ELEGIA
(ἐλεγεία, elegīa).
L'elegia greco-romana. - Concezione generale dell'ellenismo più tardo è che in origine l'elegia fosse una querimonia in onore dei defunti, un ϑρῆνος: di essa si vedeva, insomma, un tipo nel canto di Archiloco per la morte del cognato Pericle; ma anche Euripide adopera ἔλεγος in questo senso, e nell'Andromaca (verso 103 segg.) questa lamenta la sorte di Troia, di Ettore, la propria in distici elegiaci. Come ϑρήνος appunto l'elegia è intesa da Didimo, il filologo alessandrino del secolo I a. C., e sulle orme di lui procedono Orazio, Proclo, Esichio, gli scoliasti greci, gli eruditi romani. Di qui le etimologie εὗ λέγειν, ἔ λέγειν, ἐλεεῖν, e la moderna ἔλεγε; accanto, un'altra tutta diversa: ἐλεγωίνειν = παρωϕρονεῖν che significa esaltazione religiosa o patriottica. I tentativi etimologici però non approdarono a nulla, e con che caratteri sorgesse l'elegia resta pur sempre un problema. Sta il fatto che essa ab antiquo era accompagnata dal flauto, uno strumento venuto in Grecia dal difuori, e che il suo nome non si riesce a spiegarlo dal greco; potrebbe quindi essere già un prodotto di arte preellenica, o un effetto di germi in essa esistenti. "Ελεγος è termine che appare nel sec. VI; ἐλεγεῖον ed ἐλεγεῖω (ἔπη) solo nel sec. V, ed esprimono il metro, cioè il molle e tardo pentametro, come già lo chiamarono i dotti alessandrini, o, se si vuol dir meglio, un esametro con la doppia e strascicante catalessi, un esametro più corto e rotto, che succede al forte e gagliardo esametro; ἐλεγείω (ποίησις) poi nel sec. IV equivale ad ἔλεγος, è una determinazione generale. Già dall'uso dei banchetti per gli estinti si capisce come l'elegia fosse destinata per convivî; né essa si limitò a quelli funebri giacché, almeno in Sparta, ci si presenta come una gara conviviale con premî, mentre carattere di discorso conviviale serbano, appunto, parecchi frammenti rimastici. Essa riecheggia più volte il discorso dell'epopea, e con l'epopea ha legami di spiriti e di forme, non ultimi il metro e il dialetto: sta, negli spiriti, di mezzo fra l'epica e la lirica, ma anche tra l'epica e l'oratoria. La sua maniera è nobile e semplice insieme, e tale è rimasta per sempre. L'elegia è sorta certamente nella Ionia asiatica e in periodo anteriore che non ce ne sia giunta memoria dai filologi alessandrini.
Letterariamente s'inaugura per noi con Archiloco di Paro e Callino di Efeso, verso la metà del sec. VII a. C., e presenta col primo, accanto al già detto motivo del ϑρῆνος per la perdita di Pericle in un naufragio, varietà di spunti: incitamenti, conforti, racconti di fatti d'arme d'uno che si sente ministro di Marte e delle Muse. È il poeta-soldato che soprattutto con lui parla. Egualmente con Callino, di cui abbiamo una parenesi bellica piena d'ardore per circostanze gravi alla patria. Ma in Callino appariscono anche elementi mitico-narrativi. E il medesimo doppio carattere si ritrova in Tirteo, nella seconda metà del sec. VII: fiammanti elegie di guerra, rivolte agli Spartani, spartano o no che fosse egli stesso, esortazioni politiche, narrazioni e miti. Che in codesti prodotti ci sia del falsificato in età più tarda tra il V e il IV secolo, si credette da più di un critico, ma forse si tratta solo di rimodernamenti e di rielaborazioni, e tra ciò che ci pervenne sotto il nome di Tirteo v'è, in ogni modo, tanto di autentico da poter affermare che nel sec. VII l'elegia ionica si trapiantò nel Peloponneso, e vi fiorì. Culla dell'elegia rimase, ciò nondimeno, sempre la Ionia asiatica con le isole. Semonide di Amorgo, l'uomo di stato di Samo, contemporaneo di Archiloco e di Callino, appartiene alla storia dello sviluppo del genere, se suoi sono, e non piuttosto di Simonide di Ceo, i distici elegiaci dove si cantano le illusioni degli uomini. Sullo scorcio del sec. VII vive Mimnermo di Colofone, meno probabilmente di Smirne, col quale ritorna ancora la nota patriottica e mitica; ma caratteristica, e nuovissima, di lui è un'altra, quella dell'amore: il quale si volgeva ad una Nanno, una flautista, a cui i dotti alessandrini intitolarono certamente un gruppo di elegie - a lei dunque indirizzate - piuttosto che l'intera raccolta. C'è pure in Mimnermo il fare gnomico, connaturato ab initio con l'elegia; c'è il mito che sarà elemento essenziale dell'elegia erotica alessandrina: ma c'è particolarmente un accento sentimentale, per cui gli elegiaci erotici romani riconobbero sé stessi in lui anziché nei modelli alessandrini. E risonano veramente nei suoi distici voci che hanno del moderno: giocondità e caducità di giovinezza e di amore, fatalità dell'uggiosa e travagliosa vecchiaia, amore e morte. Non poco fa ripensare agli erotici romani, a Tibullo specialmente, anche per i contrasti tra sentimento e sentimento con cui l'elegia si svolge; manca tuttavia a Mimnermo un punto essenziale che è proprio del romano, l'elemento spiccatamente soggettivo, la passione lacerante per la donna amata. Riflessioni più che passione. Alla concezione che della vita ebbe Mimnermo si contrappone dichiaratamente Solone, l'arconte di Atene, che dell'elegia si valse a scopi civili, a esprimere la propria esperienza d'uomo, la propria saggezza. Il suo distico ci si presenta di schietta natura sentenziosa, ha alto sentire umano, religioso e patriottico: messaggio e predicazione, anch'esso, d'una maniera d'intuizione del mondo. E tale è ancora sostanzialmente l'elegia in Teognide di Megara, Focilide di Mileto, Senofane di Colofone, Simonide di Ceo: tutti più o meno filosofeggiano. Teognide, veramente, è difficile a riafferrare attraverso la raccolta che porta il suo nome, la quale contiene parecchio ch'è di altri autori, noti (Tirteo, Mimnermo, Solone) e ignoti, e di età varie ma anteriori alla alessandrina. Interessante è costì il largo elemento erotico, che si confonde tuttavia col moraleggiante, né lascia emergere un individuo: emerge invece dall'insieme del corpus Theognideum un'immagine chiara della società ellenica dal sec. VI al IV. Nel periodo attico l'elegia è ancor coltivata; con l'ellenismo sopravvive poi solo nella Ionia, dove non ha mai avuto interruzioni, ma cambia spiriti e contenuto. Diviene con Antimaco di Colofone attorno al 400 a. C. poesia mitica, narrativa. La sua Lyde, una consolazione per la morte della donna amata, pur riallacciandosi a Mimnermo, dava espressione al sentimento elegiaco attraverso materia di saga eroica, affine al suo stato d'animo: la quale dunque ora, di ornamentale e occasionale che era, si faceva la sostanza stessa del canto; con che si apriva la via a Fileta, ad Ernesianatte, a Callimaco, agli alessandrini in genere, fino a Partenio che fu in Roma a contatto dei primi elegiaci romani. Contenuto erotico-erudito, storia o galleria di amori mitici: questo il carattere della nuova elegia narrativa di cui abbiamo saggi significativi nei frammenti di Ermesianatte, di Fanocle, di Callimaco (Chioma di Berenice, oggi riacquistata in un largo frammento dell'originale, ed Αἰτιω). Si è discusso lungamente se l'elegia ellenistica sia mai arrivata ad avere il carattere erotico-soggettivo che costituiscc la quintessenza e la pienezza della romana. I papiri ci hanno dato nuovi frammenti di distici elegiaci (Fileta, Callimaco): toni e motivi che si ritrovano in Tibullo e negli elegiaci romani sono venuti fuori, non già espressioni personali del poeta che fioriscano sugli avvenimenti della propria vita intima. Non un frammento, non un verso. Il silenzio assoluto della tradizione è eloquente, per chi sia libero dai preconcetti, a lungo inveterati, sulla non originalità della letteratura latina. Noi conosciamo una poesia erotica del periodo alessandrino, oltre alla mitico-narrativa dell'elegia, nella commedia, nel cosiddetto Lamento di una fanciulla (U. Wilamowitz, in Gött. gel. Nachr., 1896, p. 23), nell'epigramma. Nella commedia però l'amore è solo il presupposto dell'azione, non l'azione stessa; e vicino al soggettivismo romano è il motivo erotico solo nell'epigramma e nel Lamento. Con la commedia ha motivi comuni l'elegia romana, ma nella sua natura interiore si riallaccia piuttosto all'epigramma ellenistico e in certi punti all'elegia ionica antica (Archiloco e specialmente Mimnermo). La poesia greca appariva ad Aristotele, ed è, rappresentazione di fatti più che di sentimenti, azione di personaggi più che espressione diretta del proprio io. Della lirica, Aristotele quasi non parla; nel senso romano e moderno, senza mediazione di favole e di miti, essa è di fatto manifestazione rara in Grecia, e quasi limitata, nell'età più antica, alla Grecia asiatica; diremo meglio, ci sono avviamenti già fin da allora al suo divenire, ma l'ampia effusione del cuore, la capacità di esplorare nel fondo sé stessi e di parlare di sé stessi in estasi, e più in pianto, è cosa romana che ha tuttavia magnifici precedenti nella lirica eolica, e nella Grecia ellenistica trova tenui addentellati nel breve giro di una poesia, particolarmente dell'epigramma. L'appellarsi di Properzio agli elegiaci ellenistici come modelli non significa nulla in proposito. Le condizioni sociali stesse sono diversissime in Grecia e in Roma: l'amore dei poeti ellenistici è amore esclusivo di etère. Elegiaci di spirito sono invece generalmente i poeti romani del miglior tempo: l'elegia stessa, in Roma, come forma letteraria, per Ovidio e Quintiliano, ha il suo primo rappresentante in Cornelio Gallo. Ciò vorrà dire che con lui è definitivamente costituita, che dunque, come è attestato, esisterono di lui non singole elegie, sì quattro libri di elegie a Licoride; ma il distico elegiaco è già in Ennio, e poi con varî spiriti in Lucilio, in Quinzio Atta, in Valerio Edituo, in Porcio Licino, in Varrone Atacino, in altri, finché sui neoterici c'è l'influsso personale di Partenio, che in un'elegia o in un piccolo ciclo di elegie diceva dell'amore di Crinagora per Gemella e di altri canti faceva soggetto Arete. Siamo costì, sempre, certamente, sulle orme di Antimaco, di Ermesianatte, o di Euforione; e niente che possa entusiasmare troviamo in un lungo passo rimastoci di Ermesianatte o in una recente scoperta di Euforione: cianfrusaglie erudite, catalogo di leggende. Nei Romani invece c'è un vivo sentimento d'amore, c'è la passione che trabocca e si espande: un'arte nuova e superiore, ben lontana dalla dotta elegia alessandrina come dalla sentimentalità erotica, borghese e civettuola, vagamente voluttuosa e un tantino ironica, dell'epigramma ellenistico, o dall'elegia civica e collettiva della Grecia antica, o anche da quella sentenziosamente triste di Mimnermo, che esprime la gioia e la malinconia di chi ama, più che quella del poeta stesso che ama.
È stato detto bene recentemente (U. Wilamowitz, Hellenistische Dichtung, I, p. 232): "non è giusta la questione come si pone, di dove venga l'elegia romana; bisogna porla personalmente, come gli elegiaci romani sono venuti alla loro poesia d'amore e che cosa ha fornito per essa la poesia greca". Il distico elegiaco di Catullo, o che abbia la brevità di un epigramma o che si amplifichi a forma di vera e propria elegia, è un grido dell'anima: basti ripensare al pianto per il fratello morto (c. 65 e 101) e alla vibrante analisi del proprio cuore che, esulcerato per Lesbia, chiede aiuto agli dei (c. 76). Eros non è più il bel giovane tiratore d'arco che d'un tratto colpisce e infiamma: è il demone della vita. Qui è il punto. Che ci siano nell'elegia romana motivi già noti alla poesia erotica greca, magari anche certi atteggiamenti di raccoglimento sentimentale, si capisce; quello che importa è l'amore che spira; è l'efflusso della propria vita.
Lo scherzo, lo spunto arguto dell'elegia erotica ellenistica scompare: resta il dramma, il sogno, il delirio, la desolazione. Tibullo, Properzio, Sulpicia, Ligdamo, Ovidio sono tutti, più o meno, poeti di questo temperamento, e a loro fanno corona una serie di minori o più o meno conosciuti: Valgio Rufo, Calvo, Cinna, lo pseudo Ovidio e così via. L'elegia è rimasta poi sempre come i Romani l'hanno creata: poema lacrimoso, pateticamente personale; analisi e confidenza di un'anima profondamente appassionata, che non sa contenersi di solito nell'angusta voluta di pochi versi. Una forma letteraria che ha vita secolare qui si trasforma per un afflato interiore, inconfondibile col più antico e il più recente: si trasforma anche variamente nei procedimenti della composizione, nella tecnica della collocazione delle parole e del verso, dove da Catullo, ancora assai vicino ai Greci, è un evolversi continuo secondo il gusto romano, in Ovidio fino all'accesso della regolarità. Così l'elegia diviene un genere insuperato presso gli antichi. Tibullo e Properzio tengono il primo posto nell'arte. Malinconia suona la Musa di Tibullo: l'immagine della morte, della vecchiaia vengono sempre a funestare - in Catullo, a rendere più sapida - la gioia dell'amore. La quale in atto non c'è; c'è nella nostalgia. E col desiderio del godimento amoroso si confonde il georgico e l'idillico: sognata solitudine campestre in compagnia della propria donna, pianto per la lontananza da lei, irrequietezza e dolore per quello che ella fa ed ella è, estasi momentanea di visioni beate, ricordi di fanciullezza, o, comunque, del passato, assai più felice del presente, voglia di astensione: queste le corde dell'elegia più schietta di Tibullo. In cui è poi una melodia del verso, una dolcezza di lingua, che nel distico latino non si ritrova più. Costì è l'anima di Tibullo e l'anima di un secolo stanco: il sospiro all'età dell'oro vi rientra quale elemento naturale. E l'andamento del canto ha la fluttuazione vacillante degli spiriti che sono suoi, come se il poeta si lasciasse andare liberamente alle proprie fantasie, pur nella salda sicurezza costruttiva della composizione: arte che raccosta Tibullo ai classici, non agli alessandrini. Più delicate le elegie per Delia, più crude quelle per Nemesi: né manca la musa παιδική della lirica greca o canti festivi, parte dei quali ravvicinano Tibullo all'ellenismo; di più alto tono è l'elegia a Messalla. Degno di Tibullo è il ciclo di distici del Corpus Tibullianum, ispirati senza dubbio ai brevissimi, ma tutti fuoco e spontaneità, di Sulpicia, dove il poeta si trasfonde nel cuore di lei e la fa parlare e le fa dire le sue ansie e le sue pene d'amore. Inferiore di ala, e manifestamente diverso da Tibullo, come nato nel 43 a. C. - lo sappiamo da lui stesso -, l'anno cioè di Ovidio che di Tibullo si chiama più giovane, è Ligdamo, l'autore del terzo libro del Corpus Tibullianum. Properzio ha più materiali ellenistici che Tibullo, ma si differenzia dagli alessandrini in ciò che il mondo ideale della saga viene a lui da natura, non è erudizione. Properzio, giudica il Foscolo, trattò l'amore con pennello pindarico, e gli diede carattere ignoto e prima e dopo di lui. Egli è il poeta dall'impulso vigoroso, dal valido ingegno, dalla potente passione: al pari di Catullo vive la vita della grande città, e Cinzia è la sua donna o la preferita fra le sue donne. Preziosità ci sono in lui, non altrimenti che in Tibullo; ma domina la potenza dell'ispirazione e delle idee l'intensità degli affetti, l'ardimento, se anche più volte faticoso, dell'espressione. E i motivi si fanno via via sempre più svariati; il poeta d'amore lascia a poco a poco nell'ombra la sua donna che solo nel primo libro ha saldi lineamenti di rilievo; subentra il fare moralizzante, s'insinua il motivo eroico, col sogno in colui che canta di diventare il Callimaco o il Fileta romano. Poesia che si riannoda agli Aitia callimachei è quella delle elegie romane del quarto libro: nazionali però ne sono gli argomenti, e c'è l'alto concetto, la solennità del romanesimo, non senza un rimpianto per gli anni lontani della Roma prima di Roma e della Roma antichissima. Con intendimenti non dissimili, se non con pari altezza e dignità, scriveva, poco dopo, Ovidio in distici elegiaci i Fasti. Il quarto libro di Properzio è il più ricco di toni: lirica soggettiva, lirica oggettiva e lirica civile. Movendosi dietro Tibullo e Properzio, Ovidio ci dà, nella medesima forma del distico, prima la storia del suo cuore con gli Amores, poi lettere amorose di persone mitiche con le Eroidi, quindi poesia didascalica col De medicamine faciei, l'Ars amatoria e i Remedia amoris, infine queruli sfoghi del suo cuore con i Tristia e le Epistulae ex Ponto. Situazioni e motivi quanto mai variopinti occorrono in questa produzione; esperienza convulsa di vita, mondo eroico, mondo divino. Finezza di psicologia e di arte, leggerezza di tocco sono le qualità di Ovidio: astuzie, simulazioni, raffinatezze sensuali, coloriture vivaci; ma anche virtuosismo sottile, concettosità, cerebralità. Teatro di azione i salotti e i luoghi pubblici della capitale. In questi canti è il riflesso della nuova società romana in una tavolozza screziata, come non prima, di tinte ora sincere, ora artificiose. Ovidio, partendo da Tibullo e da Properzio, ha creato per l'elegia e il distico una maniera sua, tra il geniale il grazioso, il giocoso e il perverso, che ha fatto epoca; ed è poi il perfezionatore fino alla raffinatezza della tecnica metrica. Onde già attorno a lui c'è una schiera d'imitatori, e i numerosi elegiaci dell'età imperiale si appoggiano in gran prevalenza su lui o di lui risentono. Da Petronio ad Arrunzio Stella, a Sulpicia, a Plinio, ad Ausonio, a Claudiano, ai poeti dell'Antologia, a Claudio Namaziano, Apollinare Sidonio, Sedulio, Draconzio, Ennodio e poi ai poetae latini minores (V, 361 segg., Baehrens), fino a Massimiano e agli elegi recurrentes, puri ludi di forma e di pensiero, è una fioritura che non ha punto l'eguale nella Grecia della stessa età, dove il distico in sostanza continua a essere il metro dell'epigramma, come nella Grecia alessandrina.
Bibl.: ampia in W. Schmid e O. Stählin, Geschichte d. griechischen Literatur, I, ii, Monaco 1929, p. 353 segg. e in M. Schanz, Geschichte d. römischen Literatur, Monaco 1911, II, i, p. 203 segg. Da rilevare: O. F. Gruppe, Die römische Elegie, I, Lipsia 1838; II, Lipsia 1839; O. Immisch, in Philologenvversammlung zu Görlitz, 1889, p. 380 segg.; U. v. Wilamowitz-Moellendorff, Textgeschichte d. griechischen Lyriker, Berlino 1900, pp. 57 segg., 114 segg.; R. Reitzenstein, Epigramm und Skolion, Giessen 1893, p. 87 segg.; F. Skutsch, Aus Virgils Frühzeit, Lipsia 1901; G. Nemethy, A Romai Elegia viszonya a göröghöz, Accademia ungherese, 1902 (vedasi l'edizione di tibullo 1905, Addenda II, p. 344 segg.); F. Jacoby, in Rheinisches Museum, LX (1905), p. 38 segg., 320, 463; O. Crusius, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V (1905), col. 2260 segg.; Th. Gollnisch, Quaestiones elegiacae, Breslavia 1905 (contro di lui, Jacoby, in Berliner philologische Wochenschrift 1905, p. 1206 segg.); R. Reitzenstein, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VI (1907), col. 99 segg.; P. Troll, De elegiae romanae origine, Gottinga 1911; Ph. E. Legrand, in Revue des études anciennes, XIII (1911), p. 1 segg.; H. Lipsius, Der Ursprung der Elegie, in Xenia Nicolaitna (Blätter für d. bayerische Schulwesen), 1914; U. v. Wilamowitz-Moellendorff, Hellen. Dichtung, I, Berlino 1924, p. 228 segg.; II, p. 286 seg., 311 segg.; G. Jachmann, Die Originalität d. röm. Literatur, Lipsia 1926, p. 22 segg.; A. Rostagni, in Riv. filol. class. n. s., V (1927), p. 1 segg.; VII (1929), p. 328 segg.; G. Funaioli, La lett. latina nella cultura antica, in Ann. Univ. Cattolica, Milano 1927-28, p. 67 segg.; R. Heinze, Die augusteische Kultur, Lipsia 1930, p. 116 segg.
Letterature moderne. - Italia. - Di elegia intesa come un vero e proprio genere letterario non si può parlare in Italia: in sostanza è "elegiaco" qualunque componimento lirico che sia espressione di sentimenti malinconici e flebili; e se ne hanno gloriosi esempî, dal Petrarca al Leopardi. A tale concezione dell'elegia" devono aver contribuito la testimonianza di Orazio e la fortuna dei Tristia d'Ovidio. Quando, nella prima metà del Cinquecento, si cominciò a dedurre nella lirica italiana le forme della lirica greca e latina, il capitolo in terza rima sostituì l'elegia classica; esso fu per lo più d'argomento amoroso, ma con una vena di mestizia e di rimpianto. Primi a darne saggi degni di nota furono l'Ariosto e Bernardo Tasso: ma, se quest'ultimo chiamò "elegie" le sue, certi capitoli amorosi dell'Ariosto furono chiamati "elegie" solo dal 1716, quando Paolo Rolli ristampò a Londra le Satire e rime ariostesche. Lo stesso Rolli scrisse otto elegie amorose, dove canta con delicatezza tibulliana un giovanile amore. Ma non sempre si ricorse alla terzina per l'elegia d'imitazione classica: Lodovico Savioli tradusse gli Amori di Ovidio in strofette tetrastiche di settenarî sdruccioli e piani alternati, e nello stesso metro scrisse i suoi Amori (1ª ed. datata, 1765). In tempi più moderni si ricorse, per esprimere sentimenti elegiaci, alle strofe e ai metri più varî finché col Carducci e poi col Pascoli e col D'Annunzio riapparvero elegie rendenti con diversi accorgimenti metrici l'armonia del distico elegiaco classico.
Bibl.: E. Levi Malvano, L'elegia amorosa nel Settecento, Torino 1908.
Francia. - La mancanza di una metrica quantitativa, rendendo impossibile in Francia di riprendere l'originario metro classico, condusse naturalmente e necessariamente a riporre il carattere dell'elegia, anziché nella forma, nel contenuto. Fin dai primi tempi della Rinascenza furono compiuti bensì tentativi di sostituire in qualche modo il distico classico con coppie di alessandrini a rima alternata oppure con decasillabi e ottonarî alternati (v. Jean Doublet, Élégies, 1559) o con altri analoghi espedienti ritmici: ma senza che comunque ne nascesse una norma costante. Già Ronsard, che anche d'elegie compose una piccola raccolta (Élégies, Mascarades et Bergeries, 1565), accennando come essa fosse creata in origine "pour y chanter des morts les gestes et les faicts / Joints aux sons du cornet", mentre ora invece "Amour, pour y régner, en a chassé la Mort", non trovava altro modo, per definirla, che riferirsi ai sentimenti a cui si ispira: così come farà più tardi Boileau nell'Art poétique, descrivendola "en longs habits de deuil", che "sospira e geme sopra una bara", oppure dipinge "degli amanti le gioie e le tristezze" con parole che "solo possono nascere dal cuore". Tale contenuto sentimentale fu tuttavia specialmente nei primi tempi assai vario, tanto che Ronsard poteva osservare con un sorriso che essa "maintenant... reçoit toute chose": in fondo, fra composizioni come la Imprécation aux bûcherons de la forêt de Gastine di Ronsard stesso e le tre Élégies di Louise Labé e la Consolation à Du Perrier di Malherbe e le Élegies di Théophile de Viau e la famosa Éléqie aux Nymphes de Vaux di Lafontaine, poco o nulla di comune si può trovare, all'infuori di un particolarmente accentuato abbandono al sentimento individuale. L'insistenza sopra temi di morte o di amore, di cui parla Boileau, si venne soltanto a poco a poco determinando attraverso il tempo, mentre d'altra parte "il tono elegiaco", anche in poesie non pensate dall'autore come elegie - già l'opera intera di Desportes parve a taluno una "serie di elegiache variazioni" - si andava sempre più diffondendo, in tutta la lirica. Persino nello stesso sec. XVIII, quando il gusto per tutto ciò che è "tendre et mélancolique" era così dominante nelle "âmes sensibles", l'elegia si presenta ancora non di rado con carattere di grazia ricercata e di poesia galante; come nelle raccolte di Parny (Élégies, 4 libri, 1779) e di Bertin (Les Amours, élégies, 1780). Tuttavia anche in Parny e Bertin, come in Léonard, come già prima - sebbene con enfasi invece che con grazia - in Écouchard Lebrun il sentimento della vanità delle cose, del fuggire inarrestabile della vita, della fragilità e caducità di tutte le gioie, anche delle gioie dell'amore, è motivo continuamente ricorrente, e dà alla poesia un' inflessione di molle abbandono che ne spiega il titolo. Interamente ispirate a questo motivo sono infine, più tardi, con vaghi presentimenti del romanticismo che sta per nascere, le elegie di Chenedollé, fra altri, e di Millevoye (Élégies, 2 libri, 1812). Insieme con l'idillio e l'epistola, l'elegia fu così una delle forme poetiche più care al Settecento; e il grande poeta elegiaco dell'epoca fu alla fine del secolo Andrea Chénier; la "grâce touchante" dell'elegia "à la voix gemissante", "aux ris mélés de pleurs" - "belle, levant au ciel ses humides regards" - assai presto lo sedusse, com'egli stesso canta; e alla raccolta delle sue Élégies lavorò dalla giovinezza fino alla morte, accogliendovi insieme la sensitività che condivideva con tutto il suo tempo e il suo innato istinto di armonia, e quell'adorazione della bellezza che era la sostanza più profonda della sua natura. Bertin, Parny, Millevoye, Chénier furono poi lettura prediletta di Lamartine; e certamente conducono alle Méditations; ma col romanticismo il sentimento elegiaco e il sentimento poetico tendono a fondersi e confondersi insieme; e mentre la poesia di tono elegiaco, giù fino alla Desbordes Valmore e fino a Verlaine, è quella che più risponde alla spiritualità del tempo, l'elegia invece, come forma poetica a sé, non ricompare più che sporadicamente: come tutti gli altri generi letterarî che, nati dal classicismo, trovarono nel romanticismo l'inevitabile fine.
Germania. - Il termine "elegia" dato a singole poesie medievali tedesche è affatto convenzionale e di tempi moderni: nel Medioevo tedesco esso non era in uso. Soltanto con gli umanisti l'elegia, come forma letteraria, fu introdotta in Germania: dapprima in lingua latina e a imitazione soprattutto di Ovidio (v. ad es. Petrus Lotichius Secundus, Elegiarum liber et Carminum libellus, 1551), poi in lingua tedesca, ma alquanto più tardi, con Opitz, il quale, oltre a trattarne nella Poeterei, ne diede egli stesso esempio usando, in sostituzione del distico, coppie di versi alessandrini a rima maschile e femminile alternata: struttura metrica, che, insieme con i il contenuto malinconico o sentimentale, costituirà per oltre un secolo la caratteristica della composizione. Tale difatti l'elegia continua a presentarsi in Fleming (An mein Vaterland, ecc.), in Logau, in Haugwitz (Prodromus poeticus oder Poetischer Vortrab bestehende auss... Elegien, 1684), in Bodmer, in Seidel, in Gotter, in Weisse, in Kästner, ecc.: a mala pena compare qualche tentativo di distici in Fischart e più tardi in Gottsched, ma in forma sporadica, e con risultati insignificanti. Anche il rinnovamento dell'elegia, su base quantitativa, in regolari distici elegiaci, fu opera di Klopstock, il quale già nel 1748 la foggiava su modello classico per dar espressione alla sua "Sehnsucht" d'amore e alle sue malinconie sognanti (Die Rünftige Geliebte, Selma und Selmar, ecc.) e continuò poi a ricorrervi, anche se non con frequenza (Rotschilds Gräber, 1766), fino al tardo gruppo di composizioni lirico-satiriche sulla rivoluzione. Nel periodo che immediatamente seguì, il predominare dell'influsso degl'Inglesi, di Young, di Gray, di Goldsmith, di Ossian, ebbe come naturale conseguenza che, nella concezione dell'elegia, nuovamente l'accento sembrò spostarsi dalla forma metrica al tono della poesia: alcuni, come Voss e Stolberg, mantennero generalmente nelle loro composizioni il distico: ma i più chiamarono elegie componimenti lirici in forme varie, ispirati a sentimenti di nostalgia e di malinconia, a pensieri di tristezza e di morte, a visioni di natura e di solitudine, a effusioni del cuore sulla perdita di persone care, a meditazioni sulla vanità e caducità delle cose umane: come Bürger e Hölty e Mathisson e Salis-Seevis e Tiedge e Claudius, ecc. Lo stesso Schiller, nel saggio Über naive und sentimentalische Dichtung, distinguendo il genere elegiaco dal satirico e dall'idillico, ne considera come carattere distintivo la nostalgia dell'ideale, in contrapposto al genere idillico in cui l'ideale è fuso nella realtà, e al satirico in cui una realtà inferiore è commisurata all'altezza dell'ideale; e anche le sue prime composizioni nel genere - Die Sehnsucht, Der Pilgrim, Die Götter Griechenlands, ecc. - sono realmente denominate, all'infuori di ogni riguardo metrico, secondo tale concetto: soltanto nelle elegie del periodo seguente - Der Spaziergang, Der Genius, Die Geschlechter, Der Tanz, Das Glück - quando si andò avvicinando sempre più ai principî dell'estetica neoclassica, si volse all'uso del distico, piegandolo ai fini d'una poesia raccolta e meditativa. Dice appunto un epigramma di quest'ultimo tempo: "Su nell'esametro sale la fluida colonna dell'acqua - che nel pentametro poi cade melodica giù".
Le due tendenze, metrica-formale ed elegiaca-sentimentale, vennero così definitivamente a fondersi insieme. E appunto in questa intima fusione e unità Goethe e Hölderlin crearono la loro grande poesia elegiaca. Certo le Römische Elegien, con la loro sensuale aderenza alla concretezza della vita, sembrano staccarsi da tale tipo, per rifarsi direttamente allo spirito dell'elegia classica; ma è tuttavia innegabile anche in esse un tono proprio e sottilmente diverso dall'antico: qualcosa come se il poeta, scandendo con esperta lentezza gli attimi del suo godimento, assecondi in realtà un'interna "Sehnsucht" in cui, ripiegato su sé stesso, si culla, ascoltandosi, e s'indugia; e tutte in tono interamente nuovo sono le elegie posteriori, dalla panteistica Metamorphose der Panzen alla nostalgica Alexis und Dora, alla meditativa Euphrosyne, fino a quel grande canto chiaro e triste di distacco e di rinunzia che è intitolato, precisamente ed esclusivamente per quel suo tono, Marienbader Elegie. Nella loro rassegnata serenità e ondeggiante cadenza, esempî squisiti di questo "modo elegiaco", sono anche le prime elegie di Hölderlin (Der Wanderer, Elegie, ecc.), particolarmente Menons Klage um Diotima; più tardi Die Herbstfeier, Die Heimkunft, Brot und Wein accolsero ancora in forma di elegia il mistico slancio del suo spirito, sulla soglia della sua più grande poesia e della sua follia. Nella rimanente poesia elegiaca tedesca fino alla fine del sec. XIX non esiste più nulla che a queste composizioni possa essere paragonato. Elegie composero bensì sull'esempio goethiano anche Humboldt (Rom, Campagna romana) e A. W. Schlegel (Die Kunst der Griechen, Rom, ecc.), Schelling (Tier und Pflanze, Los der Erde) e più tardi, fra altri, Arndt e Anastasius Grün, e A. Meissner e M. Hartmann e lo stesso Grillparzer; presso i poeti della scuola di Monaco l'elegia fu anzi una delle forme liriche predilette, da Geibel a Leuthold; ma la sensibilità nuova nata dal Romanticismo, con le sue inquietudini, si cercò per altre vie le sue proprie forme. Il più delicato poeta elegiaco del secolo è Morike, che addestratosi su Catullo e sui Greci, si deliziò di cesellare anche in distici elegiaci le sue immagini (v. Götterwink, Waldidylle, Haüsliche Szene, Lose Ware, Abschied, An Gretchen, ecc.), accogliendovi l'umile mondo della sua lirica, con effetti spesso d'ineffabile grazia.
Inghilterra. - In Inghilterra il distico elegiaco classico ebbe bensì alcune imitazioni nei tentativi di poesia "quantitativa" compiuti da letterati e umanisti del Rinascimento (come Sidney, Spenser, e Harvey), e rinnovati, probabilmente dietro l'esempio tedesco, nell'Ottocento (Coleridge, Clough e altri); ma furono semplici esperimenti, senza seguito.
Il nome di elegia è stato invece usato con vario significato, a seconda delle mode letterarie e dei gusti dell'epoca. Per una classificazione delle poesie di carattere elegiaco bisogna perciò basarsi sul contenuto. E difficile anche è distinguere l'elegia di argomento amoroso, perché questa presto si confonde nel mare magno della poesia amorosa in generale, pur essendovi stati saggi sporadici, specialmente d'imitazione tibulliana (Elegie di Anthony Hammond, 1710-42). Anche la meditazione malinconica sulla caducità della vita è assai frequente, dalla più antica poesia anglosassone ai grandi monologhi shakespeariani, dalla lirica elisabettiana (p. es. i versi di Beaumont sulle tombe di Westminster), alle Notti del Young, dalla Vanità dei desiderî umani del Johnson alla Città della notte terribile di S. Thomson; e individuare, entro questa poesia, quella di carattere strettamente elegiaco, non è sempre possibile. Solo le elegie, in cui si piange la morte d'una persona cara, costituiscono un genere a sé.
Non costituì un genere letterario a sé con leggi fisse nemmeno il gruppo di poesie che i dotti moderni hanno chiamato "elegia anglosassone" Queste liriche, scritte in inglese antico (o anglo-sassone) prima del sec. X, sono tutte composte nel metro allitterativo germanico, e hanno in comune un senso di rimpianto per una felicità perduta. Il bardo Deor lamenta di aver perduto il favore del suo patrono, e si consola ricordando, dalla storia e dalla leggenda, altri esempî di grandi sventure. L'Errante narra le sofferenze di un guerriero che ha perso il suo signore, il Navigatore quelle sopportate nei mari tempestosi d'inverno. La Rovina lamenta l'abbandono e lo sfacelo di antichi palazzi un tempo pieni di baldi guerrieri e giocondi banchetti. Il Lamento della Donna, abbandonata dal marito e chiusa in una tetra prigione sotterranea, narra con efficaci accenti lirici un'oscura storia di tradimento e sofferenza. Oscuro anche il Messaggio del Marito, in cui un esule scrive alla moglie di aver trovato prospera fortuna in un paese straniero e la invita a seguirlo.
Di carattere elegiaco in senso stretto è invece la Perla, composta nel sec. XIV da un anonimo: ivi un padre, che ha perduto una bimba non ancora di due anni, la rivede in una visione, trasfigurata in creatura celeste, che gl'insegna la verità divina.
Nel Rinascimento troviamo varî tipi di elegia: il "complaint", "lament", e la vera e propria "elegy", sebbene con limiti e forme variabilissimi. Funebri compianti sono l'elegia di Surrey per Wyatt, la Daphnaida di Spenser (1591), i versi di Johnson per Shakespeare (1623), per non parlare delle numerose squisite "dirges" che ricorrono nei drammi elisabettiani, prime fra tutte quelle dello Shakespeare (nella Tempesta, nel Cymbeline): e dello stesso Shakespeare l'allegorica e concettosa elegia della Fenice e della Tortora. Milton scrisse un'elegia in morte di un amico, Edward King, il Lycidas, ove classica è l'ispirazione e la finzione pastorale. Elegie scrissero i secentisti, Donne, Cowley, Dryden, ecc.; ma la più celebre nella letteratura inglese è senza dubbio la Elegy written in a country churchyard del Gray (1750) che cristallizza in versi politi e cesellati di classica fattura una delle forme tipiche del sentimento elegiaco: si lamenta l'arbitrio della fama, celebrando gli oscuri eroi del villaggio, gli spiriti grandi che la fortuna ha relegati nella mediocrità.
Elegie possono considerarsi anche le liriche di Burns per Highland Mary, To Mary in Heaven. Il sec. XIX annovera alcune delle più grandi composizioni elegiache: l'Adonais dello Shelley (per Keats), l'In memoriam A.H. H. (A. H. Hallam) e la Wellington Ode del Tennyson, il Thyrsis di M. Arnold (per A. H. Clough), l'Aveatque Vale dello Swinburne (per Baudelaire). Quivi l'elegia molto sovente si allarga a contemplazione dei grandi problemi della vita e della morte, del dolore e dell'immortalità: da Shelley affrontato con fervida fede panteistica, da Tennyson con dubbî e tentennamenti e compromessi di darwinismo e cristianesimo, da Arnold con aristocratico stoicismo.
La letteratura americana presenta il caso eccezionale di uno scrittore che ha elevato l'elegia a tipo unico e perfetto di poesia, Edgar Poe (The Philosophy of Composition), il cui mondo poetico è dominato dal mito di Lenore, la fanciulla morta (The Raven, Lenore, Annabel Lee, ecc.). Walt Whitman raggiunge alcuni dei suoi momenti più puri cantando la morte di Lincoln. Come ultima trasformazione moderna dell'elegia si può richiamare General William Booth enters Heaven di Vachel Lindsay.
Bibl.: A. Ricci, L'elegia pagana anglo-sassone, Firenze 1920; F. Olivero, Traduzioni dalla poesia anglo-sassone, Bari 1915; M. Lloyd, Elegies: ancient and Modern, Trenton (N. J.) 1903; G. Saintsbury, History of Englisch Prosody, Londra 1910; W. J. Courthope, History of English Poetry, Londra 1910; C. H. Gayley e F. N. Scott, Methods and Materials of Literary Criticism: Lyric, Boston 1919.