Egitto
Gli Egiziani, in tutte le cose si sono dati costumi e leggi al contrario degli altri uomini
(Erodoto)
La nuova stagione dell'archeologia egiziana
di Sergio Pernigotti
3 marzo
Uno studioso del Center for remote sensing dell'Università di Boston, Farouk el-Baz, indica nelle sculture naturali esistenti nel deserto occidentale egiziano i modelli dei monumenti funebri della piana di Giza: si tratta di piccole colline calcaree, modellate, in forme piramidali o con le sembianze di leoni accovacciati, prima dall'erosione delle acque (nella fase umida, tra 11.000 e 5000 anni fa) e poi dall'azione del vento. L'interesse con cui viene accolta la notizia è una riprova dell'attenzione riservata alla ricerca archeologica in Egitto, che negli ultimi anni ha portato a numerose importanti scoperte.
La ripresa delle scoperte
Quando nel 1976 si tenne al Cairo il primo Congresso internazionale degli egittologi (fiore sorprendentemente tardivo di un'ormai ricca stagione congressuale), la sensazione generale che provava la maggior parte degli studiosi presenti era che il grande periodo delle scoperte archeologiche in Egitto fosse ormai, e da tempo, terminato: l'essenziale di quello che vi era da riportare alla luce era stato trovato e il suolo del paese, che era stato così ricco in passato - il culmine fu raggiunto, fra gli anni Venti e gli anni Trenta del 20° secolo, con la scoperta della tomba di Tutankhamen e delle necropoli regali di Tanis - si fosse, per così dire, fatto sterile.
Volendo allargare un po' i limiti di una stagione singolarmente ricca di novità archeologiche, a questi ritrovamenti, noti a tutti, si potevano aggiungere quelli, dovuti per la verità a scavi non ufficiali, per non dire clandestini, e comunque privi di documentazione, che nei primi anni Trenta avevano portato alla luce i testi manichei in copto (3000 pagine di codici papiracei) a Medinet Madi nel Fayyum, e l'altrettanto sensazionale scoperta di un'intera biblioteca gnostica (sempre in copto) a Nag Hammadi nel 1945. Anche l'archeologia italiana era stata presente in tale fortunata ricerca: sempre a Medinet Madi nel Fayyum, una missione dell'Università statale di Milano, diretta da Achille Vogliano, aveva trovato, in eccellente stato di conservazione, un tempio della XII dinastia (regni di Amenemhat III e IV), uno degli unici due ancora in piedi che sino a oggi ci siano giunti di questo periodo storico di cruciale importanza nella storia dell'Antico Egitto.
Dopo la Seconda guerra mondiale gli scavi si erano andati a mano a mano allargando a tutto il paese, con il ritorno delle missioni che già vi avevano lavorato in passato e di altre ancora provenienti da nazioni in cui lo studio dell'Antico Egitto era un fatto recente. Ma i risultati non erano tali da far pensare a una stagione confrontabile con quella che si era appena chiusa. Ci si potevano aspettare certamente chiarimenti e precisazioni, ma si sarebbe trattato forse non molto di più che di completamenti di dettaglio. Non a caso al Congresso del Cairo i temi più diffusi erano stati quelli concernenti la filologia, con il proposito a essa connesso di mettere a frutto l'avanzamento delle conoscenze della lingua nell'esame dei testi già noti in precedenza.
Invece, fortunatamente, gli anni seguenti hanno dimostrato che le cose non stavano affatto così. Si è giunti anzi a quello che può ora apparire l'estremo opposto: il quasi quotidiano annuncio nella stampa e nei media di sempre nuove scoperte, regolarmente qualificate come 'sensazionali'. Una cosa è certa: l'egittologia sta vivendo una stagione felice e l'infittirsi dei ritrovamenti importanti è un fatto reale, anche se, come è naturale, nella massa delle novità qualche distinzione deve essere fatta.
Un esempio può essere indicato proprio nell'annuncio del ritrovamento nel deserto dei prototipi, se così si possono qualificare, delle piramidi e delle sfingi, modellate dal vento, spontaneamente, nel malleabile calcare dei deserti egiziani. Certo, questa è un'esperienza che molti, forse tutti, hanno fatto in Egitto, guardando scorrere sotto gli occhi il paesaggio nel deserto: l'erosione eolica modella piramidi grandi e piccole e altre forme che poi ognuno legge a modo proprio, forse anche sfingi. Si tratta di un dato reale, ma è difficile pensare che tra questi fenomeni naturali e la costruzione delle piramidi o delle sfingi vi sia stato un rapporto di causa ed effetto. Le une (le piramidi) e le altre (le sfingi) nascono all'interno di precise concezioni di carattere religioso e rituale e sono frutto di un pensiero che si proietta nell'architettura (o nella scultura) per trasmettere agli altri un'ideologia che così diventa facilmente afferrabile. Quello che non si può negare è che gli architetti egiziani avevano ben presenti i dati paesaggistici che li circondavano, sì che non è affatto da escludere che nell'elaborazione dei loro progetti ne abbiano tenuto conto: non sarebbe il solo caso.
Ma, a parte questo atteggiamento che forse potremmo definire 'sentimentale', molte delle nuove e rilevanti scoperte dell'archeologia egiziana si collocano all'interno di un sostanziale mutamento dell'approccio degli studiosi verso il lavoro sul campo in Egitto. Tale cambiamento ha cominciato a manifestarsi soltanto in anni recenti, ma è evidente che di esso si stanno raccogliendo già frutti copiosi.
Archeologia egiziana
Il mutamento concerne anzitutto il riconoscimento stesso dell'esistenza all'interno degli studi egittologici di un'archeologia egiziana come disciplina dotata di autonomia scientifica, metodologica e di tecniche di scavo. Per quanto la conoscenza dell'Antico Egitto negli ultimi 150 anni sia passata inevitabilmente attraverso lo scavo dei grandi monumenti e delle grandi necropoli, tuttavia l'archeologia è sempre stata vista soprattutto in funzione del recupero di oggetti e di documenti scritti: in questo appariva certo indispensabile, ma scientificamente meno rilevante di altri aspetti della ricerca egittologica.
Quando già da molto tempo in altre aree del Mediterraneo e del Vicino Oriente, per citare solo quelle contigue all'Egitto, la ricerca archeologica impiegava le tecniche dello scavo stratigrafico che si andavano facendo sempre più raffinate e più ricche di risultati, in Egitto a lungo lo scavo è stato visto solo come un'operazione diretta a liberare i monumenti dalla sabbia e a recuperare oggetti d'arte o iscrizioni. Per quanto il nuovo status dell'archeologia egiziana, oggi ormai accettato da tutte, o quasi, le numerose missioni che lavorano nel paese, non abbia avuto ancora un adeguato riconoscimento accademico, tuttavia l'adozione delle più raffinate tecniche di scavo ha permesso l'acquisizione di dati che per molto tempo sono andati inesorabilmente perduti e che oggi invece consentono di scrivere una storia dell'Antico Egitto che è per certi aspetti grandemente innovativa.
La novità maggiore in un'egittologia che a lungo ha privilegiato - e in un certo modo ancora privilegia - la filologia, e cioè lo studio degli innumerevoli testi scritti che il suolo egiziano è venuto senza sosta restituendo, è la possibilità di 'rovesciare' direttamente in storia i dati archeologici, senza passare per il tramite della filologia. Tale acquisizione si è rivelata fondamentale per la ricostruzione di quei periodi storici in cui la scrittura - le fonti scritte, in realtà - fa difetto, sia perché essa non era stata ancora 'inventata' o perché si trovava in una fase ancora aurorale della sua esistenza, essa stessa quindi oggetto di indagine storica nel suo divenire e non fonte di eventi attraverso la narrazione, sia infine perché circostanze di ordine storico (e archeologico) non precisamente definibili non hanno permesso la conservazione di fonti narrative.
Ciò è avvenuto - ma si tratta di una fase della ricerca ancora in atto e quindi suscettibile di novità in ogni istante del lavoro sul campo sia nel presente sia nel futuro immediato - essenzialmente per il periodo predinastico e protodinastico, fin circa alla fine della II dinastia, e per il cosiddetto periodo hyksos, tra il 17° e il 16° secolo a.C., quando si costituì un principato straniero al Nord, con capitale ad Avaris. Tale periodo, tradizionalmente caratterizzato dalla mancanza di fonti scritte, apre una sorta di parentesi assai difficile da colmare e per ciò stesso rappresenta una vera anomalia nella storia egiziana, certo legata a una radicale damnatio memoriae che colpì la prima dominazione straniera che l'Egitto ebbe a subire nel corso della sua lunga storia.
Una seconda importantissima novità della ricerca archeologica è data dall'estensione della ricerca ad aree che ne erano rimaste tradizionalmente escluse o in cui essa aveva avuto un valore assolutamente marginale. Per una tradizione del resto giustificata dalle peculiarità del suolo egiziano e delle sue interne divisioni geografiche, gli scavi hanno riguardato, per i primi 150 anni dell'archeologia egiziana, soprattutto la zona compresa tra le necropoli regali dell'Antico Regno a Nord e l'estremo Sud del paese, e specialmente alcune zone della Valle del Nilo che furono privilegiate per l'affiorare in superficie dei grandi monumenti del culto e delle necropoli.
Una ragione molto importante stava alla base di tale scelta: le condizioni di conservazione dei monumenti antichi nella Valle del Nilo erano particolarmente favorevoli all'ottenimento di risultati importanti quanto immediati. Né si può censurare, oggi, in presenza di una più raffinata idea della ricerca archeologica, questo modo di procedere: non c'è dubbio che le grandi necropoli regali andavano scavate e altrettanto può ripetersi per i templi destinati al culto degli dei e per le altre necropoli, disseminate un po' dovunque lungo le basse colline che costeggiano, a est e a ovest, il percorso del fiume. E anche le opere d'arte che esse celavano andavano evidentemente recuperate: meno viva era allora la coscienza che in tal modo si privilegiava un'immagine storica dell'Antico Egitto sostanzialmente centrata sulla civiltà che era stata elaborata soltanto in una parte del suo territorio, quella meridionale, lasciando nell'oscurità il contributo dato al suo sviluppo dalle altre zone del paese.
Occasionali e comunque modesti, malgrado i risultati spesso importanti - si pensi alla necropoli regale di Tanis -, sono stati gli scavi del Delta, specialmente dedicati, almeno inizialmente, a trovare le tracce del percorso dell'Esodo, e quasi inesistenti quelli nelle oasi esterne, ovvero le oasi che si trovano in una lunga fila, con orientamento sud-nord, nel deserto libico, in cui tutto si è limitato a pionieristiche prospezioni di superficie da parte dell'archeologo egiziano Ahmed Fakhri. Un caso particolare è stato quello del Fayyum, una semioasi a poco più di 90 km a sud-ovest del Cairo, dove particolari condizioni climatiche e di paesaggio rurale hanno permesso la conservazione di vaste aree urbane, per lo più di età tolemaica e romana, tutt'intorno alla zona coltivata. Queste sono state precocemente oggetto di campagne di scavo per la possibilità, poi rivelatasi realistica, del ritrovamento di grandi quantità di papiri greci ed egiziani.
La grande novità dell'archeologia egiziana sta nel fatto che ora tali aree tradizionalmente trascurate sono sottoposte a scavi sistematici di grande importanza: la combinazione di due elementi, diversi ma concorrenti - l'uso di tecniche raffinate e l'indagine di aree poco o nulla esplorate - ha fatto sì che risultati di grande importanza non si siano fatti attendere e abbiano perciò aperto una nuova stagione nella nostra conoscenza dell'Antico Egitto.
Ma il panorama sopra tracciato non sarebbe completo se non venisse menzionata l'ultima arrivata nelle specializzazioni dell'archeologia egiziana, questa veramente senza precedenti rilevanti: l'archeologia subacquea. Il suo campo privilegiato di indagine riguarda, come è ovvio, i fondali marini immediatamente antistanti la costa mediterranea dell'Egitto, soprattutto il porto di Alessandria e, almeno sul piano progettuale, l'Isola di Nelson nella Baia di Abukir.
Non si deve tuttavia credere che le aree archeologiche tradizionali si debbano considerare definitivamente esaurite e che vadano quindi abbandonate a favore di quelle sopra brevemente descritte. Va detto, anzi, che alcune delle scoperte più importanti sono state fatte proprio in zone tradizionalmente molto scavate e che veramente sembravano destinate a non dare più alcun risultato, se non per qualche particolare apprezzabile soltanto dagli specialisti. Ciò dipende non poco dal fatto che spesso l'indagine condotta sul campo, anche da archeologi di grande valore come il britannico William Matthew Flinders Petrie, si limitava agli strati superficiali, sì che quelli inferiori e più antichi rimanevano (e spesso rimangono) da indagare, al di fuori di quegli scavi di rapina condotti alla fine dell'Ottocento nella necropoli di Abydos, che sembravano avere irrimediabilmente compromesso la possibilità di studi ulteriori sul medesimo sito.
Nella nostra rassegna converrà prendere le mosse proprio da queste zone e proseguire la nostra esposizione da sud verso nord secondo un percorso che non sarebbe dispiaciuto agli antichi egizi.
Abydos, Luxor e la Valle dei Re
Le zone che al Sud si sono rivelate come le più importanti sono la necropoli di Abydos e due delle aree dell'archeologia egiziana più esplorate in ogni tempo, il tempio di Luxor e la Valle dei Re, meta tradizionale non solo di ricerche sul campo ma anche del turismo internazionale.
Per quanto riguarda Abydos le scoperte sono state veramente sensazionali e, soprattutto, hanno portato all'acquisizione di importanti dati storici. Sono state nuovamente indagate le tombe regali tra tardo predinastico e fine della II dinastia: ciò ha portato al rinvenimento delle barche funerarie dei sovrani di questo periodo, ordinatamente disposte all'interno di alloggiamenti in mattoni.
Apparentemente, la scoperta è solo il seguito, a distanza di molti anni, di quella della cosiddetta 'barca solare', compiuta presso la piramide di Cheope a Giza, solo più antica e più grande dal punto di vista del numero delle barche rinvenute. In realtà non è così, perché essa si colloca in una diatriba mai sopita tra gli studiosi su quale fosse la vera necropoli regale nelle prime due dinastie, se quella di Abydos o quella di Saqqara, molto più a nord, alla periferia di Menfi. La presenza delle barche funerarie - ché tali sono quelle scoperte, destinate a 'traghettare' nell'aldilà il sovrano defunto, il dio che muore per risorgere nel mondo degli dei a cui egli comunque appartiene e al quale ritorna dopo la morte - ha risolto definitivamente il problema a favore di Abydos, relegando quelle di Saqqara al ruolo più modesto di tombe principesche, non di cenotafi regali.
Un altro e forse ancora più importante risultato è stato quello di riconoscere la persistenza - non sospettata prima e comunque relegata dagli studiosi a una remotissima antichità - della messa a morte rituale dei funzionari di grado più elevato al momento della morte del sovrano. In realtà, il disporsi a partire dalla III dinastia delle tombe dei 'cortigiani' in ordinate 'città' dei defunti attorno alle piramidi dei loro re faceva ritenere che tale usanza fosse esistita nel passato, ma essa veniva collocata in un periodo molto anteriore a quello dinastico. Ora sappiamo che tale rito cruento - non limitato ai soli animali - è durato fino alla fine della I dinastia.
Infine, lo scavo della tomba regale predinastica chiamata U-j dal suo scavatore, Günter Dreyer, ha portato al rinvenimento di una notevole quantità di documenti scritti, per lo più placchette di osso. I caratteri, che si possono provvisoriamente definire proto-geroglifici, hanno permesso di retrodatare di circa 150 anni i più antichi esempi di scrittura in Egitto e di giungere quindi a uno stadio molto vicino alla sua 'invenzione' o alla sua introduzione. Sulla base di questi dati è possibile affermare che ci troviamo molto vicino a quella che si può definire la nascita dello Stato nell'Antico Egitto, in cui il differenziarsi delle strutture sociali e l'introduzione della scrittura - qualunque sia stata la sua origine - segnano il passaggio da forme elementari di organizzazione sociale (il chiefdom degli studiosi di lingua inglese) a forme assai più complesse, paragonabili al concetto moderno di Stato.
Non si creda peraltro che le continue scoperte di questa importantissima zona archeologica, che non a torto è stata considerata come la 'culla' della civiltà egiziana, si colgano solo quando esse raggiungono grandi dimensioni dal punto di vista monumentale o da quello numerico. Recentemente Dreyer ha portato alla luce una placchetta frammentaria, del genere di quelle che si definiscono annuali perché conservano la memoria dell'avvenimento caratterizzante - in quanto giudicato il più importante - di un dato anno nella cronologia del sovrano regnante, secondo un arcaico modo di datazione, in seguito abbandonato per forme più semplici ma del quale a lungo sono rimaste le tracce. La placchetta risale al regno di Narmer, che vi è infatti menzionato, e ricorda lo stesso evento, la sconfitta dei nemici del Delta, che si trova raffigurato nella celebre 'tavolozza' conservata al Museo del Cairo e a lungo - e forse non a torto - considerata come la testimonianza che l'unificazione dell'Egitto, che ha dato vita al periodo dinastico, fu opera proprio di tale sovrano.
Nella zona di Luxor si sono avuti due ritrovamenti di grande interesse, proprio in due luoghi, relativamente poco distanti l'uno dall'altro, in cui sembrava che ormai non vi fossero più speranze di rinvenire nulla, anche per la continua frequentazione dei turisti che non rendeva agevole, né forse opportuna, la ricerca archeologica.
La prima scoperta è stata casuale: all'interno di uno dei cortili del tempio di Luxor, in seguito a lavori imposti dalla precaria staticità di alcune delle colonne dell'edificio di culto, l'archeologo egiziano Mohammed el-Saghir ha rinvenuto, interrata sotto il piano di calpestio, una serie di statue di sovrani e di divinità, in genere in ottimo stato di conservazione, databili tra la XVIII e la XXV dinastia. Si tratta di esempi di una statuaria della più elevata qualità che recano un importante contributo alla storia dell'arte egiziana nel periodo dell''impero'. Gli studiosi non hanno potuto non ricordare la scoperta della cosiddetta cachette di Karnak, compiuta nei primi anni del Novecento, quando circa 2 km a nord del tempio di Luxor, presso uno dei piloni del tempio di Karnak, in un ripostiglio, come recita il termine francese, in realtà una semplice fossa ricavata nel terreno, vennero trovate accatastate mille statue di pietra e in bronzo raffiguranti re, privati e divinità. Quella della cachette di Karnak fu una scoperta unica nella storia dell'archeologia egiziana, fin eccessiva per le generazioni di studiosi che da allora si sono susseguite, se ancora una buona parte di quelle statue resta inedita e se solo di recente vi è stata una ripresa di interesse nei loro confronti con una serie di pubblicazioni tuttavia non ancora esaurienti di quanto rimasto non pubblicato. La scoperta di Luxor non regge il paragone dal punto di vista numerico, ma supera quella precedente per la qualità artistica che ha giustificato un'apposita collocazione nel magnifico museo di Luxor. È vano in un caso e nell'altro domandarsi la ragione per cui le statue furono sepolte, se per preservarle da invasioni di eserciti stranieri e in tal caso di quali (assiri, persiani?), o per altri motivi, assai più banali, come la necessità di far spazio nei cortili dei templi più affollati di statue votive, come appare più probabile: resta il fatto che è possibile ora scrivere un importante capitolo della storia dell'arte egiziana.
L'altra scoperta si colloca nella Valle dei Re, e può forse definirsi meglio come una riscoperta, il che non ne diminuisce affatto il valore: è stata portata alla luce una grande sepoltura collettiva destinata a ricevere i corpi dei figli di Ramesse II, 30 su un possibile totale di 32. La tomba venne 'visitata' nel 1825 e poi nuovamente perduta, con il suo ingresso sommerso da un'enorme quantità di detriti: solo la necessità di provvedere a un allargamento della strada asfaltata percorsa ogni anno da centinaia di migliaia di turisti ha portato al suo ritrovamento. L'archeologo americano al quale si deve lo scavo dell'imponente struttura, Kent R. Weeks, ha potuto affermare con giusto orgoglio che si tratta della più importante scoperta nella Valle dei Re dai tempi in cui Howard Carter scoprì la tomba di Tutankhamen. È questo un fatto assolutamente incontestabile, non solo e non tanto perché si tratta di una sepoltura di grandi dimensioni e per l'importanza dei personaggi che vi sono stati inumati, ma soprattutto perché il suo ritrovamento ha permesso di conoscere una tipologia dell'architettura funeraria fino a oggi non solo del tutto sconosciuta, ma francamente neanche ipotizzabile: una grande tomba ipogea destinata ad accogliere tutti i figli di un medesimo sovrano non pareva potesse rientrare nelle concezioni che stanno alla base del rituale funerario regale. È possibile tentare di abbozzare una spiegazione di questo che è forse un unicum dell'architettura egiziana. Il progetto di un mausoleo in cui riunire le tombe dei suoi figli rientra bene nell'ideologia della regalità di diritto divino che ha costituito il fondamento stesso del regno di Ramesse II e che il sovrano ha manifestato in molti modi diversi. Tale ideologia riguardava sì in primo luogo il re-dio che sedeva sul trono d'Egitto, ma si estendeva anche a tutta la sua famiglia, coinvolta nella e dalla divinità del faraone: e allora l'idea di una tomba-mausoleo in cui raccogliere i suoi figli, tutti suoi potenziali successori, trova una spiegazione perfettamente in linea con quella della regalità divina che risale fino al 3° millennio e che, dopo una lunga crisi, era diventata nuovamente centrale in Egitto a partire dal regno di Ekhnaton per giungere alla sua massima esaltazione proprio con Ramesse II.
Il Delta del Nilo
Possiamo passare all'altro estremo geografico dell'Egitto, il Delta del Nilo, diventato ora teatro di numerose ricerche sul terreno, anche in seguito a una deliberata politica culturale del governo egiziano che vede con occhio particolarmente favorevole l'attività di missioni di scavo nelle aree che in passato erano state trascurate, come si è detto. In quest'area vi è il problema di un terreno in genere poco adatto alla conservazione dei grandi monumenti, con l'acqua che arriva spesso molto vicina alla superficie, ciò che comporta la perdita dei materiali più deperibili, come il legno e i preziosissimi papiri, ma che ha provocato anche la scomparsa di grandi centri urbani, come per es. Sais con i suoi grandi edifici di culto; inoltre, un'intensa antropizzazione ha fatto sì che templi e case venissero utilizzati per ricavarne materiali edili.
Vi sono non solo difficoltà di ordine tecnico nel lavoro sul campo, ma anche problemi molto seri di interpretazione dei dati di scavo, le une e gli altri compensati però dalla novità dei risultati, spesso di carattere rivoluzionario rispetto a una visione tradizionale della storia egiziana. In certi casi, come in quello della neonata archeologia subacquea, è troppo presto per una valutazione d'insieme, ma i primi ritrovamenti, che vanno dai relitti recanti carichi di anfore a frammenti architettonici, forse del faro, e statuari, rinvenuti sui fondali del porto di Alessandria, sono molto promettenti.
Per ora le novità più significative stanno altrove. In primo luogo, ancora una volta, come nel Sud, esse concernono il periodo predinastico. Gli scavi condotti in diversi siti del Delta hanno portato a una notevole coerenza di risultati che ne assicurano il valore non occasionale. Si è andato delineando un quadro dal quale pare evidente che, a differenza di quanto si riteneva fino a qualche anno fa, la 'conquista' del Nord da parte del Sud, così vivacemente testimoniata dalla tavolozza di Narmer, ha avuto in realtà un iter assai lungo, costituito da lente infiltrazioni di gruppi umani provenienti dal Sud e progressivamente stanziati nel Delta, sì che l'evento militare che ha portato all'unificazione del paese sotto un unico sovrano è stato solo l'atto finale di un processo storico che si era andato sviluppando con modalità completamente diverse e che si stava ormai esaurendo.
La stratigrafia dei siti indagati, infatti, mostra con grande chiarezza e sorprendente coerenza che sulle culture del Delta si erano andate progressivamente sovrapponendo quelle meridionali: un dato che sembra testimoniare, da un lato, una frattura netta rispetto al periodo precedente e, dall'altro, l'arrivo, per lente migrazioni, e non per avvenimenti di carattere militare - pur possibili ma poco probabili prima della fase finale della dinastia '0' - di popolazioni del Sud; la presenza nell'Egitto settentrionale delle loro culture non può perciò considerarsi come il frutto occasionale di contatti tra gruppi umani contigui. Tali conclusioni possono apparire provvisorie ma sono in realtà solidamente fondate sui dati archeologici e sono destinate a produrre effetti non solo sul piano della ricostruzione del processo storico che ha portato all'unificazione del paese, ma anche su altri, come la storia religiosa e forse anche la storia della lingua, in cui l'apporto del Sud, per es. sul piano della formazione del lessico, dovrà essere tenuto nel debito conto.
Tuttavia, il ritrovamento che ha portato maggiori e anche più visibili risultati, è stato quello che ha riguardato la capitale degli hyksos, l'Avaris menzionata da Manetone, che invano era stata cercata in un'ampia zona del Delta orientale: tra i molti siti urbani che si trovavano in tale area, vari erano stati quelli su cui si era concentrata l'attenzione degli studiosi, senza che ciò portasse a conclusioni generalmente accettate. Oggi il problema è stato risolto grazie agli scavi condotti da una missione archeologica austriaca che lavora ormai da vari anni, sotto la direzione di Manfred Bietak, in un sito del Delta orientale che prende il nome di Tell el-Daba, portando alla luce, anno dopo anno, un sito urbano dalla complessa stratigrafia. Le tecniche costruttive e l'architettura di tipologia cananea non consentono dubbi sull'identificazione di questo insediamento con la Avaris di Manetone, completamente rasa al suolo dopo la cacciata degli hyksos dall'Egitto in una rigorosa damnatio memoriae che ne aveva impedito fino a oggi il ritrovamento. Lo scavo di Bietak permette di riconoscere nei vari strati riportati alla luce il momento dell'insediamento dei conquistatori provenienti da est, il loro stabile stanziamento nella città e infine il loro progressivo adattarsi al paese conquistato secondo un processo che potremmo definire di 'egittizzazione', prima della loro cacciata, con la distruzione della capitale e il successivo insediamento della XVIII dinastia.
Entro questa già molto significativa scoperta se ne colloca un'altra non meno importante. All'interno di un edificio è stato trovato, frantumato in numerosi frammenti, l'intonaco dipinto che ornava le pareti di una stanza, rappresentando - come è stato chiarito in seguito a una paziente opera di ricostruzione - una scena di tauromachia di chiara origine minoica. La presenza di una tale decorazione pittorica in una stanza di un edificio di Avaris permette di aprire una serie di prospettive storiche completamente nuove, anche se ancora difficili da valutare con precisione: non tanto l'esistenza di rapporti con Creta e il mondo minoico in generale, che poteva agevolmente ammettersi anche in assenza di prove specifiche ed esplicite, quanto piuttosto lo stabile insediamento di genti provenienti dall'area minoica in Egitto. Restano da capire le ragioni di tali presenze. Il problema si presenta molto arduo soprattutto per la mancanza di testi scritti, hyksos o egiziani: l'ipotesi concernente la presenza di un fondaco, e quindi di rapporti commerciali, o quella di un matrimonio principesco con l'arrivo in Egitto di una principessa minoica, sono ugualmente compatibili con i dati archeologici ma di impossibile dimostrazione. Gli scavi di Tell el-Daba sono ancora in corso ed è quindi legittimo attendersi nuovi dati dal loro proseguimento. In definitiva, però, sulla base dei ritrovamenti già compiuti, è possibile affermare fin d'ora che la missione in questo sito del Delta orientale consente di gettare nuova luce su uno dei periodi più oscuri di tutta la storia dell'Antico Egitto.
Il deserto libico
Resta da parlare delle oasi esterne del deserto libico nelle quali la ricerca archeologica è praticamente priva di precedenti. Lo stato dei lavori è molto diverso caso per caso: molto rilevante a sud (oasi di El-Kharga e di El-Dakhla), allo stadio di progetti, in qualche caso con un principio di attuazione, al centro (oasi di Farafra e Bahryya) e a nord (oasi di Siwa).
Per quanto riguarda El-Kharga, gli scavi condotti ormai da qualche anno dall'Institut français d'archéologie orientale hanno portato alla luce testimonianze per certi aspetti grandiose della presenza dell'Egitto nelle oasi fin dal periodo più antico della sua storia, con abbondanti documenti scritti e sepolture di eminenti funzionari. Con ciò trova soluzione il problema del rapporto tra le oasi e il territorio 'metropolitano', con il riconoscimento che quelle, per quanto indietro possiamo andare, facevano parte dell'Egitto a pieno titolo e non ne erano, per così dire, un'appendice esterna o coloniale.
A El-Dakhla invece, in un terreno archeologico praticamente intatto, sono stati compiuti ritrovamenti di papiri che appaiono eccezionali dal punto di vista quantitativo, anche se per ora è prematuro esprimersi sui contenuti. Lo studio della parte prevalente di essi consentirà di portare contributi importanti alla ricostruzione della vita dell'oasi in epoca tarda. Ma vi sono certamente anche testi letterari: i recenti ritrovamenti di opere di Isocrate e di testi manichei in copto nello stesso dialetto di quelli di Medinet Madi fanno bene sperare per il futuro, anche in considerazione della varietà linguistica - demotico, greco, copto, siriaco - finora identificata nei papiri.
Tra le altre oasi, Bahriyya è diventata la 'stella' della nuova archeologia, grazie al ritrovamento di un immenso cimitero di mummie che copre certamente molte generazioni. Grazie alla pronta divulgazione dell'archeologo egiziano Zahi Hawass, questa scoperta permetterà di far progredire notevolmente le conoscenze sugli usi funerari di un ambiente periferico come quello in cui esso si colloca.
Tra tanti successi va però ricordato anche un fallimento, che serve da ammonimento sulla cautela con cui devono essere valutati i risultati del lavoro sul campo. Si è parlato a lungo nei media e anche in congressi scientifici del possibile ritrovamento a Siwa della tomba di Alessandro Magno, collocazione che sarebbe stata però contraria a quanto affermano tutte le fonti antiche. Questo non avrebbe costituito un problema impossibile da superare, dato che uno dei compiti dell'archeologia è quello di confermare o di smentire le testimonianze di altro genere. In questo caso, però, l'identificazione si fondava soltanto su un'inadeguata valutazione dei ritrovamenti. La tomba di Alessandro non è stata ancora individuata, ma sicuramente va ricercata ad Alessandria.
repertorio
Storia dell'antico Egitto
L'età faraonica
L'Egitto ha conosciuto varie fasi di civiltà: la prima (età faraonica) fu puramente nazionale, mentre le successive (quella ellenistico-romana e quella arabo-islamica) rappresentarono sostanzialmente varietà locali di più vaste civiltà sopranazionali.
Seconda grande civiltà del Vicino Oriente, quella egiziana si sviluppò con caratteristiche per alcuni aspetti affini al modello mesopotamico, nell'economia (agricoltura basata sull'irrigazione, canalizzazione delle acque, intensi rapporti commerciali con i paesi mediterranei e asiatici), nella divisione del lavoro e nella stratificazione sociale, nella struttura piramidale del potere al cui vertice era un re, nell'organizzazione urbana e nella monumentalità architettonica. Presentava tuttavia alcuni aspetti propri che originavano dalle tradizioni preistoriche del popoli del Nilo o derivavano dalla sua particolare posizione geografica. La peculiarità della civiltà egiziana era già sottolineata dallo storico greco Erodoto, che nel 5° secolo a.C. lasciò dell'Egitto un resoconto di carattere etnografico.
Diversamente dalla Mesopotamia, più composita e instabile nella sovrapposizione di popolazioni di lingua e cultura diverse, e nella frammentazione in città autonome e antagoniste, per cui non vi fu mai una vera unificazione, l'Egitto, in età storica, conservò sempre una configurazione omogenea, compatta, e una propria 'fisionomia nazionale'. Fondamentalmente, l'unica diversità era costituita dal dualismo tra le genti del Sud, che risultavano più ancorate a un retaggio paleolitico africano, e quelle del Nord, nelle quali prevalevano invece influssi asiatici e mediterranei.
Paesi, città e villaggi si snodavano lungo il corso del Nilo che si estendeva tortuosamente secondo il meridiano e fecondava le terre con le sue piene annuali, regolari e prevedibili, lasciando una coltre di limo ("L'Egitto è un dono del Nilo", dice Erodoto, Storie, II, 5). A oriente e a occidente si apriva il deserto che, se pur attraversato già in tempi preistorici da piccole carovane di mercanti, costituiva una barriera insuperabile per qualsiasi popolazione volesse passarlo in armi. Questa posizione di isolamento fisico rendeva l'Egitto un'unità a sé stante, difendibile da ogni penetrazione esterna, protetta da tre 'porte' - verso la Libia a ovest, la Nubia a sud, verso l'istmo di Suez e il massiccio del Sinai a est -, mentre le vie di comunicazione e di scambi si addensavano sul Nilo e sul mare, con presidi e città fluviali che esercitavano una funzione di controllo sui traffici di merci e di uomini.
La dimensione geografica spiega non soltanto la continuità, la solidità e la durata del regno (3000 anni circa a partire dalla I dinastia fino alla conquista romana), ma anche il conservatorismo culturale che si manifestò in forme rimaste costanti, quasi immutate nel tempo, al limite dell'invarianza. Ancora Erodoto annota: "Gelosi delle patrie tradizioni, non ne accettano altre" (Storie, II, 79). Le vicende dell'Antico Egitto, pur con fasi alterne, furono dunque caratterizzate da una volontà e una ricerca di stabilità: il valore assoluto era il mantenimento della maat, la forza cosmica dell'armonia, dell'ordine, della continuità; nella maat era insito qualcosa di immutabile, di eterno, e il cambiamento era inteso come sintomo di caos.
Questo concetto, che investiva varie sfere della vita degli egizi, influenzava l'ideologia del potere e determinava un rapporto di connessione tra sacro e profano, è quanto mai avvertibile nell'arte. Un geometrico senso dell'ordine e canoni rigidi regolavano lo stile egizio per cui all'artista non si chiedeva 'originalità' ma la ripetizione dei modelli tradizionali: ogni minima variazione poteva sovvertire l'insieme, l'aspetto più importante era rappresentare le cose nella bidimensionalità più precisa e durevole. Più che sull'osservazione del reale da un angolo visuale casuale e in un dato momento, l'artista attingeva dalla memoria secondo leggi stabilite, escludendo l'esatta determinazione temporale e spaziale. Soltanto nell'epoca della XVIII dinastia e di Tell el-Amarna, lo schematismo ieratico dello stile egizio fu superato da una riforma modernista incline a modi naturalistici e spontanei.
I tratti più originali dell'esperienza egizia riguardavano il complesso di riti e credenze relativi al corpus magico-religioso. Primo aspetto caratteristico della religiosità egizia era la divinizzazione del faraone: mentre le popolazioni mesopotamiche attribuirono al sovrano poteri straordinari ma non lo identificarono con un dio, semmai come un intermediario tra uomini e divinità, in Egitto, già agli esordi della storia, il faraone ("Grande casa", a indicare il suo potere economico e politico in quanto nel palazzo confluivano tutte le ricchezze del paese) era considerato un essere divino, simbolo della forza del Sole e della piena del Nilo. Seconda peculiarità era il carattere teriomorfico della religione: accanto alle immagini umane o simboliche degli dei, gli egizi mantennero sempre un'iconografia di tipo animale. Da questi due tratti ideologici - aspetto animale degli dei e natura divina del faraone - discendevano i rituali, i costumi, gli atteggiamenti che informarono in modo originale quella civiltà.
La storia dell'Egitto faraonico si suddivide in grandi periodi di stabilità (Antico, Medio e Nuovo Regno), corrispondenti alle 30 dinastie che si avvicendarono nel governo del paese, alternati a periodi di crisi (intermedi) in cui il potere centrale si dissolse e si frammentò, andando a principi locali. In ogni caso la cultura fu sempre unica e uniforme nel territorio.
Antico Regno
L'Egitto predinastico si componeva di una moltitudine di minuscoli regni, ciascuno sotto l'autorità di un dio locale, e per lui di un principe che ne era anche il sommo sacerdote. In seguito, processi di annessione e di conquista, avvenuti indipendentemente, portarono alla formazione di organismi politici sempre più vasti - da piccoli potentati non più estesi di un villaggio, a entità via via più grandi, fino alla costituzione di due stati, l'Alto e il Basso Egitto, corrispondenti alla Valle e al Delta del Nilo. Lo sviluppo dovette essere continuo.
Parallelamente, al vincolo dell'organizzazione tribale, fondato su legami parentali e sull'immediatezza dei rapporti di vita comunitari, si sostituivano interessi comuni tali da giustificare la dipendenza da un unico reggente. La riunione dei due organismi in un solo Stato nazionale fu compiuta dal re dell'Alto Egitto Menes, con il quale ha inizio la I dinastia (2850 a.C. circa) e che spostò la residenza regale a Menfi, lungo la linea di separazione delle due terre prima indipendenti.
L'era delle prime dinastie fu di consolidamento. Il nuovo Stato doveva costruire un governo e un'amministrazione efficienti, e rafforzare nei sudditi la coscienza del nuovo ordinamento politico. Con la rivoluzione urbana e la specializzazione delle funzioni, l'interesse comune basato sui legami personali cedeva il posto a una molteplicità di interessi non personali che richiedevano una differente organizzazione statale, una legge, una burocrazia e una religione condivisa. Già in questo periodo si fissarono nel culto, nell'arte, nell'ordinamento le linee generali che avrebbero caratterizzato l'Egitto nei secoli futuri. Dei primi regni si conoscono numerosi eventi, in quanto ritenuti più importanti e quindi scelti per indicare i singoli anni in una silloge cronologica simile a una raccolta di annali (la cosiddetta Pietra di Palermo, dal luogo in cui questa iscrizione è conservata nella sua parte principale).
L'Antico Regno raggiunse il suo apice tra la III e la V dinastia (2650-2350 circa), periodo in cui furono innalzate le piramidi, destinate a monumentale sepolcro dei faraoni e a celebrazione del potere regale. Antesignana fu quella di Zoser (III dinastia) a Saqqara, il primo grande edificio costruito in pietra, la cui forma a gradoni ripete il modello delle ziqqurat mesopotamiche. In quest'epoca il faraone si proclamò Horus, il dio falco, divinità 'degli spazi lontani', e 'Due Signore', incarnazione dell'essenza delle due dee, ossia l'Alto e il Basso Egitto. Pur consapevoli delle diversità, le due parti del regno si saldavano in virtù di due elementi unificanti: la comune dipendenza dal Nilo e la dottrina della natura ultraterrena del sovrano, un dio che impersonava, trascendendole, le componenti distintive delle due realtà.
All'imponenza delle piramidi sono legati i nomi di Cheope, Chefren e Micerino (IV dinastia), committenti delle costruzioni perfettamente geometriche di Giza, poste sulla riva sinistra del Nilo, verso Occidente, inteso dagli egizi come il 'paese dei morti' in cui bisognava collocare le tombe. Testimonianza di una civiltà grandiosa e possente, le piramidi evidenziano un altro aspetto originale, apparentemente contraddittorio, della cultura egizia: da un lato il lavoro di molte migliaia di uomini, artigiani, operai, contadini, che erigevano, blocco su blocco, le immense sepolture, o ammassavano ricchezze incalcolabili nei magazzini reali; dall'altro la destinazione di una parte enorme dei beni prodotti alla tomba del faraone. Ciò si spiega con la visione egizia dell'aldilà, secondo la quale la piramide non era solo un monumento celebrativo del defunto, ma anche la tomba-casa del sovrano, il luogo dove egli continuava a vivere e da dove continuava a proteggere i sudditi: perché seguitasse il dialogo tra i vivi e i morti era essenziale edificarla in modo fastoso e mantenerla integra da possibili contaminazioni e profanazioni. L'esigenza era di costruire per l'eternità.
Con la V dinastia il culto di Ra, dio del Sole, divinità suprema, assunse pieno valore dinastico a scapito di quello di Horus, portando così a compimento una tendenza manifestatasi già sotto Zoser e dovuta alla crescente importanza del sacerdozio eliopolitano. Mentre lo Stato di origine divina acquisiva una fisionomia più marcata e grandi templi erano eretti al dio protettore, il sovrano se ne dichiarava figlio, codificando una sporadica iniziativa della precedente dinastia. L'amministrazione menfita si articolò in forme complesse, con un visir posto accanto al re e numerosi funzionari, che venivano a costituire una nobiltà gravitante attorno alla corte, anche se dislocata in provincia per ragioni d'ufficio.
I tratti salienti della VI dinastia (2350-2200 circa), originaria di Menfi e avente in Pepi I e Pepi II le due figure più rappresentative, furono un'intensa vita artistica e l'affermarsi dell'influenza egiziana in Nubia. Tuttavia, nello stesso periodo esplose una crisi che maturava da tempo, dovuta a circostanze strutturali e contingenti: eccessivo dispendio economico nelle costruzioni, gravami dei fondi speciali per la manutenzione delle tombe di faraoni e di alti funzionari, diminuzione degli scambi commerciali, esenzione di molti templi da obblighi e prestazioni, tentativi di autogoverno compiuti dai burocrati di rango. La monarchia divina si era appoggiata soprattutto alla casta sacerdotale, che ne aveva ricevuto beni e privilegi; nello stesso tempo il complicarsi dell'amministrazione aveva dato una crescente autorità a funzionari, mentre i nomarchi (i capi dei nòmi, i distretti amministrativi) e le autorità provinciali tendevano a fissarsi sul luogo in cui esercitavano la carica e a trasmetterla in eredità. Dal tentativo della monarchia, che aveva nella casta sacerdotale e nella nobiltà due forze rivali, di riprendere il controllo delle terre date in beneficio derivò una guerra civile dalla quale l'Egitto uscì frazionato e indebolito. Cominciò per il paese un periodo oscuro, il Primo periodo intermedio, documentato da notizie lacunose.
Da Menfi i re della VII e VIII dinastia (secondo una tradizione seriore si succedettero 70 faraoni nel giro di 70 giorni) continuarono a pretendere di esercitare un governo, puramente nominale, su tutto il paese, di fatto ignorati dai principi delle varie province. In seguito, una famiglia di Eracleopoli nel Fayyum (IX e X dinastia) dominò per qualche decennio in una zona non ben definita del Delta e nel Medio Egitto, soccombendo poi di fronte al prevalere dei potentati di Tebe.
Medio Regno
Con la XI dinastia (2070 circa) si ricomposero le spinte centrifughe e fu ricostituita l'unità territoriale. Le esperienze di questo periodo prelusero a cambiamenti importanti nella civiltà egizia. Con il crollo della monarchia menfita di diritto divino, che aveva accentrato ogni iniziativa assorbendo in senso sociale l'attività di ciascuno, si mise in evidenza e acquisì validità legale la coscienza individuale. Al faraone si opponevano i nomarchi e altri principi; attraverso le contese per la supremazia, i problemi religiosi assumevano un significato morale valido per tutti e, in un processo di 'democraticizzazione dell'aldilà', a tutti era concessa l'immortalità nell'oltretomba, prima riservata al sovrano e ai suoi prescelti. Negli apparati delle tombe delle persone di rango inferiore permanevano differenze quantitative, ma l'uso di medesimi testi, riti e formule magiche estendeva lo stesso grado di beatitudine all'uomo comune.
Nella vita economica l'artigianato assunse maggiore indipendenza e si formò una classe borghese e piccolo-borghese. Parallelamente vi fu un rinnovato sviluppo della scienza e dell'arte. Mentuhotep e i suoi successori condussero con successo spedizioni in Nubia e viaggi commerciali a oriente e sul Mar Rosso. Tradizionalmente, l'espansione egizia seguì due direttrici: a sud, nel ricco paese della Nubia, per sottomettere le popolazioni primitive e trarre oro e minerali dagli importanti giacimenti, e a est verso la Siria. Il controllo, se non ancora l'occupazione e la conquista, della zona costiera della Palestina era essenziale per impedire l'insediamento di potenze straniere ai confini del paese e soprattutto per esercitare una forma di 'imperialismo mercantile', assicurando il monopolio dei terminali delle vie commerciali tra Mediterraneo ed entroterra orientale.
Quello della XII dinastia (1991-1778 circa) è uno dei periodi meglio noti della storia egiziana. Fondatore ne fu Amenemhat I, che portò Amon (o Ammone), il dio di Tebe, al grado di divinità principale. Il nome Amon, "Nascosto, Inconoscibile", alludeva alla natura invisibile del dio, immanente in tutte le cose. Considerato una delle otto divinità primigenie esistenti quando l'universo era dominato dal caos, Amon, senza forma, essenza cosmica, poteva essere trasferito dall'uno all'altro sistema teologico: in breve divenne la divinità ufficiale dello Stato e si fuse con il dio solare Ra per assurgere ad Amon-Ra, sovrano degli dei. Amenemhat verificò le frontiere dei nòmi, costruì nel Delta fortezze di difesa contro i beduini e combatté contro i libi. I suoi successori Sesostri III e Amenemhat III svolsero una politica altrettanto incisiva. Il primo realizzò la conquista della Nubia, il secondo compì la bonifica del Fayyum, due eventi di rilevante importanza economica. In Nubia fu allestita una catena di fortificazioni e i confini dello Stato vennero spostati fino alla seconda cataratta; nel Fayyum si misero in opera grandiosi progetti di irrigazione, con la costruzione di una diga e il convogliamento delle acque alluvionali in numerosi canali. Fu questa l'età di più raffinata vita dell'Egitto: una monarchia solida accanto a funzionari efficienti, un popolo impegnato in opere civili, un attivismo bellico che dava sicurezza alle frontiere; e, insieme, il fiorire dell'attività artistica e la stesura delle opere classiche della letteratura egizia. La stabilità sociale e politica, tuttavia, non durò a lungo e seguirono anni di confusione poco documentati. Con la XII dinastia si concluse il Regno Medio, e cominciò il Secondo periodo intermedio.
Le dinastie XIII e XIV (1778-1670 circa) furono rappresentate da re in gran parte noti solo di nome, la cui debolezza si manifestava nel rapido succedersi e nella frequenza di usurpazioni. Se l'Egitto continuava a vivere come società, era in virtù della capacità di azione autonoma delle sue strutture amministrative. All'Est del Delta s'infiltrarono tribù asiatiche, gli hyksos ("re dei paesi stranieri" e, secondo una falsa etimologia, "re pastori"), che si costruirono una piazzaforte ad Avaris, e di là mossero verso il resto del paese. Popolazione orientale a un livello di vita e organizzazione arretrati, ma dotata di una superiore tecnica militare per il possesso del carro da combattimento, gli hyksos finirono per subire l'influenza della più evoluta civiltà egizia. Non riuscirono tuttavia a ottenere il dominio su tutto l'Egitto se non per un breve periodo, durante il quale i principi locali probabilmente mantennero la loro autorità, benché limitati da un controllo e obbligati a un tributo. Fra le famiglie di dinasti emerse per importanza quella di Tebe, che riunì intorno a sé le altre dell'Alto Egitto e si pose a capo di un movimento di ribellione contro gli stranieri.
Nuovo Regno
La XVIII dinastia (1570-1318 circa) inaugurò la fase 'imperiale' della storia egiziana. Finita la dominazione degli hyksos, era necessario rimettere in efficienza tutta la macchina dello Stato per quanto riguardava l'agricoltura, il fisco, la navigazione e il commercio con l'estero, ristabilire la sicurezza dei traffici, ricostruire e perfezionare l'apparato burocratico, civile e religioso. Per molti decenni l'Egitto fu un paese militare. La politica di ampliamento delle conquiste al Sud e di espansione in Asia, avviata da Tutmosi I, fu portata avanti da Tutmosi III, che con una serie di spedizioni raggiunse l'Eufrate, disgregando le coalizioni antiegizie e attuando la più vasta e metodica opera di conquista della storia d'Egitto. Al talento militare si univa l'intelligenza politica: i paesi conquistati (Fenicia, Palestina) conservavano la loro struttura, limitandosi il faraone a stabilire in loco ispettori egiziani e a imporre un tributo annuo e gravami per il mantenimento delle truppe. Grazie alla pratica di condurre i figli dei notabili locali a compiere la loro educazione in Egitto e all'intenso sviluppo dei traffici, la cultura egiziana si diffuse anche per altra via da quella delle armi. Amon, 'l'invisibile dio dell'aria', in conseguenza dell'espansione, divenne una divinità universale.
Si apriva così un'età cosmopolita, di transizione inquieta e dinamica. Mentre con lo spostamento dei confini - la frontiera meridionale raggiungeva la quarta cataratta del Nilo e quella settentrionale correva lungo l'Eufrate - le dottrine tradizionali si estendevano ad altri territori, l'internazionalismo politico, sociale ed economico e l'universalismo religioso producevano effetti di innovazione e ibridazione anche in Egitto. Aumentò il numero degli stranieri, l'influenza semitica portò a cambiamenti nella scrittura con il ricorso non più a un illimitato numero di ideogrammi ma a un più semplice sistema di simboli fonetici, penetrarono divinità asiatiche come Astarte e Baal. In conseguenza delle spinte dissolutorie provocate all'intero sistema dall'avvento dell'impero, la nuova società cosmopolita legata ai centri urbani si mostrava più eterogenea e secolarizzata, rinunciando agli elementi classici e sociali che avevano regolato da sempre la vita degli egizi. Le nuove tendenze ebbero riflessi significativi anche sulla produzione artistica: già con Tutmosi III gli artisti abbandonarono la rappresentazione stilizzata basata su elementi ad angolo retto, rigidi e geometricamente equilibrati, adottando forme fluide e naturalistiche e dando inizio a quella rivoluzione modernista che si sarebbe attuata compiutamente nel periodo di Amenofi IV e di Tell el-Amarna. Il nuovo indirizzo stilistico anti-ieratico, favorito dall'influenza straniera, rompeva una tradizione rimasta immutata per 12 secoli.
Amenofi IV (1377-1358), che abbandonò Tebe trasferendo la capitale in una città nuova, Akhetaton (Tell el-Amarna), e cambiò nome assumendo quello di Ekhnaton, è soprattutto noto per la sua riforma religiosa, volta all'adorazione esclusiva di Aton (il disco solare), che fu anteposto ad Amon, protettore fino allora della dinastia e dell'Egitto. Oltre che religioso, l'atonismo aveva anche un significato politico, mirando da un lato al ridimensionamento economico e politico dei sacerdoti di Amon, che avevano assunto già nel periodo dei Tutmosi una pericolosa funzione di controllo sulla successione regale e che assorbivano gran parte dei cospicui tributi d'Asia e di Nubia, e dall'altro alla fondazione di un culto del Sole creatore provvidenziale, nel cui sistema al sovrano era data una funzione demiurgica, e perciò una più assoluta autorità. Nessuno dei due scopi fu raggiunto: negli ultimi anni di regno Ekhnaton, incompreso anche dal popolo che rimaneva legato alle vecchie tradizioni, sembra abbia cercato di riavvicinarsi al sacerdozio tebano. Alla sua morte, in un clima di restaurazione e di damnatio memoriae del faraone 'eretico', furono ripristinati gli antichi culti, la nuova città fu rasa al suolo e, con Tutankhamen, la capitale tornò a Tebe. Intanto, dietro la pressione della nuova potenza degli ittiti, l'impero in Asia si andava sgretolando.
Il primo regno importante della XIX dinastia, originaria forse di Tanis, fu quello di Seti I (1317-1301). Nella coscienza degli egizi la nuova era si poneva come il periodo in cui doveva essere ristabilita la potenza imperiale. Lo stesso Seti I, definendo il suo regno, usò l'espressione 'anni di rinascenza'. Con logica coerenza avviò una politica di riconquista in Asia, affrontò con un qualche successo gli ittiti e rese più sicura e funzionale la strada militare attraverso il deserto del Sinai, valendosi di posti di guardia e della sorveglianza dei luoghi di rifornimento d'acqua.
Il successore Ramesse II si trovò a dover affrontare nuovamente gli ittiti. La battaglia, a Qadesh (1296), fu di esito incerto, ma la minaccia della potenza assira indusse i rivali a concludere un trattato che pose i due imperi su un piano di assoluta parità, stringendo un accordo che assicurò quasi 50 anni di pace in Oriente. In questo periodo, con uno spostamento verso nord del centro politico, assunse particolare importanza Tanis, nel Delta del Nilo: non lontano dall'Asia e dal Mediterraneo, il sito della nuova capitale amministrativa appariva preferibile per gli interessi internazionali dell'Egitto e per la riconquista dell'impero. Tebe rimase il centro religioso e la residenza di vacanza del sovrano.
Intanto imponenti migrazioni, iniziate verso il 1400, avevano portato popoli di varia origine dalle remote contrade nordorientali indoeuropee verso le regioni costiere del Mediterraneo: erano questi i 'popoli del mare' che distrussero l'equilibrio esistente nell'Oriente antico, dando inizio a nuove civiltà, tra cui la micenea. Anche se, durante la XX dinastia, Ramesse III (1197-1165) riuscì a evitare il pericolo di un'invasione indoeuropea dell'Egitto, consolidandosi anche in Palestina e in Siria, il dilagare dei popoli del mare in Anatolia, Cilicia e Siria settentrionale, con l'annientamento dell'impero ittita, costituì per l'Egitto una grave minaccia, in quanto entrarono in crisi l'antica e sicura procedura dello scambio di grano e di oro egizi contro l'argento anatolico, come pure il commercio di ferro che proveniva dal paese degli ittiti. In una condizione di generale debolezza, sotto gli altri faraoni della dinastia, da Ramesse IV a Ramesse XI, figure poco incisive e strumenti dell'oligarchia dominante, l'Egitto perse autorità fuori delle frontiere e benessere all'interno. Alla morte di Ramesse XI lo Stato si divise in due regni, e solo un compromesso permise la riunificazione. La crisi politico-economica ebbe riflessi anche nell'arte: alle tendenze modernistiche e aperte alla volgarizzazione subentrò un indirizzo arcaicizzante. Tra la XXI e la XXV dinastia (1085-935) il processo di decadenza si accentuò. Bande di mercenari libici s'installarono in Egitto, dove l'autorità religiosa e quella politica si bilanciavano, senza riuscire a dare un qualsiasi impulso al paese, che si andò configurando non più come uno Stato efficiente, ma come un insieme di piccoli Stati legati da rapporti commerciali. Il dominio si riduceva al governo esercitato nel Delta dai principi-mercanti di Tanis e a quello esercitato a Tebe dai principi-sacerdoti di Amon, mentre emergeva un nuovo fattore di potenza con l'influsso crescente di principi libici originari del Fayyum. L'Egitto era assalito dagli assiri che per due volte saccheggiarono Tebe (nel 666 e 664 a.C.).
Alla crisi seguì ancora un periodo di rinascenza con l'epoca saita (XXVI dinastia, 663-525), di cui fu fondatore Psammetico I, che profittò della ribellione della Lidia contro gli assiri per liberarsi del loro dominio e che con iniziative accorte favorì i traffici commerciali nella zona del Delta, dove si stabilirono colonie di mercanti greci e ionici. Forte all'interno, l'Egitto tornò a intervenire nell'area asiatica con l'obiettivo di occupare la Fenicia.
Nel secolo successivo, tuttavia, i faraoni non furono in grado di resistere alla nuova potenza affermatasi in Asia, quella dei persiani. Psammetico III fu sconfitto a Pelusio e Menfi (525) e l'Egitto divenne una provincia dell'impero persiano. Nell'invasione persiana storicamente si individua l'evento che pose definitivamente fine alla civiltà egiziana. I nuovi regnanti, inizialmente attenti agli usi e culti locali, con il tempo manifestarono intenzioni più consone a una potenza coloniale, facendo esplodere ribellioni a vantaggio di dinastie locali.
La fase della dominazione persiana si concluse, a distanza di due secoli, con l'occupazione dell'Egitto da parte di Alessandro Magno (332 a.C.). Sebbene fosse salutato come un liberatore, Alessandro non ricostituì però il vecchio Egitto ma fondò un nuovo regno, connotato da elementi di tipo ellenistico e di cui ormai i protagonisti erano greci e non egizi.
L'età ellenistica
Dopo la conquista di Alessandro Magno, l'Egitto fu governato in un primo tempo da Cleomene di Naucrati, poi, dopo la morte di Alessandro e le spartizioni avvenute tra i suoi generali, fu assegnato a Tolomeo di Lago, il capostipite della dinastia che resse l'Egitto per circa tre secoli (321-30 a.C.). Come tutti i macedoni, i Tolomei erano largamente permeati di grecità e avviarono un processo di ellenizzazione del paese. Non svolsero però l'intensa attività urbanizzatrice propria di altre dinastie, attuando piuttosto la colonizzazione attraverso l'insediamento di piccoli gruppi. L'elemento indigeno non fu asservito; i sovrani, i generali e i funzionari erano macedoni o greci, ma elementi nativi si mantennero a capo dei nòmi e nei ruoli inferiori. La storia politico-militare del regno tolemaico fu inizialmente tesa ad affermare, contro gli altri diadochi ed epigoni, l'autorità dei Tolomei. Vi fu poi la secolare contesa con la Siria per il possesso della Celesiria, che ebbe alterne vicende e talvolta parve chiudersi con il successo tolemaico, altre volte mise in pericolo l'esistenza stessa del regno (presa di Menfi a opera di Antioco IV di Siria, 169 a.C.). Le lotte dinastiche si fecero più accese e continue a partire dalla prima metà del 2° secolo a.C. e contribuirono a indebolire le capacità di resistenza dell'Egitto alle pressioni esterne, tra le quali stava emergendo quella di Roma. Il dominio effettivo dei romani s'istituì in Egitto dopo la battaglia di Azio (31 a.C.), che vanificò il progetto di Cleopatra VII di ricostituire un grande impero orientale.
La dinastia tolemaica favorì in ogni modo l'incivilimento del paese. L'agricoltura ebbe notevole impulso da opere di bonifica (Delta, Fayyum) e dall'introduzione di nuove colture e specie zootecniche; le attività industriali furono potenziate e protette, il commercio favorito dalla creazione di nuove carovaniere e dallo sviluppo di istituzioni di tipo finanziario. Si ampliò a dismisura il mercato sul quale collocare i prodotti artigianali. L'impero commerciale tolemaico si estendeva fino a Tripoli in Libano, a Cipro, sull'intera costa della Libia e sulle isole dell'Egeo, a eccezione di Creta e Rodi. Agli aspetti positivi della politica mercantile promossa dai Tolomei si contrapponevano tuttavia l'oneroso fiscalismo e l'eccessiva burocratizzazione del paese (l'Egitto tolemaico è nella storia il primo paese in cui esattori e funzionari d'ogni ordine e grado rappresentarono un'alta percentuale della popolazione complessiva). Lo sviluppo si distribuì in modo ineguale a favore dei dominatori greci e degli appartenenti alla burocrazia statale e alla borghesia commerciale, e dislivelli economici e squilibri sociali furono accentuati da fenomeni di inflazione e abbassamento del potere d'acquisto provocati dall'impiego di grandi quantità di metalli preziosi, sottratti al tesoro persiano, per la coniazione di monete e dal conseguente aumento della massa monetaria in circolazione. Il maggiore ricorso a manodopera servile e la concorrenza delle imprese schiavistiche andarono a svantaggio dei contadini liberi e favorirono la formazione del latifondo, con conseguenze che a lungo andare si sarebbero rivelate rovinose.
Per legittimare il loro potere e ottenere il favore popolare, i Tolomei vollero collegarsi all'antica storia egizia assumendo le prerogative tipiche dei faraoni. Il sovrano era assoluto e da lui dipendevano direttamente tutti i rami dell'amministrazione, compreso l'esercito che, costituito inizialmente di greco-macedoni, verso la fine del 3° secolo accolse anche indigeni che a poco a poco pervennero agli alti gradi.
Nella composita e multietnica società ellenistica, la religione tradizionale non fu ostacolata, ma accanto a essa si diffusero ampiamente, in un processo sincretistico, quella greca (molte divinità elleniche furono assimilate a divinità indigene ritenute simili) e quella giudaica, con una forte colonia ebraica ad Alessandria, oltre a vari rituali orientali; particolarmente venerate furono Serapide e Iside. I monarchi, cui era riservato culto divino, si facevano incoronare a Menfi secondo il costume egizio ed erano chiamati con l'epiteto di 'dei benefattori'. La consuetudine, facilmente accettata dagl'indigeni abituati da secoli al riconoscimento del carattere sacro dei faraoni, incontrò resistenze tra i greci e riuscì a imporsi solo gradualmente attraverso la divinizzazione dei sovrani defunti.
Cuore dell'Egitto ellenistico fu Alessandria, la città che secondo la più accreditata tradizione Alessandro fondò nell'inverno del 332-31 a.C., affidandone il progetto all'architetto Dinocrate di Rodi e l'esecuzione a Cleomene di Naucrati. Tolomeo I (323-285) vi trasferì la capitale da Menfi e gli altri Tolomei, fino alla stessa Cleopatra, l'arricchirono di splendidi edifici sacri, pubblici e privati, fra cui il Museo, la Biblioteca, il Faro (la 'torre luminosa'), facendone una metropoli di grande splendore, decantata dagli scrittori antichi con attributi celebrativi (la gloriosa, l'immortale, la bella, prima città del mondo). Agli interventi architettonici i sovrani (specialmente Tolomeo II Filadelfo) affiancarono una politica culturale illuminata, proteggendo le lettere, le arti e le scienze e destinando alle ricerche ingenti risorse dello Stato, cosicché Alessandria divenne il maggior centro di cultura del Mediterraneo.
L'età romana
Dopo la vittoria di Azio e la morte di Cleopatra, Augusto riordinò l'Egitto come territorio alle dipendenze dell'imperatore, sotto l'amministrazione di un governatore di rango equestre, il praefectus Aegypti, che godeva onori quasi regi. Lingua ufficiale rimase quella greca, e l'amministrazione non subì sostanziali mutamenti: accanto al prefetto erano lo iuridicus per gli affari giudiziari e l'idiologus per gli affari finanziari. Le città greche ebbero una limitata autonomia; a capo dei nòmi furono messi strateghi di nomina prefettizia. Verso la religione indigena i romani mostrarono ampia tolleranza; continuò nei ginnasi la tradizione di cultura greca, e si ebbero, anche nella fase della decadenza, intellettuali di prestigio come Didimo, Origene, Plotino e Nonno. Pochissimi erano i romani, per lo più funzionari e soldati; numerosi i liberti e gli schiavi. Nel periodo romano l'Egitto non ebbe vita prospera e pacifica, malgrado gli interventi presi a suo favore da alcuni imperatori come Adriano o Settimio Severo. La stessa Alessandria subì gravissimi danni, saccheggi e distruzioni sotto Aureliano e Diocleziano, in conseguenza di moti di rivolta. La regione si depauperò notevolmente, soprattutto nelle campagne: gran parte delle ricchezze affluivano a Roma e i magistrati locali esercitavano un pesante fiscalismo in quanto personalmente responsabili delle somme che dovevano raccogliere dalle rispettive zone o città. Alle difficoltà economiche si aggiungevano altri fattori: i contrasti razziali esplosi più volte in sommosse contro gli ebrei, le ribellioni degli indigeni, le invasioni esterne, le insurrezioni di pretendenti all'impero.
Nella riforma di Diocleziano, l'Egitto fu diviso in quattro province e incorporato nella diocesi di Oriente. Alla stessa epoca risale il confronto conclusivo fra il cristianesimo in espansione e lo Stato romano politeistico: l'ultima persecuzione (iniziata sotto Diocleziano e conclusa sotto Massimino nel 311) fu più cruenta qui che altrove. Prendevano avvio contemporaneamente diversi movimenti nei quali su motivi sociali ed economici si innestavano ragioni etniche e nazionalistiche e che portarono alla formazione di una cultura religiosa nella lingua autoctona, in certo modo indipendente dalla parallela cultura in lingua greca della capitale, Alessandria. Così, mentre i patriarchi alessandrini erano impegnati nelle dispute con i rivali patriarchi di Costantinopoli e Antiochia, la chiesa egiziana, che sarà poi conosciuta con il nome di 'copta', si preparava lentamente all'evoluzione che la porterà a ripiegarsi su sé stessa e a separarsi definitivamente, all'epoca dell'avvento del dominio arabo, dalle altre chiese dell'impero.
Alla caduta dell'Impero d'Occidente (476) l'Egitto divenne possedimento bizantino, rimanendo politicamente diviso nelle quattro province dioclezianee, ora rette da duchi di origine egiziana. Furono imposte tasse gravose consistenti in una parte rilevante del raccolto del grano, l'attività industriale si andò limitando alle cave di marmo, il commercio con l'Oriente, prima intenso, diminuì quando Costantinopoli si servì di linee più dirette e si rivolse maggiormente verso l'Etiopia. Con la crisi economica declinò rapidamente anche la vita sociale: i piccoli proprietari diventarono man mano locatari e poi servi dei latifondisti. Molteplici fattori portarono allora i copti ad allontanarsi sempre più dall'impero, nel momento in cui l'invasione araba (642) travolgeva definitivamente il dominio bizantino in Egitto; e proprio la chiesa cristiana copta impedì la completa islamizzazione del paese, reso provincia del califfato omayyade.
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