ELASTICITÀ (dal gr. ἐλαύνω "spingo, faccio muovere")
1. Si designa con questo nome la proprietà che, in maggiore o minor misura, posseggono i corpi naturali, di deformarsi sotto l'azione delle forze esterne a esse applicate, e di riprendere poi la forma e le dimensioni primitive non appena siano sottratti all'azione di quelle forze. In realtà le deformazioni dei corpi naturali sono soltanto in parte elastiche: non scompaiono cioè mai completamente al cessare dell'azione delle forze deformatrici; qualche cosa della deformazione permane sempre, indice sicuro d'una vera e propria alterazione di stato che le forze hanno determinato nel materiale. Tuttavia, nella maggior parte dei corpi naturali - e più particolarmente in quelli di essi che trovano più frequente impiego nella tecnica - si osserva che la deformazione permanente si mantiene, nei casi pratici, nei limiti di una frazione assai piccola della deformazione totale, tanto più piccola quanto minore è la deformazione stessa, o, ciò che fa lo stesso, quanto minore è l'intensità della sollecitazione. Ché anzi, finché questa sollecitazione non supera un certo limite di elasticità - variabile da corpo a corpo - la deformazione permanente si mantiene inapprezzabile con gli ordinarî metodi di misura. Finché la sollecitazione si mantiene al disotto di esso, lo studio delle deformazioni dei corpi naturali si può assimilare a quello di un corpo ideale, che chiamaremo corpo perfettamente elastico, nel quale lo stato di deformazione in ciascun istante si può considerare come una funzione perfettamente definita del sistema di forze esterne che in quell'istante agisce sul corpo.
Si chiama teoria dell'elasticità la teoria matematica delle deformazioni piccolissime del corpo perfettamente elastico.
Di questa teoria esporremo qui i soli concetti fondamentali e i teoremi più importanti - specie dal punto di vista delle possibili applicazioni tecniche - tralasciandone le dimostrazioni. Per queste, come pure per più ampî sviluppi, interessanti la scienza delle costruzioni, rimandiamo il lettore ai trattati speciali (cfr. per es. G. Colonnetti, La statica delle costruzioni, I, Torino 1928).
Tra le conclusioni cui la teoria conduce, metteremo in particolare rilievo quelle che meglio si prestano alla verifica sperimentale e alla conseguente determinazione dei limiti entro i quali la teoria rappresenta in modo soddisfacente i fatti naturali. Va da sé che di alcune limitazioni nell'applicabilità della teoria noi non avremo bisogno di trovare la conferma nell'esperienza; esse discendono infatti immediatamente dalle nostre premesse. Così, per es., riterremo come inteso, una volta per tutte, che la teoria dell'elasticità non può essere in alcun modo applicata in quei casi in cui si verifica una deformazione permanente apprezzabile.
Vi sono in natura dei corpi per i quali ciò avviene anche se le forze esterne si mantengono molto piccole, per i quali cioè il limite di elasticità è inferiore a tutte le quantità osservabili: sono i corpi che vengono comunemente detti non elastici; essi non trovano che ben difficilmente applicazione come organi resistenti delle costruzioni: comunque non dobbiamo dimenticare che, nei loro riguardi, non è lecito annettere alla teoria dell'elasticità valore alcuno.
Tutti gli altri corpi, per i quali il limite di elasticità è superiore alle più piccole grandezze osservabili, possono, al disotto di tal limite, almeno in via di approssimazione, essere paragonati al corpo ideale che abbiamo testé definito.
La teoria potrà servire a studiare, di questi corpi, le deformazioni piccolissime. Insistiamo di proposito sulla supposta piccolezza delle deformazioni, riservandoci di farne a suo tempo vedere l'importanza essenziale dal punto di vista analitico. Fra i corpi elastici naturali ve ne sono infatti di quelli che, anche sotto l'azione di forze assai moderate, subiscono deformazioni molto appariscenti. Sono quelli che volgarmente si dicono molto elastici (citiamo, tanto per intenderci, il caso del caucciù e simili); in tali condizioni essi vanno alla loro volta esclusi da ogni possibile applicazione della teoria; è manifesto infatti che una variazione di dimensioni che può raggiungere, o anche superare notevolmente le dimensioni primitive, non ha nulla a vedere con le considerazioni che noi verremo svolgendo, e in cui le deformazioni saranno trattate come infinitesime.
Per verità si potrebbe a questo punto obiettare che nessuna delle deformazioni che ci si presentano in natura può dirsi infinitesima: il fatto stesso che noi riusciamo a sottoporle a misura basta a provare che si tratta d'una grandezza finita.
Si può però prevedere fin d'ora che l'errore che si viene a commettere trattando come infinitesime deformazioni che non sono tali in realtà, riuscirà tanto minore quanto più le deformazioni in questione saranno piccole. Più precisamente si può congetturare che esisterà un limite al disotto del quale gli errori a cui la teoria conduce si manterranno inferiori a quegli errori di osservazione che non riusciamo a evitare. Al disotto di quel limite ci troveremo nell'impossibilità materiale di mettere in evidenza le divergenze tra fatti e teoria; diremo allora che questa è praticamente verificata.
2. Diciamo che un solido ha subito una semplice deformazione, senza cambiamento alcuno di stato fisico o chimico, se per definirne lo stato attuale basta conoscerne lo stato iniziale e gli spostamenti che occorre attribuire ai diversi punti materiali che lo compongono per farli passare dalla posizione che essi avevano inizialmente alla posizione che essi occupano attualmente.
Supponiamo che per effetto di una tale deformazione un punto generico del corpo sia passato dalla posizione M di coordinate x, y, z alla posizione M′ di coordinate x′, y′, z′. Lo spostamento MM′ è individuato in grandezza, direzione e senso dalle sue proiezioni sui tre assi coordinati (ortogonali) a cui il corpo s'immagina riferito. Queste proiezioni
dette componenti dello spostamento del punto M′, sono funzioni delle coordinate x, y, z di M. Noi ammetteremo sempre che esse siano continue, uniformi, piccolissime di fronte all'unità.
Si dimostra allora che si può considerare come definita la deformazione di un intorno qualsiasi di M, se son date le tre variazioni unitarie delle lunghezze di tre elementi lineari uscenti da M e fra loro ortogonali a due a due (coefficienti di dilatazione lineare in codeste tre direzioni), nonché le tre analoghe variazioni degli angoli primitivamente retti, formati da quegli stessi elementi (scorrimenti mutui di codeste tre direzioni). Questi sei parametri (componenti della deformazione nel punto M), si denotano, con riferimento alle direzioni dei tre prefissati assi cartesiani ortogonali x, y, z, con εx, εy, εz e γyz, γzx, γxy; e si possono così esprimere in funzione delle nove derivate parziali delle componenti di spostamento:
Sussistono nei loro riguardi i seguenti teoremi:
Ogni deformazione, le cui componenti siano ovunque nulle, non differisce da un moto rigido.
Due deformazioni caratterizzate ovunque dagli stessi valori delle sei componenti di deformazione, non differiscono che per un moto rigido del corpo. Una deformazione è dunque pienamente determinata, quando se ne conoscano in ogni punto i valori delle sei componenti εx, εy. . ., γxy.
Per contro, date ad arbitrio sei funzioni εx, εy. . ., γxy delle coordinate, esse non possono sempre assumersi come componenti di una deformazione possibile. Perché infatti esistano tre funzioni u, v, w dalle quali le sei funzioni prescelte possano farsi derivare secondo le relazioni (2), occorre che siano soddisfatte certe equazioni differenziali, dette condizioni di congruenza o condizioni di A.-J.-C. Barré de Saint-Venant (v.), su cui qui non è il caso d'insistere.
Passiamo piuttosto a precisare che cosa dobbiamo intendere quando affermiamo che un solido è elastico: vediamo cioè di concretare quali siano le condizioni che debbono essere verificate perché la deformazione, che ormai abbiamo dal punto di vista geometrico completamente caratterizzata, sia suscettibile di scomparire spontaneamente col cessare delle cause che l'hanno prodotta.
Osserviamo subito che la tendenza del solido elastico deformato a ritornare nello stato naturale, anzi, più generalmente, la tendenza che ogni suo elemento possiede a ritornare nello stato non deformato, si può esprimere ammettendo l'esistenza di un'energia potenziale nella quale si deve intendere trasformato il lavoro meccanico che è stato necessario eseguire per portare il corpo nel suo stato attuale di coazione elastica, e che è suscettibile di trasformarsi di bel nuovo in lavoro se la deformazione viene ad annullarsi.
Sulla natura di questa energia potenziale elastica faremo le ipotesi seguenti. Ammetteremo in primo luogo che l'energia di un dato solido elastico sia la somma delle energie elementari dei singoli suoi elementi, e che ciascuna di queste risulti completamente definita dalla conoscenza dello stato dell'elemento a cui si riferisce, senza che occorra far intervenire nella sua definizione la sua posizione nello spazio, né lo stato degli altri elementi che costituiscono il solido, né la posizione di questi in rapporto al primo.
L'energia potenziale elastica potrà dunque scriversi:
l'integrale essendo esteso a tutto lo spazio V, connesso, occupato dal corpo, e ϕ essendo una funzione delle sei componenti di deformazione εx, εy, εz, γyz, γzx, γxy, che supporremo uniforme, finita, continua e sviluppabile in serie di potenze di queste variabili, secondo la nota formula di C. MacLaurin:
dove (ϕ)0, (∂ϕ/∂εx)0,. . ., denotano i valori assunti da ϕ, ∂ϕ/∂εx,. . . per εx = . . . = γxy = 0.
Occorre appena avvertire che le condizioni εx = εy = . . . = 0 esprimono che l'elemento non è deformato. In queste condizioni è logico ammettere che esso si trova in equilibrio stabile. In assenza di forze esterne la sua energia potenziale elastica deve perciò essere minima. Riterremo che tale energia sia nulla ed imporremo che in ogni altro caso l'energia potenziale elastica elementare sia positiva. Ciò richiede intanto che nell'espressione di ϕ si annullino tanto il termine costante quanto il gruppo dei termini di primo grado, per valori quali si vogliano dei parametri variabili; richiede cioè che si abbia
Quanto ai termini del secondo grado, supporremo che i loro coefficienti non siano tutti identicamente nulli, né trascurabili a fronte di quelli dei termini di grado superiore: si possono allora trascurare questi termini di grado superiore a fronte di quelli del secondo grado e la condizione di minimo sopra enunciata risulta soddisfatta ogniqualvolta la forma
a cui si riduce lo sviluppo, è essenzialmente positiva. L'energia potenziale elastica elementare sarà adunque una forma quadratica essenzialmente positiva delle sei componenti di deformazione.
Il suo sviluppo completo che consta di 21 termini, contiene, in generale, 21 coefficienti distinti costanti, cioè indipendenti dalle εx, εy. . .γxy, e che perciò si possono scrivere semplicemente
I loro valori dipendono dalla natura della materia di cui l'elemento è costituito, e debbono risultare determinati quando sia completamente definito, almeno in ordine alle proprietà elastiche, lo stato non deformato dell'elemento. Essi sono quindi da considerarsi come variabili da corpo a corpo, anzi, in generale, da punto a punto dello stesso corpo in modo affatto generico, salve soltanto alcune restrizioni che derivano dall'imposta positività della funzione ϕ.
S'intende che il numero dei coefficienti distinti si ridurrà ogni qualvolta il materiale presenterà delle particolarità di comportamento nelle differenti direzioni, le quali si possano tradurre in relazioni obbligate tra i coefficienti stessi. Tipico, e particolarmente interessante per le applicazioni, è il caso dei materiali isotropi - vale a dire: il cui comportamento elastico è identico in tutte le direzioni - per i quali il numero dei coefficienti distinti si riduce a due.
3. Siano Fx, Fy, Fz le componenti per unità di volume, secondo i tre assi ortogonali, della forza applicata alla particella dV. In altri termini, siano
le componenti della forza applicata alla massa contenuta in dV.
Oltre a queste, che si dicono forze di massa, si possono avere delle pressioni o più generalmente delle forze superficiali. Siano
le componenti della forza applicata all'elemento dS della superficie S del corpo.
Immaginiamo d'imprimere idealmente al sistema, supposto in equilibrio sotto l'azione di queste forze, una deformazione virtuale, vale a dire congruente e compatibile, nonché piccolissima (il che poi vuol dire dello stesso ordine di grandezza di quella che esso ha già subita per passare dallo stato naturale allo stato attuale), durante la quale ogni punto già venuto dalla posizione iniziale di coordinate x, y, z alla posizione attuale di coordinate
passi ad una nuova posizione di coordinate
le δu, δv, δw soddisfacendo alle stesse equazioni di compatibilità a cui soddisfano per ipotesi le u, v, w.
Ogni forza di componenti X, Y, Z ad esso punto applicata - supposto che non varii né in grandezza né in direzione durante gli spostamenti piccolissimi subiti dal punto - compie, durante questa ulteriore deformazione, un lavoro
Volendo esprimere che la configurazione, in cui il sistema è stato preso in considerazione, è una configurazione di equilibrio, noi dobbiamo scrivere che la somma di tutti i lavori delle forze esterne è eguale, per qualsiasi deformazione virtuale come quella ora definita, alla variazione prima dell'energia potenziale elastica.
Se pertanto si indicano con
le corrispondenti variazioni delle componenti di deformazione, l'equazione generale dell'equilibrio elastico si può scrivere:
In questa equazione compaiono degl'integrali estesi allo spazio occupato dal solido o alla sua superficie. Ora, a rigore, tanto quello spazio quanto la superficie che lo limita dovrebbero essere considerati come variabili al variare dello stato di deformazione. Data però la supposta piccolezza delle deformazioni possiamo considerar l'uno o l'altra come costanti, riferendoci nelle nostre considerazioni al solido preso nel suo stato naturale. In tutta la teoria che stiamo svolgendo, questa norma sarà praticata sistematicamente: alle coordinate dei singoli punti del solido deformato si sostituiranno regolarmente le loro coordinate iniziali; tutte le grandezze relative alla deformazione verranno così riguardate e introdotte nei calcoli come puri enti analitici, sui quali si opererà riferendoli però sempre al sistema preso nel suo stato naturale, come se esso non si fosse mai deformato. Così stando le cose, l'equazione (4) dell'equilibrio elastico si può trasformare per modo da farvi scomparire ogni segno d'integrazione. Basta svincolare nel termine che esprime la variazione dell'energia elastica le δu, δv, δw in modo da farvele comparire linearmente come nell'espressione del lavoro delle forze esterne.
Poiché l'equazione deve essere verificata qualunque siano queste δu, δv, δw e perciò occorre e basta che si annullino separatamente e simultaneamente i rispettivi coefficienti, si ottengono facilmente le sei equazioni seguenti (dove n denota, punto per punto, la normale alla superficie S, orientata verso l'interno di V):
le prime tre delle quali si dicono equazioni indefinite perché valgono in ogni punto del corpo; le altre tre, valide soltanto in superficie, prendono il nome di equazioni ai limiti.
Si rifletta che
sono funzioni lineari delle componenti di deformazione e che perciò contengono linearmente le derivate prime degli spostamenti. Le derivazioni ulteriori di queste funzioni, indicate nelle equazioni indefinite, faranno pertanto comparire le derivate seconde di u, v, w. Adunque le equazioni indefinite sono equazioni alle derivate parziali del secondo ordine; integrandole si otterranno le espressioni di u, v, w contenenti quantità arbitrarie, le quali dovranno venir determinate mediante sostituzione nelle equazioni ai limiti.
4. Ma qui sorge il dubbio: basteranno sempre le equazioni indefinite per individuare un sistema di spostamenti, e le equazioni ai limiti per completarne la determinazione?
Per risolvere la questione in tutta la sua generalità bisognerebbe dimostrare che: 1. quel duplice sistema di equazioni ammette sempre una soluzione, cioè esiste sempre un sistema di spostamenti u, v, w, che soddisfa alle equazioni indefinite in tutto lo spazio, e che verifica, su tutta la superficie S che lo limita, le equazioni ai limiti; 2. tale soluzione è unica, cioè non possono esistere due diversi sistemi di spostamenti soddisfacenti entrambi a quell'insieme di condizioni.
In ordine alla prima questione basti qui accennare che, dopo le ricerche di G. Lauricella, di E. e F. Cosserat e di A. Korn, l'esistenza della soluzione del problema della deformazione elastica per date forze superficiali, può considerarsi, almeno in via generale, come dimostrata.
Dal punto di vista delle applicazioni poi la questione vien posta assai raramente: si preferisce dai più basarsi sul fatto che, quando ci si propone in pratica l'analisi d'un problema di equilibrio, dell'esistenza d'una soluzione, dal punto di vista fisico, si è già in ogni caso certi a priori; perciò se la traduzione matematica dei dati è stata fatta a dovere, anche il problema analitico deve necessariamente ammettere una soluzione.
Al secondo quesito poi si può rispondere affermando che, a prescindere da moti rigidi, le equazioni indefinite e le equazioni ai limiti sono sufficienti per la determinazione degli spostamenti.
In realtà il problema della determinazione degli spostamenti in funzione delle forze esterne applicate al solido è stato risolto in un certo numero di casi particolari. P. es. il caso del solido cilindrico (o prismatico) sollecitato solo in corrispondenza delle due sue basi, la cui soluzione generale fu data dal Saint-Venant; esso ha assunta particolare importanza perché vi si possono in via di approssimazione ricondurre i principali problemi relativi all'equilibrio elastico delle travi e degli archi.
5. Dalla linearità delle equazioni generali dell'equilibrio si deduce immediatamente il seguente importante teorema: Dati certi sistemi di forze esterne componenti
i quali, applicati separatamente a un dato corpo elastico, vi producano certi spostamenti di componenti
rispettivamente, nella deformazione dovuta al sistema di forze esterne che ha per componenti
ove k′, k″, . . . sono delle costanti arbitrarie, si producono gli spostamenti di componenti
Questo teorema, noto sotto il nome di principio della sovrapposizione degli stati di equilibrio è, nella pratica, di grandissima utilità perché permette spesso di scindere le diverse difficoltà di un problema, facendone dipendere la soluzione da quella di altri problemi più semplici.
Come caso particolare, questo teorema stabilisce la dipendenza lineare degli spostamenti dei singoli punti di un corpo elastico deformato dall'intensità delle forze deformatrici. Così espresso esso si presta egregiamente a quella verifica sperimentale della teoria dell'elasticità a cui abbiamo alluso fin da principio: la proporzionalità degli spostamenti alle grandezze delle forze che li hanno prodotti è infatti un fenomeno così semplice che, se vero, non può facilmente sfuggire all'attenzione dello sperimentatore.
E in realtà, fra tutte le caratteristiche delle deformazioni elastiche dei corpi naturali, è proprio questa che è stata sperimentalmente scoperta per la prima. Fu Robert Hooke (v.) che in seguito ad una serie d'esperienze sul comportamento delle molle di acciaio per orologi, annunciò per la prima volta nel 1676, sotto forma di anagramma, quella legge (ut tensio sic vis) che doveva costituire il punto di partenza di tutte le teorie delle deformazioni elastiche. La legge di Hooke trovò autorevole conferma nelle esperienze di molti fisici: segnatamente in quelle del Coulomb sul comportamento dei fili, e di E. Hodgkinson (1789-1861) e di H. E. Tresca sull'allungamento e sulla contrazione delle sbarre metalliche.
Non tardarono però a delinearsi le prime discordanze. Dapprima si trattò di corpi speciali, i quali alla legge di Hooke non uniformavano che molto grossolanamente il loro comportamento: in seguito, col crescere della precisione dei mezzi sperimentali, la classe dei corpi che nel deformarsi appaiono soddisfare a quella legge andò sempre più restringendosi. Sottosposto a studî sistematici sempre più minuziosi, il comportamento dei varî materiali si rivelò sensibilmente conforme alla legge di Hooke soltanto per sollecitazioni convenientemente limitate, la discordanza crescendo in ogni caso col crescere della sollecitazione e conseguentemente della deformazione prodotta. Anzi, dalle esperienze di T. O. Thompson (1891) risulterebbe che anche per minime sollecitazioni la legge di Hooke è verificata appena approssimativamente.
Tuttavia questa legge restò per unanime consenso il caposaldo sperimentale della teoria dell'elasticità. Soltanto, a determinare fino a qual punto questa teoria fosse poi praticamente applicabile, si sentì la necessità di precisare quel limite, a cui noi abbiamo già accennato nelle premesse, esaminando, in dati casi particolari, il comportamento dei corpi elastici sotto l'azione di forze d'intensità gradatamente crescente, e ricercando fino a qual punto la legge di proporzionalità apparisse verificata. Per questa ragione quel limite ha preso il nome di limite di proporzionalità. Esso non ha, nella sua ragion d'essere, nulla in comune col limite di elasticità, col quale troppo spesso viene confuso solo perché, per certi metalli fra i più comuni, con esso coincide molto sensibilmente.
Si vede subito che entrambi questi limiti dipendono dall'ordine di grandezza degli errori sperimentali: più i mezzi di osservazione e gli strumenti di misura diverranno perfetti, più questi limiti diverranno piccoli. Abbiamo già detto infatti che non esiste in natura nessun corpo perfettamente elastico. Col trascurare, per sollecitazioni inferiori al limite di elasticità, le deformazioni permanenti, noi non abbiamo inteso dire che esse non esistano, ma soltanto che esse sono inferiori alle più piccole quantità che i nostri strumenti sono capaci di misurare.
Similmente noi non possiamo pretendere che il principio di sovrapposizione degli stati di equilibrio, come del resto qualunque altro teorema da noi dimostrato vero per quelle deformazioni infinitamente piccole che formano l'oggetto delle nostre ricerche, sia verificato nelle deformazioni, piccole ma finite, che noi possiamo effettivamente osservare e sottoporre a misura: l'aver constatato che esiste un limite al di sotto del quale la teoria appare confermata dall'esperienza, non deve tentarci a concludere che al di sotto di quel limite la teoria rappresenta rigorosamente l'andamento dei fenomeni naturali, sibbene soltanto che le divergenze fra la teoria e la realtà delle cose sono, al di sotto di quel limite, praticamente inapprezzabili perché inferiori agli errori sperimentali.
In altri termini, e in conformità a quanto avevamo fin da principio preveduto, noi siamo condotti a conchiudere che il comportamento dei corpi elastici naturali si presenta tanto più vicino a quello dei corpi perfettamente elastici della teoria quanto minore è l'ampiezza delle deformazioni sulle quali si opera. E ciò è tanto vero che, se invece di considerare delle deformazioni statiche, si prendono in esame i moti vibratorî dei corpi elastici, moti le cui caratteristiche possono essere, entro certi limiti, facilmente studiate, anche quando le deformazioni che loro corrispondono sono estremamente piccole, per mezzo degli effetti sonori che li accompagnano, l'accordo della teoria con l'esperienza appare assolutamente completo: già G. G. Stokes infatti citava con ragione come una prova perentoria del valore della teoria dell'elasticità la costanza del tono musicale che si ottiene eccitando in un corpo elastico delle vibrazioni di ampiezze anche molto differenti fra loro. Se dunque da una parte la teoria non interpreta completamente nessuna esperienza, dall'altra tutte le esperienze mostrano concordi che, crescendo l'ampiezza delle deformazioni, i fenomeni che si osservano nei corpi naturali tendono a uniformarsi alle leggi della teoria, che presenta così tutti i caratteri di una teoria limite.
Ma noi dobbiamo proporci la ricerca del valore della teoria dell'elasticità, del grado di approssimazione che essa consente, dei limiti del campo delle sue applicazioni, non soltanto dai varî punti di vista dai quali può mettersi il fisico, ma anche dal punto di vista dal quale deve studiare il problema l'ingegnere. Ora sotto questo aspetto, l'importanza e l'utilità della teoria che noi abbiamo abbozzata nei suoi principî fondamentali, e di cui veniamo esponendo i principali teoremi, è superiore ad ogni aspettativa. Non è infatti da credersi che il grado di approssimazione che l'ingegnere deve chiedere a una teoria fisica sia soltanto determinato dall'ordine di grandezza degli errori sperimentali: esso è determinato soprattutto dalle esigenze dei problemi speciali al cui studio la teoria deve essere applicata. Ora per l'ingegnere la teoria dell'elasticità deve servire essenzialmente al calcolo delle dimensioni da attribuirsi agli organi resistenti delle costruzioni e delle macchine. Il problema tecnico, quale si presenta all'ingegnere, consiste o nel determinare la forma da attribuirsi alle singole parti di un sistema resistente per ottenere la migliore utilizzazione della materia di cui sono costituite, ovvero, più frequentemente, nel trovare il modo di sfruttare al massimo le proprietà resistenti dei pezzi che gli sono forniti direttamente dall'industria. Problema in generale assai semplice quest'ultimo: mentre il primo, quasi sempre molto complesso, richiede una soluzione vera e propria soltanto in un numero assai limitato di casi sufficientemente generali perché a essi possano essere ricondotti tutti gli altri.
I calcoli tecnici non possono d'altronde che essere grossolani. La necessità, in cui si trova il costruttore, di prevedere possibili difetti nel materiale da lui adoperato, o notevoli inevitabili imperfezioni nella sua lavorazione o nel modo stesso con cui viene messo in opera, e soprattutto il dovere che gl'incombe di mettere la costruzione al sicuro dalle conseguenze di possibili eccezionali aumenti nelle sollecitazioni esterne (aumenti la cui entità, a volte anche ragguardevole, non gli è dato di prevedere nell'impostare i suoi calcoli), lo obbligano ad usare sempre una quantità di materiale resistente superiore di molto a quella richiesta dalla teoria. Introducendo nelle sue formule i cosiddetti coefficienti di sicurezza egli viene a calcolare le sue costruzioni come se esse dovessero resistere a carichi assai più grandi di quelli che effettivamente egli pensi di realizzare. Perciò non interessa in generale all'ingegnere il conoscere le condizioni statiche della sua costruzione ad ogni istante e corrispondentemente ad ogni condizione di carico: gli basta quasi sempre assicurarsi che il massimo cimento a cui il materiale può effettivamente venire assoggettato, non giunga mai a mettere in pericolo la solidità della costruzione.
Adoperata in questo senso la teoria dell'elasticità si presta egregiamente, anzi nel migliore dei modi possibile, ai fini dell'ingegnere, in quanto lo conduce a metodi di calcolo relativamente semplici nei quali poco importa che la precisione sia impossibile, dal momento che essa sarebbe assolutamente inutile.
Tuttavia è opportuno che noi cerchiamo ancora di renderci ragione del perché la teoria dell'elasticità sia soltanto una teoria limite. Se, infatti, fosse tale solo perché i parametri della deformazione vengono in essa trattati come infinitesimi, si potrebbe pensare alla possibilità di sostituirla con qualche vantaggio con una diversa teoria la quale, tenendo conto di eventuali termini di grado superiore, giungesse, sia pure con una maggior complicazione nelle formule, a rappresentare con maggior approssimazione i fatti reali.
Orbene, anche prescindendo dal fatto che per rappresentare una deformazione finita non basterebbe affatto limitarsi a prendere in considerazione certi termini da noi trascurati come infinitesimi, ma occorrerebbe abbandonare tutto il meccanismo analitico della teoria classica, liberandosi addirittura da tutto ciò che ne costituisce l'intima essenza, è facile convincersi che un tale lavoro risulterebbe privo di ogni reale interesse qualora non si tenessero nel debito conto certi altri fenomeni che quasi sempre accompagnano le deformazioni elastiche che non sono piccolissime: fenomeni i quali fanno sì che la corrispondenza tra forze esterne e stato di deformazione del sistema perde, in pratica, quel carattere di biunivocità che, essenziale per la teoria classica, non potrebbe non esserlo anche per qualunque altra teoria che mirasse a uno scopo pratico.
È infatti notissimo a tutti gli sperimentatori che la durata dell'azione delle forze esterne ha un'influenza sovente essenziale sulle deformazioni dei corpi naturali. La variazione col tempo dello stato di deformazione prodotto in un corpo dall'azione di un dato sistema di forze esterne venne rilevata per la prima volta da W. Weber il quale aveva osservato, fin dal 1835, il fenomeno seguente: un filo di seta sotto l'azione di un peso anche moderato si allunga immediatamente di una certa quantità, poi l'allungamento continua a crescere in modo lento ma sensibile per molte ore; se si toglie il peso, il filo si accorcia immediatamente senza però arrivare a prendere subito la sua lunghezza primitiva: lunghezza che esso tende a riprendere soltanto dopo un certo tempo; in altri termini, il fenomeno dell'accorciamento, dapprima rapido, non cessa subito ma prosegue sempre più lentamente mantenendosi ancora visibile dopo parecchi giorni. Questo fatto, chiamato da Weber elastische Nachwirkung, venne ripreso in esame nel 1863 da R. Kohlrausch, il quale lo sperimentò sottoponendo a torsione dei fili sottilissimi di vetro.
Sperimentando sia sul vetro, sia su certi metalli speciali, egli trovò che un filo, abbandonato a sé stesso dopo una torsione un po' prolungata in un certo senso, non ritorna immediatamente al suo stato iniziale, l'angolo di torsione diminuendo progressivamente col tempo.
Se, durante questo periodo di elasticità ritardata, si assoggetta il filo per qualche istante a una piccola torsione in senso contrario e lo si abbandona poi nuovamente a sé stesso, il nuovo angolo di torsione si annulla assai rapidamente e il filo si ritorce spontaneamente di un certo angolo nel senso della deformazione primitiva, per riprendere poi a poco a poco il suo lentissimo moto di ritorno verso lo stato iniziale. Questa ricomparsa della prima deformazione non ancora totalmente annullata venne riconosciuta anche da numerosi altri sperimentatori. Essi hanno potuto constatare che il fenomeno dell'elasticità ritardata, particolarmente evidente nel comportamento del vetro, del piombo e di pochi altri corpi, è appena sensibile per la maggior parte dei metalli: il che non impedì ad Austen di sottoporlo ad accurato esame e di misurarlo, nel caso dell'argento, del rame e dell'ottone, tanto bene da poterne apprezzare le variazioni d'intensità dipendenti dalle variazioni di temperatura.
Le esperienze dimostrano concordi che se si fa variare in modo continuo la forza deformatrice, dapprima crescendo progressivamente da zero fino a un certo valor massimo, e decrescendo poi nuovamente fino a zero, per valori uguali di essa, la deformazione si mantiene generalmente, nel periodo di decremento, un po' maggiore che durante l'incremento della forza.
Più generalmente si può dire che al variare della sollecitazione esterna tra un valor minimo e un valor massimo comunque scelti, e fra questo massimo e lo stesso minimo, la curva che rappresenta la legge di variazione della deformazione in funzione della detta sollecitazione consta di due rami ben distinti, uno dei quali corrisponde ai valori crescenti, l'altro ai valori decrescenti; se si ripete successivamente un numero sufficiente di volte questa esperienza, si trova non di rado (per es., per il nichel, il rame, l'alluminio, e molti altri metalli) che la curva rappresentativa tende verso una forma limite o ciclo chiuso, che racchiude una certa porzione di piano la cui area rappresenta, come è facile riconoscere, quella parte del lavoro speso durante la deformazione del corpo, che non viene da questo restituita quando la deformazione stessa apparisce.
Ma se si viene accidentalmente a oltrepassare uno qualunque dei due valori limiti sopra scelti per la sollecitazione, il punto rappresentativo del fenomeno esce dal ciclo suddetto per descrivere una curva nuova, la quale tenderà, ove ne sia il caso, a un nuovo ciclo limite, in generale diverso dal primo.
Se si tien conto che non mancano poi altri materiali (piombo, ecc.) per i quali non si verifica neppure la suddescritta accomodazione dei cicli, si può concludere che lo stato di deformazione di un corpo deve, a rigore, considerarsi funzione non soltanto del sistema di forze a cui esso è attualmente soggetto, ma altresì di tutti quei sistemi di forze a cui il corpo stesso è stato assoggettato in precedenza.
Non è possibile soffermarci qui sui tentativi che negli ultimi anni si sono fatti per stabilire le basi di una teoria matematica dell'isteresi elastica: ci basta l'averne accennata la possibilità, nonché la connessione con le più moderne vedute sperimentali (v. ereditarietà meccanica), e soprattutto l'aver fatto intravvedere quanto complesso si presenti il problema delle deformazioni dei corpi a chi voglia in qualunque modo raggiungere un grado di approssimazione più elevato di quello consentito dalla teoria classica: la quale, sotto questo punto di vista, si presenta come dotata di un'importanza ben diversa, ma non meno reale, di quella che le è stata per tanto tempo attribuita in passato: essa è né più né meno di una teoria limite ma è un limite eccezionalmente prezioso perché determina il minimo di complessità dei fenomeni naturali.
5. Per conchiudere quel che dicevamo a proposito del problema generale dell'equilibrio elastico (n. 3) dobbiamo dire che ad equazioni analoghe alle (5) e alle (6) si giunge anche se si considera il solido come l'aggregato d'infiniti elementi di volume determinati in esso da tre sistemi di piani paralleli ai piani coordinati, e s'impone che ciascuno di questi elementi sia in equilibrio sotto l'azione delle forze esterne ad esso applicate e delle tensioni interne che da parte degli elementi attigui si esercitano su di esso attraverso le varie facce di separazione.
Attenendoci ad un uso ormai generalizzato, noi denoteremo tali tensioni interne con la lettera σ, se esse sono dirette normalmente alla superficie su cui operano, con la lettera τ, se invece sono dirette tangenzialmente. Più precisamente, supposte scomposte tali tensioni nelle loro componenti secondo i tre assi, indicheremo con
le tre componenti della tensione interna, relativa a un elemento superficiale avente per normale l'asse delle x, con
le analoghe componenti per un elemento superficiale avente per normale l'asse delle y, e finalmente con
quelle relative a un elemento superficiale avente per normale l'asse delle z. Si può allora dimostrare che: 1. Si ha
sicché delle nove componenti considerate, sei sole restano distinte.
2. Queste sei componenti distinte
bastano a determinare lo stato di tensione proprio del punto generico del solido: e cioè in funzione di esse si può sempre esprimere la tensione interna relativa a un elemento superficiale qualunque passante per quel punto. Perciò quelle sei componenti distinte prendono il nome di componenti speciali di tensione.
3. In ogni punto di V devono, per l'equilibrio, riuscir soddisfatte tre equazioni del tipo:
4. In ogni punto della superficie S che limita V devono invece riuscire soddisfatte altre tre equazioni del tipo:
Ora perché le (7) e (8) coincidano - come devono necessariamente coincidere - con le (5) e (6), occorre e basta che si abbia:
Grazie a queste relazioni - le quali esprimono le sei componenti speciali di tensione come funzioni, evidentemente lineari, delle sei componenti della deformazione - l'energia potenziale elastica ϕ che noi abbiamo definita come una funzione quadratica e omogenea delle εx, εy,. . ., γxy, può anche considerarsi come una funzione pure quadratica e omogenea, delle σx, σy. . ., τxy, per rapporto alla quale è facile dimostrare che sussistono anche le relazioni (reciproche delle precedenti):
6. Da ultimo occorre calcolare il valore dell'energia potenziale elastica Φ in funzione di quelli che sono generalmente i dati del problema; in funzione cioè delle forze esterne applicate.
Tale calcolo conduce all'espressione (teorema di Clapeyron):
L'energia potenziale elastica di un solido deformato sotto l'azione di date forze esterne, è dunque uguale alla somma dei semiprodotti delle forze stesse per gli spostamenti che esse determinano nei loro punti di applicazione (misurati al solito nelle direzioni stesse delle forze).
Ma tale somma è precisamente uguale al lavoro che le dette forze eseguiscono effettivamente quando, applicate al solido con intensità gradatamente crescenti dal valor zero al valore finale, esse determinano il passaggio del solido stesso dallo stato naturale allo stato deformato. Perciò l'energia potenziale elastica riceve da molti autori anche il nome di lavoro di deformazione del solido.
7. Riprendiamo ora la trattazione del problema generale dell'equilibrio di un solido elastico sotto l'azione di date forze esterne ad esso applicate.
Alla soluzione di questo problema noi siamo giunti mediante l'applicazione del principio dei lavori virtuali: abbiamo infatti preso in considerazione il sistema nel suo stato incognito di equilibrio e abbiamo imposta l'eguaglianza tra il lavoro delle forze esterne e la variazione prima dell'energia potenziale per qualsiasi deformazione virtuale, cioè congruente e compatibile, oltreché piccolissima. E siamo così pervenuti alle equazioni indefinite e ai limiti, equazioni che in ultima analisi abbiamo riconosciuto esprimere né più né meno che le condizioni necessarie e sufficienti perché sussista l'equilibrio tra le forze esterne e le tensioni interne applicate a ogni particella elementare del solido.
Queste equazioni, prese isolatamente, potrebbero nella maggior parte dei casi essere soddisfatte da infiniti sistemi di tensioni interne, sistemi che diremo perciò equilibrati: la soluzione del problema dell'equilibrio riesce determinata in quanto ad ogni sistema di componenti speciali di tensione corrisponde un sistema perfettamente determinato di componenti della deformazione, le quali debbono rappresentare uno stato possibile del solido, cioè debbono potersi ottenere dalle componenti di deformazione relative allo stato naturale con una variazione di configurazione congruente e compatibile coi vincoli.
Se s'intendono le cose a questo modo, il teorema dell'unicità della soluzione del problema dell'equilibrio elastico si può esprimere dicendo che esiste sempre uno ed un solo stato di deformazione di un corpo elastico dato, soggetto a forze esterne e a vincoli pure dati, che sia ad un tempo possibile ed equilibrato.
E le equazioni indefinite e ai limiti determinano la soluzione di tale problema in quanto sono atte a caratterizzare l'unico stato di deformazione equilibrato fra gl'infiniti possibili.
Ora è intuitivo che si deve poter giungere alla stessa soluzione anche ricercando l'unico stato di deformazione possibile fra tutti gli equilibrati. Questo procedimento, la cui discussione formerà oggetto delle pagine che seguono, è forse meno spontaneo del primo, in quanto manca di rispondenza nella realtà fisica del problema: esso può però in certi casi presentare sul primo un'indiscutibile superiorità dal punto di vista analitico.
Volendo infatti prendere ora in considerazione tutti quegli stati del solido, per cui il sistema delle componenti speciali di tensione risulta equilibrato, è chiaro che ci converrà per caratterizzarli assumere come variabili le sei componenti speciali di tensione:
cioè nell'espressione (3) dell'energia potenziale elastica
ϕ dovrà considerarsi come una funzione delle dette variabili.
Ciò posto, consideriamo il dato solido elastico nel suo stato, generalmente incognito, di equilibrio sotto l'azione delle date forze esterne: e proponiamoci di determinare quale variazione subirebbe Φ qualora si attribuissero idealmente alle tensioni interne e alle reazioni di vincolo certe variazioni in virtù delle quali, dallo stato attuale, per ipotesi possibile ed equilibrato, del corpo, si passasse a un nuovo stato ideale ancora equilibrato, per quanto non più possibile.
L'equazione, che così si trova,
è quella stessa a cui soddisfano i massimi e i minimi della funzione Φ: se pertanto si tiene conto del segno (che è sempre positivo) della variazione seconda di questa funzione, si può senz'altro concludere che: fra tutte le configurazioni equilibrate, l'unica possibile è quella per cui si rende minima la funzione Φ che abbiamo chiamata energia potenziale elastica o lavoro di deformazione.
In questa proposizione, enunciata per la prima volta da F. Menabrea alla R. Accad. delle scienze di Torino nel 1857 sotto il nome di principio di elasticità o del minimo lavoro, noi abbiamo conservato il nome di energia potenziale elastica o lavoro di deformazione alla funzione Φ, sebbene, quando non si tratta di una deformazione possibile del corpo ma soltanto di una variazione ideale del suo stato interno di tensione, essa Φ non abbia più tale significato fisico, né si possa riguardare come atta a misurare, con le sue variazioni, le variazioni dell'energia potenziale elastica del sistema.
All'espressione lavoro di deformazione dovrà perciò qui attribuirsi un significato astratto di somma ideale delle energie elastiche dei singoli elementi del corpo considerati come indipendenti.
Tutto al più si potrà attribuire, nelle applicazioni, un significato fisico più concreto alla funzione Φ, immaginando il sistema convenientemente liberato da certi vincoli ovvero alterato mediante tagli nel suo grado di connessione o addirittura diviso in un numero più o meno grande di parti, e considerando delle variazioni corrispondenti a deformazioni possibili di ciascuna parte presa separatamente, sebbene non compatibili fra loro: con ciò Φ verrà a rappresentare la somma delle energie elastiche possedute dalle singole parti riguardate come indipendenti.
Si è però soltanto quando queste singole parti deformate possono essere insieme connesse in modo da ricostituire in un unico complesso il solido dato (in un qualsiasi suo stato possibile di deformazione) che quella somma può venire interpretata come la misura dell'energia potenziale elastica accumulata nel corpo per effetto della deformazione. In altre parole è sempre soltanto nella configurazione di equilibrio, unica possibile fra tutte le considerate configurazioni equilibrate, che Φ rappresenta un vero e proprio lavoro di deformazione del solido dato, preso nel suo insieme.
Il teorema di Menabrea dovrebbe perciò a rigore enunciarsi dicendo che: fra tutte le distribuzioni equilibrate di tensioni interne e di reazioni di vincolo, quella che corrisponde allo stato di equilibrio è quella che rende minima la funzione Φ; il valore minimo di questa funzione è allora precisamente uguale al lavoro di deformazione del sistema.
È però invalso l'uso di enunciare più brevemente questo teorema affermando che la distribuzione delle tensioni interne e delle reazioni di vincolo in un corpo elastico è quella che rende il lavoro di deformazione minimo, compatibilmente con le forze esterne date.
Sotto questa forma esso ha dato luogo alle più strane controversie: in realtà la proposizione sarebbe affatto priva di significato qualora s'intendesse parlare del lavoro di deformazione propriamente detto, relativo cioè ai soli stati possibili del solido che si considera: perché di tali stati uno solo è in equilibrio con le date forze esterne (proprio quello che si tratta d'individuare), epperò, non essendovene altri, non avrebbe senso parlare di minimo del lavoro di deformazione compatibilmente con le forze esterne date.
La proposizione vuole, per riacquistare il suo significato, essere riferita alle deformazioni non congruenti o almeno non compatibili coi vincoli, deformazioni che nulla c'impedisce di scegliere compatibili (cioè in equilibrio) con le date forze esterne, e per le quali la funzione Φ può ancora, come si è detto, essere definita, se non come un vero e proprio lavoro di deformazione del solido dato, almeno come la somma dei lavori di deformazione delle singole sue parti considerate come indipendenti.
Così inteso questo teorema fa utile riscontro al principio dei lavori virtuali. Abbiamo visto che l'applicazione di questo principio conduce in sostanza a scrivere le condizioni necessarie e sufficienti perché una configurazione possibile del corpo dato sia in equilibrio sotto l'azione di un dato sistema di forze esterne.
Possiamo prevedere fin d'ora che il teorema di Menabrea, che prende in esame le configurazioni equilibrate, e determina la soluzione del problema dell'equilibrio elastico per esclusione di tutte le configurazioni non possibili, deve compendiare in sé le condizioni di coerenza e di compatibilità coi vincoli.
Ne segue che i due procedimenti sono completamente e perfettamente distinti (contrariamente a quanto si è da qualche autore affermato), benché valevoli entrambi a caratterizzare, sotto un diverso punto di vista, lo stesso stato di equilibrio.
Né si creda che, perché si viene a risolvere sempre lo stesso problema, non si debba sperare, in ultima analisi, alcun vantaggio dall'uso dell'uno piuttosto che dell'altro procedimento: il considerare invero il lavoro di deformazione, come testé abbiamo fatto, espresso in funzione delle tensioni interne, e il caratterizzare la configurazione risolvente per mezzo delle proprietà di questa funzione, ha se non altro il vantaggio di condurci direttamente alla ricerca dell'effettiva distribuzione delle tensioni e, se occorre, delle reazioni di vincolo, senza il previo calcolo della deformazione subita dal corpo, cioè senza far intervenire le funzioni u, v, w. Ciò ha non lieve importanza in molti problemi della scienza delle costruzioni, laddove non sempre interessa conoscere le caratteristiche della deformazione; in realtà è precisamente lo stato di tensione interna che l'ingegnere prende più volontieri in esame quando vuol farsi un'idea del grado di sicurezza con cui il materiale resistente può sopportare l'azione di un dato sistema di forze esterne.
È facile rendersi conto del modo con cui il teorema di Menabrea può venire utilmente applicato nei problemi della pratica.
Incominciamo infatti con l'osservare che, come nell'applicazione dei lavori virtuali non è necessario prendere in considerazione tutte le configurazioni possibili del sistema, ma ci si può limitare a qualche classe particolare di esse se si prevede che vi sia compresa la configurazione di equilibrio cercata, così anche nell'applicazione del teorema di Menabrea non è a priori indispensabile prendere in considerazione tutte le configurazioni equilibrate del solido che si vuol studiare: ché anzi, se si riesce in qualche modo a precisare che la cercata configurazione di equilibrio deve appartenere a una data classe di configurazioni equilibrate, si possono senza altro escludere da ogni ulteriore studio tutte le configurazioni estranee ad essa classe, limitandosi a cercare nell'ambito più ristretto di essa la soluzione del problema.
È poi facile constatare che la soluzione stessa può farsi dipendere dalla risoluzione di un semplice sistema di r equazioni lineari fra r incognite, sempre quando la suddetta classe di configurazioni equilibrate goda della proprietà che si possano riferire le singole configurazioni, ad essa appartenenti, ai singoli sistemi di valori di r parametri indipendenti
biunivocamente e linearmente, vale a dire in modo tale che le tensioni interne e le reazioni di vincolo, relative ad esse configurazioni, possano riguardarsi come funzioni lineari di quegli r parametri; i quali per l'impossibilità in cui si trovano di venir determinati in base alle sole leggi della statica, prendono allora il nome di incognite iperstatiche del sistema.
Ed invero, in questa ipotesi il ricercare quella tra le infnite configurazioni della classe considerata, che soddisfa al teorema di Menabrea, significa procedere alla ricerca di quei valori degli r parametri incogniti che rendono minima la funzione Φ, la quale, nella sua qualità di funzione quadratica ed omogenea delle σx, σy . . ., τxy, può evidentemente essere anche considerata come una funzione, certo quadratica, per quanto in generale non più omogenea, dei suddetti r parametri X1, X2, . . ., Xr.
I valori di questi parametri che caratterizzano la cercata configurazione di equilibrio risultano in conseguenza determinati in modo unico dal sistema di equazioni
certamente lineari (non omogenee) nelle r incognite iperstatiche.
8. Veniamo ora all'analisi delle deformazioni, e proponiamoci la ricerca della componente, secondo una data direzione, dello spostamento che subisce un punto generico di un solido elastico, quando questo, deformandosi sotto l'azione di date forze esterne, passa dallo stato naturale alla sua configurazione di equilibrio.
Al solito riterremo affatto qualunque il sistema preso in esame: in particolare ci asterremo da ogni ipotesi sulla natura dei vincoli ad esso imposti, fermo restando che tali vincoli devono sempre essere sufficienti a definire in ogni caso la posizione del solido nello spazio.
Ciò premesso, immaginiamo di vincolare ulteriormente il sistema in corrispondenza del punto da studiarsi, collegando questo a un punto fisso dello spazio mediante un'asta elastica (munita alle estremità di articolazioni girevoli senza attrito), la quale abbia la direzione stessa secondo cui s'intende eseguire la misura dello spostamento. Deformandosi il sistema dato, ove avvenga qualche spostamento del punto considerato nella data direzione, dovrà deformarsi anche l'asta: al lavoro di deformazione Φ proprio del solido elastico dato andrà allora aggiunto quello dell'asta. Se per fissare le idee supponiamo che questa sia cilindrica, di lunghezza l abbastanza grande a fronte delle sue dimensioni trasversali, e se indichiamo con A l'area della sua sezione retta, e con E il modulo di elasticità normale del materiale di cui è costituita, il lavoro di deformazione dell'asta, si potrà sempre scrivere sotto la forma
X essendo lo sforzo con cui l'asta reagisce allo spostamento.
Ora, nelle ipotesi fatte, il nuovo vincolo che noi abbiamo immaginato di aggiungere al sistema dato è certamente sovrabbondante; perciò la reazione X da esso sviluppata è da considerarsi come staticamente indeterminata. Per determinarla basta prendere in considerazione le configurazioni che si ottengono mantenendo immutati tutti gli elementi dati del sistema e facendo variare comunque la X; tali configurazioni saranno invero tutte certamente equilibrate e tra esse non potrà non esser compresa la configurazione risolvente, cioè compatibile col nuovo vincolo da noi aggiunto.
Applicando il teorema di Menabrea si giunge all'equazione
che si può anche scrivere
Ma il secondo membro misura precisamente l'accorciamento che l'asta di vincolo da noi introdotta subisce sotto l'azione dello sforzo X, che in essa ha origine; e questo accorciamento, nella configurazione risolvente, non può differire dallo spostamento che il punto considerato viene contemporaneamente a subire nella direzione dell'asta. Possiamo pertanto concludere che tale spostamento è uguale alla derivata del lavoro di deformazione Φ, presa rispetto alla reazione X sviluppata dal vincolo fittizio.
In questo risultato Φ rappresenta il lavoro di deformazione del solido dato, supposto naturalmente soggetto, oltre che alle forze esterne ad esso realmente applicate, anche alla reazione X del vincolo idealmente impostogli. E analogamente lo spostamento che così si viene a calcolare è quello che il dato sistema di forze esterne produrrebbe in quel dato punto e in quella data direzione ove tale vincolo sussistesse effettivamente.
Però si può osservare che nel ragionamento da noi fatto, non abbiamo avuto bisogno d'introdurre alcuna ipotesi speciale sulla natura dell'asta adottata per vincolare il sistema.
La formula a cui siamo giunti sta dunque senza dubbio, qualunque sia il valore del modulo E del materiale di cui quell'asta s'intende costituita; sta in particolare anche se si suppone, come caso limite, E = 0. L'asta si dice allora infinitamente cedevole e si rivela subito incapace di sviluppare reazione di sorta: il solido dato si comporta esattamente come se l'asta non ci fosse, e la derivata di Φ per rapporto ad X viene allora a fornire la misura dello spostamento reale che noi ci eravano proposti di determinare.
Con ciò non si deve credere che le considerazioni che precedono rappresentino un giro vizioso che abbiamo fatto senza ragione: vi è bensì, nelle modificazioni che noi abbiamo supposto di apportare al sistema elastico dato, qualche cosa di arbitrario che serve soltanto a fissare le nostre idee e a dare un significato fisico, sia pure fittizio, al ragionamento; più precisamente è assolutamente arbitraria l'interpretazione della forza variabile X come reazione di un vincolo ideale; ma la considerazione di questa forza è, dal punto di vista dell'analisi, indispensabile per poter eseguire la derivata.
In pratica noi potremo prescindere da ogni ipotesi relativa alla sua origine e annoverarla senz'altro fra le forze esterne; la indicheremo anzi addirittura con Pi come se fosse una qualunque forza concentrata, effettivamente applicata al punto considerato, secondo la direzione data, senza preoccuparci di precisare se essa esista realmente o no; e ne lasceremo soltanto indeterminata la grandezza. Il lavoro di deformazione Φ risulterà allora naturalmente espresso in funzione di tutte le forze deformatrici, non esclusa la Pi, e il teorema si enuncerà così: Lo spostamemo pi che il punto di applicazione della forza Pi subisce, nella direzione di questa, durante la deformozione elastica del sistema, è uguale alla derivata parziale del lavoro di deformazione Φ presa rispetto alla forza stessa
Questo spostamento riesce naturalmente una funzione lineare delle forze date: in essa si dovrà intendere attribuito a ciascuna di dette forze il relativo valore.
In particolare se Pi fosse una forza realmente applicata al solido, si dovrebbe, in luogo di Pi, introdurre nell'espressione testé trovata la sua grandezza: se invece Pi è una forza fittizia aggiunta da noi, ma in realtà non esistente, si deve porre Pi = 0.
La regola testé esposta per il calcolo degli spostamenti dei punti di un sistema elastico può venire direttamente verificata in modo molto semplice e intuitivo se le forze deformatrici sono tutte concentrate (cioè applicate a un insieme discontinuo di punti). In tal caso infatti la funzione Φ si può notoriamente esprimere sotto la forma
e se immaginiamo di far variare una qualunque delle forze date, attribuendole un incremento piccolissimo, per modo che la sua intensità passi dal valore Pi al nuovo valore, vicinissimo, Pi + dPi, la stessa funzione subirà un corrispondente incremento e potrà denotarsi con
Questo nuovo valore del lavoro di deformazione del sistema elastico dato si può calcolare assai facilmente: in realtà alla stessa configurazione finale di equilibrio si potrebbe giungere immaginando il solido inizialmente sollecitato dalla sola forza piccolissima dPi e applicando poi ad esso le forze date P con intensità gradatamente crescenti da zero ai loro valori finali. Il lavoro di deformazione iniziale, dell'ordine di grandezza del quadrato di dPi, potrebbe allora venir trascurato a fronte del lavoro di deformazione prodotto dall'applicazione del sistema di forze P. Questo è infatti misurato da:
in cui compare necessariamente quello stesso lavoro di deformazione che si aveva quando le forze P agivano da sole, in quanto gli spostamenti p da esse causati non possono per la presenza della forza dPi esser mutati; ma si ha in più un nuovo termine il quale misura il lavoro che questa forza dPi eseguisce quando il suo punto di applicazione sotto l'azione delle forze P subisce lo spostamento pi.
Si ha dunque, a meno d'infinitesimi di ordine superiore:
dalla quale si ricava immediatamente il teorema che noi abbiamo enunciato pocanzi. Questo teorema è dovuto ad A. Castigliano, il quale ne ha anche indicate le più interessanti applicazioni.
In fatto di dimostrazioni dirette, il breve ragionamento che noi abbiamo testé esposto rappresenta tuttora ciò che di meglio sia stato proposto dai varî autori. Ma, come abbiamo detto, esso vale solo nel caso limite di forze concentrate. L. Donati, che ha cercato di rendere rigorosa la dimostrazione diretta anche nel caso di forze comunque ripartite, è stato costretto a introdurre alcune estensioni nel concetto di funzione, e conseguentemente nel concetto di derivata, che, allo stato attuale delle cose, riescono poco famigliari agl'ingegneri.
Tali difficoltà si possono tuttavia evitare, come si è visto, rinunciando a stabilire il teorema di Castigliano per via diretta e facendolo dipendere da quello di Menabrea, la cui dimostrazione non lascia nulla a desiderare né dal punto di vista della generalità, né da quello del rigore.
9. Siano ora u, v, w e u′, v′, w′ gli spostamenti che definiscono le configurazioni prese dal solido sotto l'azione dei sistemi di forze esterne che hanno per componenti
rispettivamente. Si può dimostrare che sussiste la relazione
Date, dunque, due diverse deformazioni di un corpo elastico, relative a due diversi sistemi di forze esterne, il lavoro che le forze del primo sistema compirebbero qualora ai varî loro punti di applicazione venissero attribuiti gli spostamenti che caratterizzano la seconda deformazione, è uguale al lavoro che compirebbero le forze del secondo sistema nell'ipotesi che ai loro punti di applicazione venissero attribuiti gli spostamenti che caratterizzano la prima deformazione.
Questo teorema o principio di reciprocità che E. Betti dimostrò per la prima volta nel 1872 nella sua classica Teoria dell'elasticità (in Nuovo cimento, serie 2ª, VII, VIII) non è altro che un caso particolare di un più generale principio di meccanica; ma, anche limitatamente alla sola teoria dell'equilibrio dei solidi elastici, la reciprocità che esso stabilisce tra due diverse deformazioni di un medesimo corpo trova utile applicazione nei casi più svariati; si può anzi dire che non v'è problema in tutta la scienza delle costruzioni a cui questo principio, tra i più eleganti della fisica matematica, non possa essere applicato con qualche vantaggio.
Supponiamo che le forze del secondo sistema si riducano ad un'unica forza concentrata P′ applicata in un punto dato A del corpo secondo una certa direzione arbitraria che indicheremo con a. Se si indica con p la componente secondo a dello spostamento che quel punto A subisce sotto l'azione del primo sistema di forze esterne, si può, in conformità a quanto si è già fatto in altre occasioni, scrivere il secondo membro sotto la forma semplicissima P′p. Per P′ = 1 si ottiene senz'altro la misura dello spostamento p in funzione delle componenti di spostamento dei varî punti del solido supposto sollecitato dalla sola suddetta forza concentrata unitaria. Si trova infatti:
Come caso particolare, se anche il primo sistema di forze si riducesse a un'unica forza concentrata P, che supporremo applicata in un punto generico B nella direzione b, anche il primo membro della solita equazione si ridurrebbe al solo prodotto Pp′, p′ essendo lo spostamento che il punto B subirebbe nella direzione b per effetto della forza P′ che rappresenta il secondo sistema. Per P = P′ = 1 si troverebbe allora p′ = p.
Dati dunque in un sistema elastico due punti A e B e per essi due direzioni a e b ad arbitrio, lo spostamento che il punto A subisce nella direzione a sotto l'azione di una forza unitaria applicata al punto B nella direzione b, è uguale allo spostamento che subirebbe questo medesimo punto B in questa stessa direzione b per effetto di una forza pure unitaria la quale agisse sul punto A nella direzione a.
Sotto questa forma particolarissima il principio di reciprocità era stato già enunciato da J. C. Maxwell fin dal 1864, e si presta all'immediata deduzione di alcune conseguenze interessantissime. Di qui trae origine in particolare tutta la moderna teoria delle linee d'influenza delle deformazioni che tanta importanza ha assunto nella moderna scienza delle costruzioni.
10. Un teorema analogo a quello di Betti e che permette d'introdurre nello studio dello stato di tensione di un solido elastico quegli stessi metodi che il teorema di Betti rende possibili nello studio delle deformazioni, si può stabilire se si riprendono in esame quelle variazioni di configurazione non congruenti, o almeno non compatibili coi vincoli, di cui ci siamo già occupati nella dimostrazione del teorema di Menabrea.
Nello spazio V, certamente connesso, ed eventualmente anche a connessione multipla, occupato dal solido elastico, che supporremo in equilibrio sotto l'azione di un dato sistema di forze esterne, immaginiamo tracciato ad arbitrio un diaframma Σ, cioè una superficie contenuta tutta entro V, la quale non seghi sé stessa, e abbia il suo contorno sulla superficie S del solido. Se si suppone, lungo quel diaframma, operato un taglio nel corpo elastico dato, il primitivo stato di equilibrio di questo si può conservare, dopo il taglio, immutato, se s'immaginano applicate alle due facce del taglio due distribuzioni di forze, ovunque equivalenti alle tensioni interne che nel corpo dato inizialmente si trasmettevano attraverso la superficie Σ. Nei riguardi del solido tagliato queste tensioni possono allora riguardarsi come forze esterne.
D'altra parte il taglio viene a rendere possibile tutta una nuova categoria di variazioni di configurazione del solido nelle quali una delle facce del taglio si sposta per rapporto all'altra. Particolarmente interessanti sono quelle variazioni di configurazione nelle quali il moto relativo delle due facce del taglio è un semplice moto rigido nello spazio.
Si può sempre pensare di realizzare fisicamente una tale variazione di configurazione: basta immaginare le due facce del taglio saldate nella loro nuova posizione relativa, previa interposizione di un sottile strato resistente là dove lo spostamento produce un distacco, e sottrazione di materia là dove lo spostamento tende a produrre una sovrapposizione di parti. Una simile variazione di configurazione implica in generale una vera e propria deformazione elastica, detta distorsione.
Con ciò non si esclude però che, come caso speciale, la variazione di configurazione in discorso possa degenerare in un semplice moto rigido relativo di una parte del corpo rispetto all'altra: ciò può avvenire ogniqualvolta, per effetto del taglio praticato secondo Σ, lo spazio V cessa di essere connesso, se i vincoli imposti al sistema non sono sufficienti a definire la posizione nello spazio di tutte le singole parti in cui il solido risulta diviso.
La teoria delle distorsioni non degeneri è opera di V. Volterra (in Annales sc. de L'École Norm. Sup., sez. 3ª, XXIV, 1907), il quale ne ha stabiliti con successo i teoremi fondamentali che la ricollegano alla teoria delle ordinarie deformazioni.
Ciò posto si può dimostrare che: la somma dei prodotti delle sei caratteristiche del sistema di tensioni interne che in un corpo elastico in equilibrio si sviluppano in corrispondenza di una data sezione, per le corrispondenti caratteristiche di una distorsione, è uguale al lavoro che le forze esterne, applicate al corpo stesso, eseguirebbero nel cambiamento di configurazione a cui quella distorsione darebbe origine.
Questo teorema venne enunciato per la prima volta da G. Colonnetti nel 1912. La reciprocità che esso stabilisce fra tensioni interne e deformazioni non congruenti era stata però, in qualche caso particolare, già intravista dal Land (cfr. G. Colonnetti, Sul secondo principio di reciprocità, in Atti Accad. scienze, Torino 1915; Su di una reciprocità fra deformazioni e distorsioni, in Rend. Accad. Lincei, 1915).
Sono particolarmente interessanti, dal punto di vista delle applicazioni, i casi particolari che si ottengono quando il moto relativo delle due facce del taglio si riduce a una semplice traslazione ovvero a una semplice rotazione.
Si hanno allora i due seguenti teoremi: la componente, secondo una qualunque direzione, del sistema di tensioni interne che in un corpo elastico in equilibrio si sviluppano in corrispondenza di una data sezione, è misurata dallo stesso numero che misura il lavoro che le forze esterne applicate al corpo stesso eseguirebbero qualora, tagliato il corpo in corrispondenza della data sezione, s'imprimesse alle due facce del taglio una traslazione relativa di grandezza unitaria nella direzione prescelta.
Il momento, preso rispetto a un qualsiasi asse, del sistema di tensioni interne che in un corpo elastico in equilibrio si sviluppano in corrispondenza di una data sezione, è misurato dallo stesso numero che misura il lavoro che le forze esterne applicate al corpo stesso eseguirebbero qualora, tagliato il corpo in corrispondenza della data sezione, s'imprimesse alle due facce del taglio una rotazione relativa di grandezza unitaria attorno all'asse prescelto.
Per verità, tanto le traslazioni quanto le rotazioni di grandezza unitaria sarebbero incompatibili con le ipotesi fondamentali relative alla piccolezza delle deformazioni. Questi teoremi vanno pertanto intesi nel senso che, ove la grandezza della traslazione o, rispettivamente, della rotazione sia uguale a 1/n dell'unità, il lavoro eseguito sulle forze esterne dovrà moltiplicarsi per n.
11. Conchiuderemo questa breve esposizione della teoria dell'elasticità con un cenno di alcuni moderni studî sugli stati di equilibrio che non dipendono da forze esterne.
Nell'ordinario modo di presentare la teoria si suppone che, nello stato naturale del corpo - vale a dire nello stato che il corpo spontaneamente assume quando i diversi elementi di volume che lo compongono e i diversi elementi di superficie che lo limitano non sono soggetti all'azione di alcuna forza esterna - la materia si trovi ovunque nel suo stato non deformato, di guisa che ogni porzione del corpo, anche supposta isolata e sottratta all'azione del resto, tenda a conservare invariato il proprio stato. Ma in generale non è così; perché, quando il corpo si trova nel suo stato naturale, pur essendo libero da ogni forza esterna esplicitamente data, è ancora soggetto a certi vincoli: in virtù di questi, o anche soltanto in causa della connessione esistente fra le varie sue parti, queste possono trovarsi in uno stato di mutua costrizione, o coazione, che non si elimina fino a che il corpo non viene sciolto da quei vincoli, o modificato nel suo stato di connessione mediante uno o più tagli, o addirittura sconnesso in un numero conveniente di parti indipendenti.
Se pertanto è legittimo assumere lo stato naturale del corpo come stato di riferimento, misurando a partire da esso gli spostamenti dei suoi punti, non ci si può riferire a questo medesimo stato nella misura delle deformazioni dei singoli suoi elementi se non si vuole trascurare la deformazione iniziale degli elementi stessi.
Nello studio delle deformazioni di ciascun elemento si dovrà invece, in generale, riferirsi allo stato non deformato, cioè a quello stato di equilibrio, certamente stabile, in cui esso spontaneamente si porta quando non solo non è soggetto ad alcuna forza esplicitamente data, ma è reso anche del tutto libero dai vincoli che ne limitano la deformabilità, non esclusi quelli che gli derivano dalla presenza degli altri elementi del corpo dato. Ne segue naturalmente che l'espressione generale dell'energia potenziale elastica deve in conseguenza dipendere non solo dalle deformazioni determinate nel solido dalle forze esterne semplicemente applicate, ma anche da quelle eventualmente preesistenti nel suo stato naturale.
Più precisamente si può dimostrare che l'energia potenziale elastica si presenta nel caso generale come la somma di due termini essenzialmente distinti: l'uno funzione soltanto dello stato di coazione iniziale, l'altro indipendente affatto da esso, e dipendente solo dalla variazione di stato che il solido subisce nel suo passaggio dallo stato naturale allo stato generico di deformazione preso in esame.
Solo questa seconda parte dell'energia elastica - lavoro di deformazione, funzione soltanto delle forze applicate - viene restituita dal solido, sotto forma di lavoro esterno, quando, per il cessare dell'azione delle forze, la deformazione si annulla, e il solido ritorna nel suo stato naturale. La prima invece non può mai essere restituita in libertà, se non distruggendo nel modo che dianzi s'è detto la compagine stessa del solido. Donde il nome di energia vincolata con cui viene designata.
Il primo accenno alla possibilità che un corpo elastico presenti delle tensioni interne, pur non essendo sottoposto a forze esterne, è dovuto a J. Weingarten, il quale citava, a titolo di esempio, il caso di un anello non del tutto chiuso di cui si siano avvicinate le due sezioni piane libere, attaccandole l'una all'altra con uno strato infinitamente sottile atto a saldarle insieme. Questo esempio del Weingarten, raccolto e discusso sotto ogni più interessante aspetto da V. Volterra, ha dato origine a quella teoria delle distorsioni delle cui importanti applicazioni abbiamo già avuto occasione di far cenno (n. prec.).
Più tardi C. Somigliana mise in luce l'opportunità di conferire una maggiore generalità a quelle ricerche, estendendo il concetto e il nome di distorsione a tutti quegli stati di equilibrio elastico che si stabiliscono in assenza di ogni forza esterna, e che si possono pensar generati praticando, nel solido che si considera, un taglio di forma e posizione affatto arbitraria, imprimendo ai singoli elementi delle due facce del taglio degli spostamenti relativi piccolissimi, e risaldando poi tra loro tali due facce, dopo di avere naturalmente riempiti con nuovo materiale gli spazî vuoti che nello spostamento si fossero prodotti, ed asportata una conveniente porzione di materia là dove lo spostamento stesso tendesse invece a determinare sovrapposizione di parti.
È però facile convincersi che l'artificio dei tagli e delle successive risaldature delle loro facce spostate non è affatto sufficiente per giustificare tutti i sistemi di tensioni interne che l'esperienza quotidiana ci rivela possibili nei solidi elastici in equilibrio in assenza di forze esterne. A prova di ciò si possono segnalare, come particolarmente interessanti, certi fenomeni che sono ben noti ai tecnici, ma che nonostante qualche tentativo isolato di trattazione, non hanno ancora trovato il loro posto nella teoria matematica dell'elasticità.
Ecco un esempio tra i più caratteristici: un pezzo di acciaio riscaldato a temperatura sufficientemente elevata viene improvvisamente portato a contatto di corpi freddi. L'improvviso e disuguale raffreddamento delle varie sue parti produce allora una contrazione di volume diversa da punto a punto. Le parti del pezzo che si raffreddano più rapidamente acquistano in breve tempo una consistenza maggiore, la quale non permette poi loro di seguire senza reazione i fenomeni di ritiro che si determinano nelle altre parti del pezzo man mano che queste vanno alla lor volta raffreddandosi. Tutto ciò è comprovato da una quantità di fatti che si verificano regolarmente nelle operazioni di tempra degli acciai, quali la diminuzione di densità dei pezzi temprati (tanto maggiore quanto più grande è stata la velocità di raffreddamento) e i cambiamenti di forma che nei pezzi stessi si osservano in dipendenza da ogni difetto di uniformità nel processo di raffreddamento.
Quanto alle tensioni interne che si vengono così a creare nel pezzo temprato, è assai difficile metterle in evidenza direttamente: si può però considerare come una prova della loro esistenza la facilità con cui nei pezzi di acciaio temprati si verificano rotture improvvise e impreviste, a volte sotto l'azione di sollecitazioni che per sé stesse sarebbero assolutamente insufficienti a vincere la resistenza propria del materiale, a volte anche senza nessuna causa apprezzabile. È poi notevole che questa specie di fragilità caratteristica dei pezzi temprati scompare (insieme, del resto, con la diminuzione di densità a cui si è dianzi accennato) se alla tempra si fa seguire un'opportuna ricottura con successivo raffreddamento abbastanza lento perché si possa ritenere praticamente uniforme.
Fatti analoghi si verificano nella fusione dei pezzi in ghisa, nella presa dei getti in calcestruzzo, nella fabbricazione del vetro, ecc.
Il caso del vetro è particolarmente interessante, almeno dal punto di vista sperimentale, perché in esso le tensioni interne possono venir messe in evidenza, e anche in certi casi misurate, per mezzo della doppia rifrazione accidentale che le accompagna. Ora sta il fatto che qualunque pezzo di vetro rivela in generale, all'esame con la luce polarizzata, la presenza di tensioni interne distribuite nei modi più complicati: tensioni le quali non si eliminano completamente se non dopo un'accuratissima ricottura e un raffreddamento lentissimo in un'ambiente mantenuto a temperatura quanto più possibile uniforme.
Ciò posto è facile rendersi conto dell'impossibilità di giustificare come distorsioni tutti questi stati di coazione elastica: riesce infatti in primo luogo evidente che la loro presenza non è in alcun modo in relazione col grado di connessione dello spazio occupato dal solido, come dovrebbe accadere se si trattasse di distorsioni del Volterra; e per altra parte non si vede, almeno dal punto di vista fisico, la necessità di superficie di discontinuità del tipo di quelle che il Somigliana ha incontrate nello studio delle distorsioni dei solidi semplicemente connessi.
L'impossibilità dipende però soltanto dal presupposto - essenziale in tutta la teoria delle distorsioni - che, una volta operati quei certi tagli lungo le superficie opportunamente scelte caso per caso, lo stato di tensione si possa sempre generare mediante un'ordinaria deformazione elastica, determinata dagli spostamenti relativi impressi alle facce dei singoli tagli. Questo presupposto, se per una parte è giustificato dal vantaggio di ricondurre i nuovi problemi a termini diversi il meno possibile da quelli caratteristici della teoria classica dell'elasticità, può d'altra parte esser causa di una limitazione del campo delle nostre ricerche.
Affinché infatti il descritto modo di generazione dello stato di tensione interna sia applicabile, occorre ovviamente che le deformazioni elastiche dei singoli elementi che costituiscono il solido derivino da un unico sistema di spostamenti, generalmente continuo, il quale cioè non implichi soluzioni di continuità né sovrapposizioni di materia se non in corrispondenza di quelle particolari superficie lungo le quali si intendono praticati i tagli. Ed è noto che questo concetto si traduce analiticamente nella condizione che le sei componenti della deformazione soddisfino a una certa sestupla di equazioni alle derivate seconde che noi abbiamo chiamate equazioni di congruenza o del De Saint-Venant, in tutti i punti del solido, eccezion fatta al più per quelli che appartengono alle particolari superficie sopra ricordate.
Ora, è questa condizione fisicamente necessaria? Evidentemente no, e noi lo abbiamo già chiaramente avvertito. Abbiamo infatti detto allora che, se ci limitiamo a considerare l'intorno di un punto generico del solido come isolato e indipendente dal resto, nulla c'impedisce di assumere un sistema comunque arbitrario di valori delle componenti della deformazione elastica per rappresentare uno stato effettivamente realizzabile della particella considerata. E se prescindiamo dal modo di generare la deformazione, nulla c'impedisce di pensare il solido costituito da tanti elementi, deformati come ora si è detto nel modo più generale, i quali si mantengano in un tale stato di coazione elastica per virtù della loro mutua connessione, per modo che non possano restituirsi tutti insieme al loro rispettivo stato naturale non deformato se non vengono prima distrutti i vincoli che a ciascuno di essi sono imposti dalla presenza di tutti gli altri.
Vi sono casi, del resto, in cui il meccanismo di generazione di una siffatta deformazione è fisicamente ben definito e si presta anche ad essere analiticamente precisato in modo semplice e chiaro. Sono quelli che traggono origine da variazioni non uniformi della temperatura. È infatti evidente che, se si fa variare la temperatura da punto a punto di un solido elastico omogeneo, gli elementi portati a temperatura più elevata tendono a dilatarsi più degli altri: ma tale loro dilatazione si potrebbe effettivamente realizzare nella sua interezza solo quando essi elementi fossero perfettamente liberi e indipendenti gli uni dagli altri: la presenza accanto a ciascuno di essi degli elementi attigui, mantenuti a temperatura più bassa, ostacola in realtà la dilatazione dei primi e fa sì che essa si realizzi solo parzialmente: l'azione mutua, che nasce dalla non distrutta continuità e connessione del sistema, determina negli uni e negli altri uno stato di deformazione evidentemente rientrante nella categoria delle coazioni. Ora si può pensare di definire un simile stato deformato del solido elastico mediante due ben distinte operazioni successive. Nella prima i singoli elementi del solido sono da immaginarsi come idealmente isolati fra loro, e le variazioni di temperatura producono in essi, senza impedimenti di sorta, le corrispondenti dilatazioni (funzioni ben definite di quelle variazioni) determinando naturalmente distacchi ideali e ideali sovrapposizioni di parti. Nella seconda operazione, poi, le facce corrispondenti degli elementi attigui vengono riportate a coincidere mediante una nuova deformazione, esclusivamente elastica, degli elementi stessi: e questa deformazione - insieme con lo stato di tensione che necessariamente l'accompagna e la giustifica - è da riguardarsi come completamente definita per il fatto che essa deve ripristinare la distrutta continuità e connessione del solido.
Volendo generalizzare, si può pensare di generare uno stato di coazione elastica del tipo più generale in un solido elastico occupante un certo spazio connesso V e limitato da una superficie, o da un complesso di superficie S, immaginando impresse idealmente ai singoli elementi che lo compongono, certe deformazioni affatto arbitrarie che definiremo dandone al solito le sei componenti
e tenendo conto che, in realtà, poiché la compagine del sistema deve mantenersi inalterata, i singoli elementi reagiranno mutuamente dando origine a una distribuzione ben determinata di tensioni, le cui componenti speciali - incognite del problema che ci accingiamo a risolvere - denoteremo con
Ove si denoti con
l'energia potenziale elastica elementare, e quindi con
le componenti della deformazione elastica che in ciascun elemento accompagna le predette tensioni, sovrapponendosi alla deformazione impressa, dovrà sempre aversi
u0, v0, w0 essendo le solite tre funzioni delle coordinate che convien supporre, al solito, continue, uniformi e piccolissime a fronte dell'unità.
Queste tre funzioni si possono ovviamente interpretare come le tre componenti degli spostamenti con cui si passa da una configurazione iniziale, precedente a ogni deformazione impressa, alla configurazione attuale - stato naturale - del sistema.
Ripensiamo al problema dell'equilibrio nei suoi termini più generali, come se la deformazione dovuta a un dato sistema di forze esterne, si fosse, in un dato solido elastico, sovrapposta a una coazione determinata precedentemente da un dato sistema di deformazioni impresse. Il teorema dell'unicità della soluzione del problema dell'equilibrio elastico - che noi teniamo come dimostrato anche in questo caso così generale - ci conduce a considerare questo stato di equilibrio come l'unico che sia a un tempo possibile (vale a dire congruente e compatibile coi vincoli) ed equilibrato (vale a dire soddisfacente alle note equazioni indefinite e ai limiti).
Si potranno pertanto immaginare infiniti altri stati possibili del solido, ma essi non potranno essere equilibrati; come si potranno immaginare infiniti altri stati equilibrati, ma essi non saranno possibili nel senso sopra precisato. E come si può sempre pensar di passare dall'effettivo stato di equilibrio a un altro qualsiasi possibile, ma non equilibrato, sovrapponendo idealmente al primo lo stato di tensione e di deformazione dovuto a un opportuno sistema di forze esterne (senza naturalmente aggiungere queste forze), così si potrà sempre pensar di passare dall'effettivo stato di equilibrio a un qualsiasi altro stato equilibrato, ma non possibile, sovrapponendo idealmente al primo un'opportuna coazione (senza naturalmente introdurre le deformazioni impresse che ad essa dànno origine). Su considerazioni di questo genere noi abbiamo, nelle pagine che precedono, fondato lo studio delle deformazioni prodotte nel solido elastico da forze esterne date.
Se, supposte ora nulle le forze esterne, si prende invece in considerazione lo stato naturale del solido, e si cerca d'identificarne le caratteristiche si giunge facilmente a stabilire il seguente teorema: le tensioni interne che caratterizzano lo stato naturale sono quelle che rendono minima l'espressione
per rapporto a tutti i valori che l'espressione stessa può assumere compatibilmente con la deformazione impressa e con le leggi dell'equilibrio per forze esterne tutte nulle. Questo teorema è stato per la prima volta enunciato da G. Colonnetti, nel 1918: una dimostrazione generale ne è stata data solo tre anni dopo (G. Colonnetti, Per una teoria generale delle coazioni elastiche, in Atti Accad. Scienze, Torino 1921).
Dopo quel che si è detto a proposito del teorema di Menabrea, poche parole basteranno a precisare il significato e la portata di questa nuova, e del resto perfettamente analoga, condizione di minimo. Resta infatti ben inteso che questo teorema, come già quello di Menabrea, non ha nulla in comune coi teoremi di minimo che, nella teoria generale dell'equilibrio, si deducono dal principio dei lavori virtuali.
Là infatti - ripetiamo - lo stato di equilibrio si caratterizza come il solo che soddisfi alle equazioni della statica, fra tutti gli stati possibili: il valore dell'energia potenziale relativo allo stato di equilibrio viene messo in relazione coi valori che la stessa energia può effettivamente presentare in corrispondenza ad altri stati tutti possibili; i teoremi di minimo a cui si perviene esprimono perciò realmente che v'è una grandezza fisica che diventa minima.
Qui invece - come s'è chiaramente avvertito a suo tempo - lo stato di equilibrio si caratterizza come il solo che sia possibile fra gl'infiniti che, pur non essendo possibili, soddisfano alle equazioni della statica. In altre parole, gli stati di tensione che questo procedimento prende in considerazione sono soluzioni puramente ipotetiche del problema dell'equilibrio, ma non sono, nella loro generalità, fisicamente realizzabili, sicché per essi la funzione di cui si studiano le variazioni non ha fisicamente alcun senso. Questa funzione non è in realtà che una pura e semplice funzione analitica la quale acquista significato fisico solo per quel valore minimo che essa assume in corrispondenza dello stato di tensione reale, e che ci serve a individuare tale stato in mezzo a tutti gli altri.
Questo per l'interpretazione dell'enunciato; quanto alla sua applicabilità ai problemi concreti, basterà aggiungere che, anche in questo caso generale, l'identificazione dello stato di tensione incognito può farsi dipendere dalla risoluzione di un sistema di r equazioni lineari fra r incognite ogni volta che si sa in precedenza che esso appartiene a una classe di stati equilibrati tale che si possano riferire i singoli stati della classe ai singoli sistemi di valori di r parametri indipendenti X1, X2, . . ., Xr biunivocamente e linearmente, cioè in modo che le componenti speciali di tensione risultino tutte funzioni lineari di quegli r parametri.
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