qui seguì le lezioni di Tommaso d’Aquino e, acquisito il titolo di baccelliere, svolse la sua attività didattica commentando testi di Aristotele, il Liber de causis e le Sententiae di Pietro Lombardo. Partecipò anche da protagonista alla ‘battaglia’ degli anni Settanta che vide contrapposte la facoltà delle Arti e quella di Teologia, in nome, l’una, della liceità della libera ricerca razionale e, l’altra, di un richiamo alla superiorità teologica fondata sull’insegnamento di sant’Agostino, scrivendo il De plurificatione intellectus possibilis, l’opuscolo De erroribus philosophorum e il Contra gradus et pluritatem formarum.
L’originalità delle sue posizioni e l’influenza esercitata su di lui dalle dottrine di Tommaso lo fecero oggetto, nel 1277, delle attenzioni del vescovo di Parigi, Étienne Tempier, che condannò diverse tesi da lui sostenute e gli revocò il permesso di insegnare: di fronte alle accuse, Egidio si difese con una Apologia per poi ritornare in Italia ove si dedicò a questioni inerenti all’ordine senza però cessare di scrivere e studiare. Grazie alla protezione di Onorio IV poté poi rientrare a Parigi e conseguire nel 1285, dopo una ritrattazione formale, il titolo di maestro in teologia, il primo del suo ordine. Un titolo, unito alla sua vasta produzione, che nel 1287 gli valse nel Capitolo di Firenze la promozione ufficiale a maestro dottrinale degli eremitani e, nel 1292, l’elezione a priore generale. Eletto da Bonifacio VIII, di cui era e rimase uno dei migliori e più influenti consiglieri, arcivescovo di Bourges e primate d’Aquitania nel 1295, dopo lo scontro tra il pontefice e Filippo IV il Bello restò legatissimo alla curia, malgrado l’ostilità di Clemente V che ne impedì la nomina a cardinale. Partecipò al concilio di Vienne (1311-12), che decretò la soppressione dell’ordine dei templari, e fu a capo della commissione che condannò le teorie del francescano Pietro di Giovanni Olivi relative alla povertà e all’interpretazione dell’Apocalisse. Morì ad Avignone nel 1316.
Guardando al lungo percorso, biografico e intellettuale, di Egidio, un autore assai prolifico al quale sono attribuiti più di cento scritti che ne fanno una delle maggiori personalità della fine del Duecento, è possibile individuare almeno tre momenti di particolare interesse per quanto attiene alla sua posizione nei confronti degli aspetti sociali e politici del suo tempo: la condanna delle tesi averroistiche da parte del vescovo di Parigi, Étienne Tempier, nel 1270 e, soprattutto, nel 1277, la rinuncia al papato di Celestino V e l’elezione di Bonifacio VIII, nonché il conflitto tra quest’ultimo e Filippo IV di Francia o, per meglio dire, tra Stato e Chiesa.
Le censure del 1270 e del 1277 (che colpirono, con molti altri maestri, soprattutto i docenti della facoltà delle Arti e i teologi i quali, agli occhi del vescovo e dei suoi consiglieri, si erano mostrati troppo inclini ad accogliere, nell’ambito teologico, tesi filosofiche aristotelico-averroistiche) vanno inquadrate in un contesto storico e politico ben preciso, caratterizzato proprio dalla crescente, reciproca insofferenza tra filosofi e teologi. E ciò alla luce, oltre che di una incipiente presa di coscienza da parte degli artistae di un loro ruolo specifico nell’Università e nella società, della sempre maggiore fortuna di un commento al corpus aristotelico, come quello di Averroè, che si prefiggeva di studiare e interpretare il pensiero dello Stagirita nel suo contesto specifico, scevro da preoccupazioni forzatamente concordistiche con le esigenze della fede cristiana, soprattutto su temi quali l’immortalità dell’anima individuale e la creazione del mondo. In questo contesto, il ritorno – eccezionale, vista la prassi sino ad allora seguita – di Tommaso d’Aquino a Parigi, nel 1269, per un intero triennio di insegnamento, apparve ai maestri in teologia come quello di un potente alleato dei maestri delle arti, travisando per altro e non sempre in buona fede, la sua posizione dottrinale che si era sempre tenuta lontana tanto dall’aristotelismo radicale quanto dal neoagostinismo che costituiva il nucleo forte della facoltà di Teologia. Come provano, del resto, sia il De unitate intellectus contra averroistas che il De aeternitate mundi contra murmurantes.
Egidio fu molto colpito dalle lezioni dell’Aquinate, a cui assistette in quel triennio e, per certo, trasse da esse ispirazione per approfondimenti che lo portarono su posizioni anche più radicali di quelle sostenute dal domenicano, come si può evincere dall’aspra polemica che lo contrappose a Enrico di Gand, uno dei consiglieri di Tempier. Ciò non mancò di attirare l’attenzione dei teologi, che vi scorsero il tentativo, da parte del giovane baccelliere in teologia, di dare piena legittimità nella facoltà di Teologia a un insegnamento di tipo filosofico contrastante con quell’orientamento neoagostiniano nei confronti del quale lo stesso Aquinate aveva polemizzato sia nella Summa theologiae sia nel De aeternitate. Non per niente, sin dagli inizi della crisi Tempier aveva avviato un’indagine critica su Tommaso che doveva portare, nelle sue intenzioni, a un vero processo e alla conseguente condanna di alcune sue tesi come eretiche e contrarie alla dottrina cristiana. Nel frattempo, come obiettivo più immediato, si scelse di colpire il giovane Egidio bloccandone la carriera accademica con la revoca della licenza di insegnare e con la richiesta di sconfessare le sue posizioni, riconoscendone l’erroneità o la falsità. Egidio non accettò la condanna e preferì tornare in Italia, ma certo questo incidente di percorso lo fece riflettere e comprendere quali fossero i reali contorni dello scontro in atto e le contromisure da prendere.
L’intenzione di Tempier si infranse di fronte alla difesa intransigente delle posizioni di Tommaso da parte dell’intero ordine domenicano, che mobilitò sia personaggi della curia pontificia sia maestri di indiscutibile prestigio come Alberto Magno, convincendo il papa Onorio IV a istituire una commissione di maestri parigini che, nel 1285, sancì che l’insegnamento dell’Aquinate non provocava alcun danno alla fede e che, nei casi più controversi, si trattava di opinioni da affidare alla libera discussione scolastica. Salvato, per così dire, Tommaso, anche Egidio poté rientrare a Parigi, riaffermando sostanzialmente le sue convinzioni e conseguendo nello stesso anno il titolo di maestro in teologia. Tra l’altro, la permanenza a stretto contatto con la casa generalizia del suo ordine e la contiguità con la struttura della curia romana, unitamente alla sua brillante attività intellettuale, gli consentirono di porre le basi dell’eccezionale riconoscimento, ancora in vita, di maestro ufficiale degli eremitani, poi di priore generale e, infine, di arcivescovo e primate.
Il titolo di Dottore fondamentale non gli fu attribuito immeritatamente: infatti, pose sempre fondamenti solidissimi alla sua dottrina. Seppe utilizzare un’amplissima mole di argomenti per sciogliere i quesiti, acutissimo ricercatore in ogni ambito non lasciò mai niente di intentato né fu mai poco chiaro nelle sue soluzioni alle questioni sottoposte al dibattito. Nell’esposizione e nell’analisi dei problemi fu tanto persuasivo che sembra essere stato in grado di risolvere anche i quesiti più difficili posti dai maestri scolastici. Per tali motivi, il capitolo generale dell’ordine, tenutosi a Firenze nell’anno del Signore 1287, approvò la seguente dichiarazione proposta dai superiori: Dal momento che la dottrina del venerabile maestro Egidio nostro illustra il mondo intero, deliberiamo e comandiamo che essa debba essere osservata senza eccezioni, che tutti i lettori e gli studenti del nostro ordine accolgano le opinioni, le definizioni e le conclusioni, quelle già scritte e quelle che scriverà, oltre alla dottrina del predetto nostro maestro, dando a esse il loro assenso con tutta la sollecitudine possibile, affinché essi, illuminati da quella, possano donare la luce dell’intelligenza ad altri, e che ne siano assidui difensori (Praefatio in libros De regimine principum, 1607, pp. XVIII-XIX).
La vicenda biografica, come si è detto, spiega forse anche l’attenzione che Egidio dedicò al mondo della politica e alle questioni della definizione del potere temporale e di quello spirituale e dei loro rapporti in tre distinte opere. La prima di queste è senz’altro il De regimine principum, composta tra il 1277 e il 1279 e dedicata al futuro re di Francia Filippo IV il Bello. L’opera, piuttosto voluminosa com’era nel costume dell’autore, si articola in tre libri ed esamina, in ciascuna delle parti in cui sono divisi, i singoli aspetti che concernono la persona ‘pubblica’ del governante, tanto della sua formazione quanto del modo di comportarsi nei confronti dell’ufficio, dei ministri e dei subordinati.
Si tratta, per darne subito una connotazione sommaria, di uno scritto singolare in cui, tra l’altro, l’influenza del De regno e del frammentario commento di Tommaso d’Aquino alla Politica aristotelica è particolarmente forte. Per un verso, infatti, il De regimine si rifà al modello degli specula principum che sin dall’Alto Medioevo erano stati scritti, da uomini di Chiesa per lo più, per tratteggiare le caratteristiche essenziali di un governante cristiano, chiamato cioè da Dio a occupare un ruolo fondamentale in una società umana nata dopo il peccato di Adamo e la perdita del paradiso terrestre. L’influenza del De civitate Dei di Agostino e della sua filosofia della storia era determinante, soprattutto nell’insistenza sulla funzione coercitiva del potere temporale, il cui compito principale consisteva nella repressione della malvagità di una natura, quella umana, irreparabilmente macchiata dalla colpa del progenitore, e nella convinzione che, essendo il primato della giustizia l’unico fondamento possibile per uno Stato che garantisse l’ordine voluto da Dio, uno Stato non potesse dirsi correttamente tale se non fosse guidato e sorretto dalla fede nel Cristo e dall’obbedienza alla legge evangelica, da lui impersonata e affidata all’apostolo Pietro e ai suoi legittimi successori. Per dirla in altri termini, la dottrina della Chiesa era la conditio sine qua non perché un popolo potesse aggregarsi in uno Stato e riconoscersi in un governante benedetto dal vescovo di Roma. Anche successivamente alla riscoperta del diritto romano nella compilazione giustinianea, il valore primario del potere sacerdotale rimane il punto di forza della concezione politica della Chiesa, la quale rivendica a sé la prerogativa di ungere con l’olio sacro o incoronare, direttamente o per mezzo di un rappresentante del pontefice, il governante che solo così è legittimato a reggere un popolo o uno Stato.
D’altra parte, però, nella seconda metà del Duecento, la traduzione della Politica aristotelica e la sua rapida diffusione negli studi e nelle aule universitarie, proponeva una visione tutt’affatto diversa, ponendo in risalto il valore naturale e razionale della formazione dello Stato inteso come il naturale sviluppo di un animale sociale e politico intenzionato non soltanto a vivere ma a vivere bene, e cioè mettendo in pratica il dettato della ragione: lo Stato come realizzazione dell’operazione specifica e propria dell’ente uomo. Ed è in questo contesto, naturale e razionale, che gli uomini possono aspirare alla felicità e, come credenti, alla beatitudine dopo la morte. Lo Stato, quindi, dotato di una propria finalità, autonoma ancorché limitata alla storia, che doveva essere valutata in sé e per sé.
Egidio fonde insieme, sviluppando il tema con coerenza e consequenzialità, l’antico e il nuovo, il profilo morale e pedagogico del governante, uomo che incarna l’ordine voluto da Dio, e la figura rappresentativa di un’istanza connaturata alla natura umana e sublimata in un’arte politica intesa come la scienza regina di tutte le scienze pratiche. Così come l’aveva presentata Tommaso nel suo proemio al commento alla Politica, un’applicazione dell’intelletto speculativo al concreto mondo dell’azione mossa dalla volontà. Se il risultato consiste in un’articolata struttura di argomentazioni concatenate e conchiuse, oltre che solidamente ancorate all’azione virtuosa, coerente con gli insegnamenti dell’Etica Nicomachea e i fondamentali del vivere da uomini della Politica, ciò si deve non tanto a un discorso di carattere logico-scientifico, in senso astratto, quanto piuttosto all’utilizzo degli strumenti della retorica. Come infatti Egidio dichiara sin dall’inizio, egli intende procedere figuraliter per convincere e persuadere, non per acquisire una verità scientificamente certa e valida in assoluto: troppe sono le varianti e troppi i condizionamenti posti dalla storia e dalla specificità degli uomini e delle situazioni. Se lo Stato, e quindi il governante, possono essere descritti, nei principi fondativi, con regole certe e assolute, altrettanto non si può dire del loro pratico radicarsi, consolidarsi e mantenersi in essere. Per fare ciò, ci si deve appellare alla volontà che, in quanto libera, si determina individualmente e occasionalmente, piuttosto che in riferimento a una astratta ragione generale.
Come afferma il Filosofo nel settimo libro della Metafisica, è necessario che l’ampiezza del discorso su qualsivoglia argomento sia commisurata a esso, né troppo lunga, né troppo breve. Se quindi intendiamo presentare l’arte e la conoscenza del governo dei principi e dei re, perché non siano poi necessari altri discorsi oltre a quelli che qui si presenteranno, in primis si deve chiarire quale sia il giusto modo di procedere in questa disciplina. Dunque è necessario sapere che, per quanto riguarda tutto ciò che attiene all’agire morale, secondo il Filosofo il discorso dovrà essere di tipo metaforico e generale: è necessario infatti in simili argomenti utilizzare un linguaggio allegorico e tipologico, poiché le azioni di carattere morale non sono completamente oggetto di narrazione. Possiamo quindi analizzare il nostro argomento sotto un triplice aspetto, dal momento che, come abbiamo detto, il modo di procedere in questa scienza è necessario che sia metaforico e generale. Il primo aspetto deriva dalla considerazione della materia che è oggetto della nostra ricerca; il secondo dovrà tener conto del fine cui l’arte di governo è rivolta; il terzo concernerà l’ascoltatore che dovrà essere educato a essa (De regimine principum, cit., I, I, 1, pp. 2-3).
Se la prima via deriva dalla particolarità dell’oggetto, atti concreti degli uomini soggetti alle particolarità individuali di tempo e di luogo, tanto che lo stesso Aristotele nel primo libro dell’Etica afferma al capitolo 3 che «è un errore credere che sia propria del matematico la persuasione, così come aspettarsi delle dimostrazioni scientifiche da un retore» (p. 3), e la seconda risulta con evidenza dal fatto che «prendiamo in considerazione l’agire morale, non per giungere alla contemplazione né per acquisire la sapienza, ma per diventare buoni. Dunque il fine cui tende la scienza morale, non è la conoscenza del suo agire, ma il prodotto di esso, né è la verità, ma il bene» (p. 3), la terza è molto interessante e all’origine della vastissima fortuna a cui andò incontro quest’opera. Essa è infatti programmaticamente destinata sì al governante, ma non esclusivamente a lui in quanto il buon governante, per il fatto di essere appunto ‘buono’, non può che indurre anche i suoi subordinati a seguirne la condotta. In questo modo, l’immagine altomedievale del re ordinato da Dio si coniuga con quella del rappresentante di un’intera comunità di uomini, che egli regge con giustizia ed equità e induce al ben fare garantendo il vivere bene. Come dirà esplicitamente in seguito, recuperando la trafila naturale della formazione dello Stato, dalla famiglia al borgo, alla città e al regno, anche chi non è re deve saper governare bene ciò a cui è preposto, perché il bene individuale non è che una parte del bene di tutti:
Per questo, se ai re e ai principi appartiene in modo particolare il governo di regni e città, altrettanto conviene che essi sappiano come governare la loro casa e di che tipo sia e cosa richieda per essere governata e in quale rapporto si ponga con il regno e la città, […] ed è così che saranno posti in grado di adempiere al loro ufficio. Si deve comunque notare con attenzione che per quanto re e principi debbano avere cognizione in modo speciale del bene del regno e dei loro domini, intendere un bene di quello stesso tipo spetta a tutti i cittadini e a ogni abitante delle città: infatti, il bene del regno è il bene di tutti i cittadini e di tutti coloro che vivono nel regno. Dunque, come ciascuno deve applicarsi per essere degno di regnare e governare e come spetta a tutti i cittadini di comprendere le finalità del regno, così è compito di ogni cittadino saper governare la sua casa, non solo in quanto un buon governo di tal genere costituisce il bene proprio, ma anche perché un simile governo è ordinato al bene comune, come al bene del regno e della città (II, I, 3, p. 225).
Fu questa concezione del bene comune, posta alle basi sia della fondazione di ogni comunità politica che del comportamento ‘civile’ di ogni membro di qualsivoglia aggregazione umana che, accanto a una precettistica di carattere generale, fece la fortuna dell’opera e della sua traduzione nelle lingue volgari in quanto capace di parlare un linguaggio comprensibile a chiunque; e ciò risulta evidente anche a una rapida scorsa degli argomenti trattati.
Il primo libro elenca le caratteristiche necessarie dal punto di vista morale per perseguire la felicità terrena, amando Dio e agendo con prudenza (I parte), le virtù idonee a tale compito, sottolineando che tutte debbono essere presenti perché anche la mancanza di una di esse comporta la nullità delle altre (II parte); passa poi all’analisi delle passioni dell’anima sottolineando l’importanza della moderazione (III parte), per indicare costumi e comportamenti adeguati alle varie fasi della vita, dall’infanzia alla vecchiaia e allo status sociale di ciascuno (IV parte). Nel secondo libro si ha una parafrasi aristotelica quanto all’origine della comunità umana, dalla naturalità della famiglia alle diversità di regime, coniugale, paternale e dominativo, e delle regole che normano i rapporti nei confronti del coniuge, dei figli e dei servi (I parte), mentre all’educazione dei figli e ai rapporti interfamiliari e con coloro che per natura, cioè per la debolezza del sesso o dell’ingegno, debbono essere sottoposti ai loro superiori, in una condizione che Egidio, seguendo Aristotele, definisce come una sorta di servitus aliquo modo naturalis, sono dedicate la II e la III parte. Ancora più diretto è il rapporto di dipendenza dal testo della Politica e, in più, dal commento tomista nel III libro, sia nella I parte, dove è ripresa l’analisi della costituzione delle città-Stato greche, che nella II e nella III, concernenti le condizioni necessarie all’esercizio del governo in tempo di pace e in tempo di guerra.
E qui, a proposito dell’importanza dell’influenza tomista (e dell’indipendenza di giudizio di Egidio), vale la pena di richiamare almeno due punti per quanto attiene alla prima e alla seconda parte del III libro. Nella prima parte, che riprende il primo libro della Politica, Aristotele aveva svolto una serrata critica, sia metodologica che di sostanza, alla proposta contenuta nella Repubblica di Platone riguardo al comune possesso di persone e cose, critica che Tommaso aveva fatto propria soprattutto per ragioni morali oltre che di effettiva praticabilità. Egidio, in prima istanza, ripropone la critica di entrambi, per concludere poi la lunga serie di capitoli a essa dedicati con una sorta di postilla interpretativa con cui intende restituire al progetto statuale di Socrate e Platone una dignità filosofica. Attribuisce infatti ad Aristotele (e a Tommaso) l’errore di essere rimasti troppo schiacciati, per così dire, sulla lettera del testo e di non averne colto lo spirito, non tenendo conto dello stile, metaforico e poetico, abituale ai due filosofi:
Come si è detto sopra, Socrate e Platone, suo discepolo, hanno sostenuto che la città deve essere governata e retta in modo tale che i cittadini abbiano in comune mogli, figli e proprietà. Il che, se è inteso in senso letterale, non è accettabile stando a quel che sappiamo, poiché era tipico del linguaggio dei platonici parlare facendo uso di metafore e paradossi. Un modo proprio di Socrate probabilmente, fatto poi proprio dall’allievo Platone. Se vogliamo intendere davvero le affermazioni di Socrate, e cioè non fermandoci a ciò che dice la lettera, potremo comprendere il senso del suo pensiero. Che tutto sia in comune per tutti i cittadini, stando alla realtà delle cose, non è né possibile né utile: se però facciamo appello all’amore e all’affetto che deve legarli tra loro, possiamo salvare il significato della comunità. Infatti, ogni cittadino deve amare gli altri come se stesso, e così deve amare le mogli, i figli e le proprietà altrui come le proprie. È questo, dunque, il modo in cui per i cittadini tutto deve essere in comune, affinché chiunque tenda verso il bene comune, che è di tutti, e così abbia cura (avendone la possibilità) delle cose degli altri come se fossero sue (De regimine principum, cit., III, I, 15, pp. 437-38).
Nella seconda parte, dedicata all’ordinamento dello Stato e alla sua condizione in tempo di pace, una serie di capitoli tratta del diritto come fonte della legge e della distinzione tra diritto naturale (che consegue a un istinto comune a ogni ente animato, appartiene a tutti ed è scritto nel cuore di ciascuno), diritto delle genti (che concerne tutti gli uomini in quanto tali), diritto positivo o civile (che invece deriva da una deliberazione specifica, e può variare da un tempo o un popolo all’altro, che dev’essere promulgata da chi detiene la rappresentanza della comunità e dev’essere scritta perché sia conosciuta da tutti) e diritto evangelico (che invece concerne l’acquisizione del bene ultimo e i mezzi per conseguirlo).
La lettura di questa analitica descrizione dei vari tipi di legge e delle loro finalità richiama immediatamente il gruppo di questioni della Summa theologiae tommasiana che tratta dello stesso argomento, con una differenza. Nell’Aquinate, il collegamento tra il progetto divino del mondo (quello che egli chiama legge eterna) e la legge umana o positiva è espresso nei termini di una più cogente consecutività, e l’esigenza di definizione della legge divina, o evangelica, lo induce a un’ampia e minuziosa discussione della legge mosaica per giustificare quanto di essa il messaggio evangelico, e la tradizione cristiana, ha fatto cadere e quanto invece ha mantenuto. Allo scopo di non porre in contraddizione con se stessa l’ispirazione divina, ma anche per confermare e rinsaldare il rapporto, teologicamente delicato al suo tempo, tra la Terra e il Cielo, tra il potere spirituale e quello temporale. Ed è questo un elemento importante per valutare l’importanza dell’opera egidiana, in cui non v’è traccia dell’annosa questione del confronto tra i due poteri, che diventerà invece, a distanza di pochi decenni, l’argomento delle sue due opere dedicate espressamente alla definizione e alla difesa del potere pontificio.
Il brevissimo pontificato di Celestino V, durato poco più di quattro mesi e conclusosi con la rinuncia di Pietro da Morrone, dette luogo a una crisi di vaste proporzioni all’interno della Chiesa, dal momento che l’elezione dell’eremita era stata salutata come una sorta di riscatto dell’originario spirito cristiano a fronte del temporalismo dei papi precedenti e perché si trattava di un evento unico nella sua storia millenaria. Nessun papa si era dimesso dall’incarico sin allora, e anche la normativa del diritto canonico non prevedeva una simile eventualità: gli unici riferimenti reperibili nel Decretum di Graziano e nel Liber Extra rimandavano per una possibile deposizione del pontefice regnante soltanto a cause fisiche o a comportamenti indegni o a manifesta e continuata professione di tesi eretiche. Nel caso specifico, la questione era complicata dall’opposizione al neo eletto Bonifacio VIII da parte dei cardinali Pietro e Giacomo Colonna, sostenuti dal favore del re di Francia, che ritenevano illegittima l’elezione di Benedetto Caetani in quanto a loro, e non solo a loro, avviso un pontefice poteva lasciare il suo ruolo soltanto per intervento di Dio stesso. Come si può facilmente comprendere, nel dibattito che ne seguì, le argomentazioni teologiche si legarono inestricabilmente con le ragioni politiche e costituirono lo sfondo di un contrasto che andò sempre più aggravandosi, innescando una serie di prese di posizione concernenti la liceità di una indagine prima e la definizione poi dell’effettivo potere concesso al successore di Pietro da Cristo stesso, sino alla tragica conclusione dell’oltraggio di Anagni, la morte di Bonifacio e l’inizio della cosiddetta cattività avignonese del papato.
In questa vicenda, nel corso della quale intervennero alcuni tra i più importanti maestri in teologia, si inserì nel 1297 anche Egidio, da due anni nominato da Bonifacio arcivescovo di Bourges, con un suo trattato in cui, facendo ricorso a un amplissimo corredo di citazioni bibliche, patristiche e filosofiche, sostenne la legittimità dell’elezione del Caetani dato che il papa, e nel caso specifico Celestino, ha la piena facoltà di recedere volontariamente dall’incarico affidatogli dal collegio cardinalizio. Per Egidio, infatti, il vero problema a cui va data soluzione in quel preciso momento è quello di legittimare pienamente l’operato di Bonifacio nei confronti della Chiesa – vale a dire le azioni, anche militari, nei confronti dei cardinali ribelli e delle frange spiritualistiche dell’ordine francescano – e del potere temporale, in particolare di fronte alle pretese del re di Francia, Filippo IV, al quale aveva dedicato vent’anni prima il De regimine principum. Si tratta, quindi, di un’analisi tutta interna alla concezione e alla struttura della Chiesa, con una chiara ripercussione però sui rapporti di questa con i poteri secolari.
Il punto di partenza del ragionamento di Egidio può essere individuato in due enunciati, di cui il primo, in positivo, è costituito dalla lettera ai Romani dell’apostolo Paolo: «non est enim potestas nisi a Deo: quae autem sunt, a Deo ordinatae sunt» (Romani 13, 1) e il secondo, in negativo in quanto tesi degli oppositori, dal seguente: «quia papalis potestas est a Deo, per solum Deum tolli potest» (De renunciatione Pape, ed. J.R. Eastman, 1992, IV, p. 152). Stando così le cose, se è certamente vero che ogni potere viene da Dio, è altrettanto indubbio che quel potere si esercita in un contesto storico ben determinato, per il quale è indispensabile l’apporto di un uomo che si fa carico del compito, quale che esso sia, affidatogli. Da ciò discende la necessità che vi sia qualcuno, uomo o collegio, che recepisca l’ispirazione divina e la trasmetta a qualcun altro che può accettarla o meno. In altri termini, l’operazione divina avviene attraverso un tramite umano e ha come destinatario un uomo il quale deve dare, liberamente, il suo assenso; e se la prima mediazione è necessaria per l’assenso, ciò non vale per la rinuncia, perché in quest’ultimo caso è sufficiente il solo atto di volizione dell’interessato che, nella pienezza del potere conferitogli e senza alcun superiore sopra di sé, può decidere «di non essere più papa»:
perché un uomo qualsiasi divenga papa è necessario che vi concorrano due fatti: […] l’assenso degli elettori e quello del prescelto. Invece, perché il papa non sia più papa, è sufficiente l’assenso del solo eletto, che decide di rinunciare alla carica e non essere più papa. […] non avendo alcun superiore sopra di sé, tutto è in suo potere. Infatti, non c’è nessun vincolo di legge che gli impedisca di rinunciare quando lo voglia. In effetti, potrebbe peccare rinunciando e potrebbe fare cosa meritevole non rinunciando. Se si rendesse conto di essere utile alla Chiesa e malgrado ciò rinunciasse, per timore della fatica, non volendo sottoporsi a un carico troppo grave, allora peccherebbe gravemente. Se invece dovesse constatare la sua incapacità di reggere il governo della Chiesa e volesse evitare ogni peggioramento del pubblico bene a causa sua e rinunciasse, allora sarebbe meritevole. La rinuncia è compresa nei suoi poteri e, una volta decisa e proclamata, sarebbe valida (De renunciatione Pape, cit., pp. 180-81).
Alla base di questo tipo di considerazioni vi è un passo del De civitate Dei (VII, 30) di Agostino, che Egidio cita a più riprese, in cui si sottolinea da una parte l’onnipotenza creatrice di Dio e, insieme, l’ordine sapienziale con cui essa si è ordinatamente dispiegata: «Dio governa le cose in modo da consentire loro di seguire il proprio corso» (p. 183). L’impulso creatore ha tratto le cose dal nulla e, nell’atto stesso con cui le ha chiamate all’esistenza, ha dato regole interne per i loro processi. Nel caso in esame, come il pontefice, successore di Pietro e vicario di Cristo, non ha alcun superiore e non può essere giudicato da alcuno, così solo alla libertà della sua coscienza, che è la più alta facoltà concessa da Dio agli uomini, è lasciato il diritto-dovere di mantenere oppure cedere l’ufficio a cui è stato chiamato.
L’insistenza sulla citazione agostiniana si accompagna, nel testo, al largo uso del Liber sententiarum di Pietro Lombardo proprio perché il fondamento teologico di tutta la trattazione risulti chiaramente anche nei suoi riflessi mondani. La posizione di una larga parte dei teologi e degli ecclesiastici francesi era favorevole a Filippo che, non a caso, di contro all’universalismo della Chiesa aveva convocato la prima assemblea del ‘popolo’ francese nella sua triplice composizione degli stati (nobiltà, clero, cittadini). Se le minacce di Bonifacio, di voler muovere il Cielo e la Terra contro di lui, erano solo parole, a esse il re era pronto a rispondere con soldati in carne e ossa, aveva obiettato l’ambasciatore Pierre de Flotte, ed Egidio, per aver vissuto per parecchi anni in Francia, era ben consapevole della loro forza d’urto. Ragione di più per confermare l’eccezionalità della posizione del papa, «uomo totalmente spirituale che non può essere giudicato da alcuno», vicario di Cristo e, a suo nome, signore del mondo come lo denominerà la bolla Unam sanctam (18 novembre 1302), il più alto ed esplicito manifesto della concezione teocratica.
Per quanto, ponendo fine al trattato, Egidio scriva che la questione concernente la rinuncia al papato da parte di un papa, come Celestino, legittimamente eletto abbia un carattere sia teologico che giuridico, e che con argomenti teologici e giuridici vada affrontata e risolta, non v’è dubbio che il vero problema è quello di dare una convincente patente di legittimità a Bonifacio VIII, alla sua idea dei poteri inerenti all’ufficio papale nella Chiesa e soprattutto nei confronti del potere temporale.
Questo intento si disvela compiutamente sia nel sermone, recentemente scoperto e pubblicato, sui poteri del papa sia, soprattutto, nel De ecclesiastica potestate, scritto nel 1302, nel momento culminante della crisi tra Roma e Parigi. Se nel De regimine principum Egidio aveva abilmente utilizzato i fondamentali della retorica, dell’etica e della politica aristotelica per delineare i caratteri propri di un giusto potere temporale, illustrando le caratteristiche dell’uomo come animale sociale e politico e relegando a un ruolo assai marginale la Chiesa e le sue istituzioni, in quest’opera l’ottica è completamente ribaltata: adesso è lo Stato a scomparire, o meglio a esso è concesso di entrare nell’ambito del discorso solo nella misura in cui, privato di una sua dignità autonoma, è giustificato e riassorbito nella Chiesa. E non si tratta tanto di un mutamento dovuto a un riconoscimento di piani diversi nell’osservazione della realtà, quanto piuttosto di una visione delle cose, dell’ordine creato, che totalmente esclude una funzione dello Stato al di fuori della chiesa universale.
Il De ecclesiastica potestate ha infatti lo scopo di definire e illustrare il significato totalizzante della plenitudo potestatis attribuita al papa sia come dominium sulle cose che come iurisdictio sulle persone e le loro istituzioni. A tal fine, Egidio parte, per così dire, da lontano, e cioè da una esegesi sulle fonti bibliche atta a dimostrare che la maggiore o minore capacità della persona nel ricoprire un ruolo che, nella misura in cui si colloca al più alto grado del gradimento divino, lo qualifica come prescelto, lo rende perfetto. Così, per analogia, il ruolo pontificale che deriva dalle stesse parole di Cristo, attraverso la successione petrina, rende l’uomo rivestito di tale incarico, benché ‘indegno’ in quanto uomo, il più vicino a Dio e per ciò stesso l’incarnazione stessa della Chiesa; in lui infatti è depositato l’intero potere delle chiavi, che lo rende simile a Dio e al vertice di una gerarchia, quella ecclesiastica, strutturata a somiglianza della gerarchia angelica, secondo le parole dello pseudo Dionigi Areopagita. Il suo governo della Chiesa, inoltre, richiama anch’esso il governo di Dio sul mondo dal momento che, come Dio governa usualmente la realtà creata attraverso le leggi naturali, ma si riserva il diritto di intervenire in prima persona, con il miracolo, quando lo ritiene necessario, sospendendo quelle leggi, così il pontefice, che ha nelle sue mani l’intero mandato divino, delega solitamente l’azione ecclesiastica ai vari gradi della gerarchia ma, «agisce al di fuori delle leggi stabilite e del percorso consueto allorché insorge una ragionevole causa», può decidere di saltare le cause seconde e operare con tutto il potere che gli deriva dall’essere la causa prima di ogni atto.
In tal modo, il pontefice di cui Egidio tratteggia la figura in qualche modo richiama alla mente il «principe non vincolato dalle leggi» della tradizione giuridica romana, che agisce in piena libertà grazie alla legittimità propria a ogni azione sovrana in quanto tale: ognuno deve essere sottomesso all’autorità legittima (come si deduce dalle lettere di Pietro e di Paolo), e la legittimità deriva solo dall’ordine divino. A supporto di queste posizioni, Egidio richiama ancora una volta l’Agostino del De civitate Dei, laddove il vescovo di Ippona sottolinea che il fondamento di una sovranità legittima è solo la giustizia, una giustizia che egli definisce non umana né positiva ma vera in senso assoluto perché: «la vera giustizia c’è soltanto in quello stato che riconosce in Cristo il suo fondatore e la sua guida» (De civitate Dei, II, 21), per cui: «se non c’è giustizia, che cosa sono i regni se non delle rapine in grande stile?» (IV, 4). La conclusione consiste quindi nella rivendicazione, da parte della Chiesa di cui il pontefice è vertice e incarnazione, del potere di garantire la legittimità di ogni governo attraverso l’erogazione dei sacramenti, e quindi solo all’interno della Chiesa può avere una sua collocazione un potere temporale distinto da quello spirituale e a esso subalterno.
La Chiesa assume pertanto un ruolo totalizzante nella società umana, anzi la Chiesa è la stessa unica vera società degli uomini poiché il potere legittimo deriva solo da Dio, è depositato nella Chiesa e per essa nelle mani del papa, e ogni potere temporale può essere legittimato solo dal papa mentre quest’ultimo è legittimato da Dio. L’ordine gerarchico dei poteri rispecchia l’ordine della creazione. Le ultime parole della bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII non dicono niente di diverso da questo:
La Verità stessa afferma che il potere spirituale ha il compito di istituire il potere temporale e, qualora non si dimostrasse buono, di giudicarlo. Così si avvera il vaticinio di Geremia (I, 10) riguardo alla Chiesa e al potere della Chiesa: “Ecco, oggi ti ho collocato al di sopra dei popoli e dei regni” etc. Dunque, se il potere terreno devia dal retto percorso, sarà giudicato da quello spirituale; se degenera il potere spirituale inferiore, sarà giudicato dal suo superiore; ma se è il supremo potere spirituale a deviare, potrà essere giudicato soltanto da Dio e non dall’uomo, come attesta l’Apostolo (I Cor. 2, 15): “L’uomo spirituale giudica tutte le cose, ma non è giudicato da nessuno”. Questa autorità, infatti, per quanto sia conferita a un uomo e da lui esercitata, non è umana ma divina, attribuita per bocca di Dio a Pietro, e resa intangibile per lui e per i suoi successori in colui che lui, la pietra, aveva confessato, quando il Signore gli disse: “Qualunque cosa tu legherai” etc. Per questo, chiunque si opponga a questo potere istituito da Dio, si oppone all’ordine voluto da Dio […]. Quindi noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo e affermiamo che è assolutamente necessario per la salvezza di ogni creatura umana che essa sia sottomessa al Romano Pontefice. Dato in Laterano il 18 novembre, nell’ottavo anno del nostro pontificato.
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