Egloghe
Una tradizione manoscritta, che nelle linee essenziali risale al Boccaccio, ci ha tramandato due e. di D.: esse servono di risposta ad altrettanti componimenti di Giovanni del Virgilio, nell'ambito di una ‛ corrispondenza poetica ', che vuol essere esaminata nel suo insieme. A principio, circa, del 1319, mentre D. è a Ravenna ospite di Guido Novello da Polenta, Giovanni del Virgilio gl'invia da Bologna un'epistola in esametri, esortandolo a scrivere in latino anziché in volgare, perché la sua alta poesia abbia giusta risonanza presso i dotti, e promettendogli di farsi lui banditore della sua fama. D. risponde con un'e., dialogata, nella quale si mostra riluttante a recarsi a Bologna ed esprime la speranza di ricevere il lauro sulle rive dell'Arno. Replica Giovanni del Virgilio con un componimento elegiaco, non dialogato, rinnovando l'invito. Infine, con un'e. dialogata, databile alla fine del 1320, o, più probabilmente, alla primavera-estate 1321, D. si duole di non poter accettare, perché teme i pericoli che potrebbe incontrare a Bologna, mentre l'ospitalità di Guido Novello gli garantisce la pace necessaria alla creazione poetica.
A determinare le date concorrono: il fatto che D. sia di stanza a Ravenna e alcuni accenni ad avvenimenti storici nell'epistola di Giovanni del Virgilio, che costituiscono un terminus a quo. Inoltre un accenno a questa corrispondenza è contenuto nell'egloga che Giovanni diresse, più tardi, al Mussato (vv. 227-229), e una postilla al v. 228 nel ms. Laurenziano 29 8, di mano del Boccaccio, c'informa che D. tardò un anno a scrivere l'ultima sua e., e che morì prima di averla spedita, sicché Giovanni l'ebbe dal figlio di lui.
L'importanza della corrispondenza è evidente anche dal poco che fin qui si è detto. D. si distoglie dall'alta poesia del Paradiso per dettare, in modo non indegno della sua arte, versi latini. Il problema da cui muove la corrispondenza non è nuovo per lui (si pensi alla difesa del volgare nel Convivio); ma qui l'attacco è portato da un rappresentante di quelle correnti preumanistiche che s'incentrano nel Mussato, e D., accettando la sfida, si cimenta in un'impresa schiettamente umanistica, in diretta emulazione con Virgilio. Le sue e. segnano il ritorno di un genere letterario, il bucolico, che avrà subito in Petrarca e Boccaccio e poi in tutto l'Umanesimo singolare fortuna. Ci sono dunque nella ‛ corrispondenza ' elementi anticipatori, che ben si addicono alla statura di D., ma che giustificano anche i dubbi, più di una volta affacciati, intorno alla sua autenticità. Sarà opportuno un esame più minuto dei testi.
I. " Pyeridum vox alma... ". È un'epistola di 51 esametri: Giovanni del Virgilio si rivolge a D. con devota ammirazione, ma lo rimprovera di scrivere carmine laico, cioè in volgare, che è come gettar perle ai " cinghiali ", e lo esorta à comporre poemi latini. Per questi poemi, gli propone, con allusioni più o meno allegoriche, quattro temi di storia contemporanea (D. avrebbe dovuto dunque inserirsi in una tradizione epico-storica, che fu rigogliosa nel Medioevo e alla quale si riallaccia in qualche modo il Mussato): la spedizione di Enrico VII, la vittoria di Uguccione sui Fiorentini, quella di Cangrande sui Padovani e infine " Ligurum montes et classes Parthenopeas " (v. 29), dunque il cosiddetto assedio di Genova (luglio 1318 - febbraio 1319) che vide contrapposti Roberto di Napoli e i ghibellini di Marco Visconti. I quattro fatti storici sono enumerati in ordine cronologico e, almeno i primi tre, si prestano a una celebrazione di tendenza ghibellina. L'ultimo, l'assedio di Genova, che terminò in effetti con vantaggio per la Parte guelfa, è probabile non fosse ancora concluso, quando l'epistola fu scritta. Se D. vorrà poetare in latino, continua Giovanni del Virgilio, acquisterà fama in tutto il mondo ed egli sarà lieto di presentarlo nei " ginnasi " coronato d'alloro. Spera comunque che il cigno canoro vorrà rispondere al " temerarius anser " che l'ha provocato. Il carme di Giovanni serve dunque ad aprire una specie di tenzone poetica: nulla in esso che si richiami alla poesia bucolica.
II. Vidimus in nigris... Esortato da Giovanni a scrivere in latino un poema, D. rispose con un carme bucolico: fu indotto a ciò forse da un intento polemico, allo stile alto dell'epica contrapponendo quello umile dell'e. (su questa differenza insiste poi Giovanni, nella sua replica: III 31-32 " depositis calamis maioribus, inter / arripio tenues "); o vide nell'e. il genere più consono allo stile di una ‛ tenzone '; o, raccogliendo la sfida, intese rispondere con un testo latino che avesse una sua dignità e completezza, nell'ambito di un genere ben definito. Tra i quattro componimenti che costituiscono la " corrispondenza " è questo forse il, migliore per sobrietà ed equilibrio. È un'e. di 68 esametri, vivacemente dialogata: solo che le battute sono inserite in un breve tessuto narrativo e introdotte quasi sempre da forme verbali come dixit, inquam, ait. Titiro (Dante) riceve la missiva di Mopso (Giovanni del Virgilio) mentre sta contando le pecore insieme con Melibeo. Dal commento del Laur. 29 8 apprendiamo che sotto questo nome si cela Dino Parini, fiorentino, esule insieme con D. e suo amico, quello stesso che secondo il Boccaccio (Esposiz. VIII esp. litt. 13) rivendicava a sé, in gara con Andrea di Leone Poggi, il merito di aver ritrovato i primi " sette canti " della Commedia. Titiro elude a lungo l'impaziente curiosità di Melibeo, che vorrebbe conoscere il tenore della missiva, finché si decide a dirgli che Mopso, alto e appassionato cultore delle Muse, lo invita alla fronda peneia (me vocat ad frondes versa Peneyde cretas, v. 33). Non è ancora necessariamente un cenno alla coronazione, ma subito dopo, quando Melibeo gli chiede se la sua fronte resterà a lungo priva di onore (si ricordi che il Mussato fu coronato poeta nel 1315), Titiro esclama: " quanti belati nei colli e nel piano quando io, cinto il capo di verdi fronde, canterò il peana! "; e prosegue dicendo che teme di recarsi a Bologna e che meglio sarà per lui cingere la corona di lauro sulle rive del Sarno (cioè dell'Arno), quando la terza cantica sarà compiuta (cfr. Pd XXV 1-9). " Purché Mopso lo consenta ", aggiunge con qualche ironia, e a un'esclamazione meravigliata di Melibeo risponde spiegandogli che Mopso lo rimprovera di usare comica verba, quali suonano anche sulla bocca di femminucce (cfr. Ep XIII 31 locutio vulgaris in qua et mulierculae communicant). Ma per convincere Mopso a ricredersi, Titiro ha pronto un rimedio: gli manderà dieci ciotole (decem vascula) del latte di una sua ovis gratissima, che vive appartata da ogni gregge e spontaneamente si fa mungere. Sul significato di questo discorso si è molto discusso. La spiegazione data dal Laur. 29 8, secondo cui l'ovis gratissima sarebbe la poesia bucolica, ha avuto tra i moderni pochi ma validi sostenitori (Novati, Marigo, Parodi, Zabughin e da ultimo, in diversa prospettiva, A. Rossi), discordi peraltro sul valore da attribuire ai decem vascula (promessa di scrivere effettivamente dieci e.; vago riferimento alle dieci e. virgiliane e ai " mala decem " di Virg. Ecl. III 71, assunti a simbolo del genere bucolico). A sostegno di tale interpretazione sta il fatto che Giovanni del Virgilio, nell'e. responsiva (III 94-95), si proponga di contraccambiare con altrettanti vascula di latte (ché lo scambio di doni è d'obbligo tra cantori bucolici). Più largo credito ha avuto l'ipotesi che D. intendesse inviare a Giovanni la copia di dieci canti del Paradiso, come saggio di quell'opera di cui si aspettava l'ambito riconoscimento. Si avrebbe qui un accenno a quella divulgazione parziale e progressiva del Paradiso che dovrebbe supporsi anche in base all'epistola a Cangrande (ma di cui non sembra resti traccia nella tradizione manoscritta).
III. " Forte sub inriguos... ". È l'e. responsiva di Giovanni del Virgilio, in 97 esametri. Mopso, udito il canto di Titiro, vuol provarsi anche lui nella poesia pastorale, e gli risponde al suono della zampogna. Loda i suoi versi che fanno di lui un secondo Virgilio, lo compiange per la sua sorte di esule, lo invita nei suoi antri a Bologna, dove avrà liete accoglienze e discepoli devoti. Mentre Mopso canta, una sua vaccherella gli gira intorno: la mungerà per rendere a Titiro tanti vascula quanti egli ne ha promessi a lui; sebbene sia forse superbia donar latte a un pastore. Il componimento, traboccante di nomi bucolici (Nisa, Alessi, Fillide, Coridone, Testili, Melibeo, Iolla), dipende quasi esclusivamente dalla seconda e. di Virgilio, giacché l'invito che Mopso rivolge a Titiro si atteggia a quello che l'innamorato Coridone fa al giovane Alessi. Mopso è rusticus come Coridone, e come lui teme che i suoi doni non possano gareggiare con quelli di Iolla (nel caso di D., Guido Novello da Polenta). In Virgilio Coridone termina il suo dire con il proponimento, o la minaccia, di cercarsi un altro Alessi (" Invenies alium, si te hic fastidit, Alexim ", II 73): Giovanni del Virgilio, se disprezzato da D., si rivolgerà al Mussato (v. 88 " Me contempne: sitim frygio Musone levabo ", mi disseterò alle acque del Musone, fiume padovano). La dipendenza dal modello virgiliano appare qui più stringente che nell'e. dantesca. In complesso il componimento ha un certo movimento bucolico nel modo con cui il canto di Mopso s'inserisce nel racconto che gli fa da cornice; manca però un vero e proprio dialogo, com'è invece nelle due e. di D. e sarà poi in quella di Giovanni al Mussato. Sembra si possa constatare un progressivo avvicinamento di Giovanni del Virgilio ai modi della poesia bucolica.
IV. Velleribur Colchis... È la replica di D. alla precedente missiva, nello stesso numero di versi (97 esametri; e la coincidenza non sembra fortuita). Per fuggire alla calura meridiana Titiro e Alfesibeo (secondo il Laur. 29 8, il medico Fiducio de' Milotti) si rifugiano a conversare nella selva ombrosa: Alfesibeo si mostra stupito che Mopso abbia tanto affetto per gli orridi sassi dei ciclopi (Bologna). Giunge di corsa Melibeo (Dino Perini) e soffiando nella zampogna fa sentire i 97 versi di Mopso (tre soffi in più e sarebbero cento). Questa prima parte ha una sua levità e festevolezza, per le risa con cui i vecchi pastori accolgono il giovane Melibeo, trafelato e ansante, e la descrizione del miracolo per cui dalle canne della zampogna, come già nel mito di Mida, escono parole articolate. Ma il discorso si fa serio, quando Alfel'ibeo scongiura Titiro, il " venerando vecchio ", a non cedere alsinvito di Mopso, a non disertare i pascoli noti. Risponde Titiro che Mopso, unito a lui nell'amore per le Muse, lo invita ai lidi etnei (Bologna), perché non conosce l'amenità dei pascoli in cui egli ora si trova (Ravenna); accetterebbe tuttavia se non avesse timore di Polifemo. Alfesibeo di rincalzo ricorda la crudeltà di Polifemo, la morte di Aci, le disavventure di Achemenide; per amore della laurea, Titiro non si lasci tentare a recarsi a Bologna, ché più alto premio gli si prepara altrove. Titiro sorride e ognuno dei pastori ritorna al suo gregge. Iolla, che ha udito tutto da un suo nascondiglio, ne dà conto a chi scrive e questi a Mopso. A che cosa voglia alludere D. sotto il nome di Polifemo non è chiaro; il Laur. 29 8 non suggerisce nulla; i moderni hanno presentato varie ipotesi: i torbidi del 1321 che portarono alla cacciata di Romeo de' Pepoli; l'azione antighibellina di Giovanni XXII e di Roberto d'Angiò; l'esistenza in Bologna di un discendente di Venedico Caccianemico, giustamente irato contro D. (Ricci), ecc. Lo Zingarelli vide in Polifemo un simbolo generico di disordinata violenza; il Carducci suppose che D. esprimesse " una gelosia delicata della propria reputazione quasi dubitasse parer disertore della sua parte cedendo agli inviti d'una città guelfa ". Con maggior probabilità, Polifemo può essere identificato con Fulcieri da Calboli (Reggio). V. POLIFEMO. Più difficile scoprire la precisa allegoria di Aci e di Achemenide. Non sappiamo del resto quali potessero essere le opinioni dell'autore circa la necessità o meno di una precisa corrispondenza tra senso letterale e senso allegorico nella bucolica: già in Servio, a proposito di Virgilio, si fa cenno a due opposte tendenze interpretative, una più consequenziale e l'altra meno.
L'esame della corrispondenza, mostrando come essa si articoli in quattro componimenti così diversi tra loro, sembra attestare il formarsi occasionale di essa in quattro momenti successivi, contro l'ipotesi di una falsificazione; e del resto, una fitta rete di riferimenti la inserisce opportunamente nel tempo e nell'ambiente in cui si sarebbe formata. Messa da parte la lettura in chiave ironica (ironia contro i sostenitori del latino), che fu proposta dal Voigt e dal Gaspary e per la quale il Parodi mostra ancora qualche simpatia, la critica più recente, a cominciare dal Carducci, si è diretta verso un'interpretazione psicologicamente più complessa, volta a stabilire le reazioni di D. verso persone e cose dell'ambiente ravennate e bolognese (alcune persone come Dino Perini e Fiducio de' Milotti sono, almeno anagraficamente, individuabili). Studi minuti, spesso puntigliosi dei dati culturali, delle particolarità linguistiche e metriche, sono stati promossi dall'ipotesi di A. Rossi, secondo cui la corrispondenza (e insieme l'e. di Giovanni del Virgilio al Mussato) sarebbe una falsificazione del Boccaccio. Come la lettera a frate Ilaro, essa avrebbe l'intento di creare per D., contro le riserve del Petrarca, un prestigio di poeta latino. Ma alla luce di questa ipotesi la composizione della corrispondenza dovrebbe porsi a dopo il 1350: troppo tardi, sembra, anche in relazione con lo sviluppo dello stile bucolico presso il Boccaccio e gl'influssi che ebbe su di esso l'esempio del Petrarca. Una soluzione definitiva del problema potrà essere data, forse, dall'edizione critica che ancora manca.
Le e. di D. ci restano in otto codici: a) Laurenziano 29 8, il cosiddetto " Zibaldone Laurenziano ", autografo del Boccaccio: oltre all'intera corrispondenza, esso contiene l'e. di Giovanni del Virgilio al Mussato, altri componimenti minori di Giovanni del Virgilio (nonché l'e. Argus del Petrarca): il testo è accompagnato da un commento, che può risalire in tutto o in parte al Boccaccio stesso; qualche variante al testo è segnata sui margini. Del codice esiste una riproduzione fototipica, a cura di G. Biagi, con note illustrative di E. Rostagno (Firenze, Olschki 1915). b) Pal. lat. 3198 di Vienna, tardo collaterale del precedente. C) Estense lat. 676 (α X 2 16). d) Oratoriano MCF I 16 (X 16) di Napoli. e) Laurenziano 39 26. f) cod. di Kynžwart (Boemia occidentale), Bibl. del Castello 2 D 4 (ms. 1). g) di Siena, Bibl. Com. H VI 33. h) di Parigi, Bibl. naz., Nouv. Acq. - lat. 650. L'Estense e l Oratoriano, affini tra loro, traggono origine, secondo il Billanovich, dal codice che fu di Pietro da Moglio, il quale dopo il 1360 tenne, sulla corrispondenza, un corso universitario. Degli ultimi quattro codici, i primi due (Laur. 39 26; Kynžwart) non contengono l'epistola di Giovanni del Virgilio, gli altri (Siena, Parigi) contengono solo le due e. di D.; tutti e quattro risalgono, più o meno direttamente, a una vasta silloge di poesia bucolica ordinata dal Boccaccio stesso, che si conservava un tempo, insieme con il Laur. 29 8, nella biblioteca di Santo Spirito.
La prima edizione si ebbe nei Carmina illustrium poetarum Italorum, I, Firenze 1719, 115 ss. (le due e. di D.), XI, 1726, 362 ss. (l'e. di Giovanni del Virgilio); seguirono l'edizione di I. Dionisi (Aneddoti IV, Verona 1788), che si valse di una trascrizione del Laur. 29 8 fornitagli da A.M. Bandini, e molte altre che poco progresso portarono alla retta costituzione del testo. Una svolta decisiva si ebbe all'inizio del secolo con l'ediz. di P.H. Wicksteed e E.G. Gardner (Westminster 1902) e soprattutto con quella di G. Albini (Firenze 1903), importante anche dal punto di vista esegetico per la traduzione che l'accompagna e le note. L'ediz. dell'Albini è a fondamento di quella di E. Pistelli (Le opere di D., Firenze 1921, 455-463); molto discutibile l'ediz. e trad. di E. Bolisani (Firenze 1963). Utilissima invece la ristampa dell'ediz. dell'Albini, a cura di G.B. Pighi (Univ. di Bologna. Studi pubbl. dall'Ist. di Filologia classica, XVIII, Bologna 1965) con l'aggiunta di qualche nota e di abbondante materiale critico. Il Pighi ha dato anche una sua traduzione in prosa, in " Convivio " XXXIV (1966) 318-338. Fra le traduzioni vanno ricordate le due tedesche di K.L. Kannegiesser (che accompagna l'ediz. di K. Witte, Lipsia 1842) e di C. Krafft (Regensburg 1859).
Bibl. - G. Carducci, Della varia fortuna di D., in " Nuova Antol. " 3 ottobre 1866 (poi in Opere X 263-310); F. Macrìleone, La bucolica latina nella letter. ital. del secolo di D.-I: Le Egloghe di D., Torino 1889; G. Albini, Le Egloghe, in Lectura Dantis, Firenze 1906 (rist. in G.B. Pighi, op. cit., 123-136); E. Carrara, La poesia pastorale, Milano 1908, 68-85; A. Marigo, Il classicismo virgiliano nelle Egloghe di D., in " Atti e Mem. R. Accad. Padova " XXV (1909) 188-196; G. Lidònnici, La corrisp. poetica di Giov. del Virgilio con D. e il Mussato, e le postille di G. Boccaccio, in " Giorn. d. " XXI (1913) 205-243; ID, D. e G. del Virgilio, ibid XXIX (1926) 141-150; A. Belloni, Genesi e caratteri della bucolica dant., in " La Rassegna " XXVIII (1930) 113-122; C. Battisti, Le egloghe dantesche, in " Studi d. " XXXIII (1956) 61-111; A. Rossi D., Boccaccio e la laurea poetica, in " Paragone " n.s., XIII (1962) 3-41; (recens. di G. Padoan, in " Studi sul Boccaccio " I [1963] 528-544); A. Rossi, Il carme di G. del Virgilio a D., in " Studi d. " XL (1963) 133-278; G. Billanovich, G. del Virgilio, Pietro da Moglio, Francesco da Fiano, in " Italia Medioev. e Uman. " VI (1963) 203-294, VII (1964) 279-324; A. Rossi, Boccaccio autore della corrisp. D. - G. del Virgilio, in " Miscellanea Stor. della Valdelsa " LXIX (1963) 130-172 (recens. di G. Padoan, in " Studi sul Boccaccio " Il [1964] 475-507); G. Martellotti, Dalla tenzone al carme bucolico, in " Italia Medioev. e Uman. " VII (1964) 325-336; F. Mazzoni, Le Egloghe e le Epistole, in " Città di vita " XX 3 (1965) 395 ss. (Dante minore); G. Martellotti, La riscoperta dello stile bucolico, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 335-346; G. Vecchi, G. del Virgilio e D.: la polemica tra latino e volgare, ecc., in D. e Bologna, Bologna 1967, 61-78; A. Rossi, Dossier di un'attribuzione, in " Paragone " n.s., XIX (1968) 61-125; G. Reggio, Le egloghe di D., Firenze 1969.
In particolare su persone e circostanze storiche: C. Ricci, L'ultimo rifugio di D., Milano 1891 (le pagine interessanti la corrispondenza sono ristampate in G.B. Pighi, op. cit., 139-165); G. Livi, D., suoi primi cultori, sua gente in Bologna, Bologna 1918, passim; A. Scolari, Note storiche sulla corrispondenza poetica di D. con G. del Virgilio, in " Giorn. d. " XXIII (1922) rist. in G.B. Pighi, op. cit., 181-198. Sulla " ovis gratissima ": F. Novati, Indagini e postille dantesche, Bologna 1899, 43-59; G. Pascoli, La mirabile visione, Messina 1902 (le pagine interessanti la corrisp. sono ristampate in G.B. Pighi, op. cit., 169-178); E.G. Parodi, La prima Egloga di D. e l'ovis gratissima, in " Atene e Roma " XIV (1911) 193-213; V. Zabughin, Virgilio nel Rinascimento italiano, I, Bologna 1921, 6 ss., 60-61 n.; G. Lidònnici, Di alcuni giudizi intorno a D., il Mussato e l'ovis gratissima, in " Giorn. d. " XXVII (1924) 79-90; E. Chiarini, I decem vascula della prima egloga dant., in D. e Bologna, Bologna 1967, 77-78. Su Polifemo: Zingarelli, Dante 760; G. Mazzoni, D. e il Polifemo bolognese, in Almae luces malae cruces, Bologna 1941, 349-372. Sulla lingua: G. Brugnoli, Il latino, di D., in D. e Roma, Firenze 1965, 51-71 (ma si vedano anche le obiezioni del Rossi, in Dossier per una attribuzione, cit.); E. Paratore, Il latino di D., in Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 131-136. Per la tradizione manoscritta e la critica del testo: E.G. Parodi, Un'edizione inglese delle poesie latine di D. e G. del Virgilio, in " Giorn. d. " X (1902) 351-363; A. Rossi, Un autografo ficiniano delle Egloghe alla Naz. di Parigi, in " Studi d. " XXXVII (1960). 291-298; G. Billanovich-F. Čáda, Testi bucolici nella biblioteca del Boccaccio, in " Italia Medioev. e Uman. " IV (1961), 201-221; G. Billanovich, G. del Virgilio, Pietro da Moglio, ecc., cit.; G. Folena, La tradizione delle opere di D.A., in Atti del Congr. Internaz. di Studi dant., Firenze 1965, 36-39 (anche in Geschichte der Textüberlieferung der ant. und mittelalt. Litt., II, Zurigo 1964, 449-452). V. anche Giovanni del Virgilio.