Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La critica letteraria nasce in Grecia con i primi studi sul testo dei poemi omerici, prosegue con gli insegnamenti dei sofisti e culmina con l’attività dei filologi alessandrini, a Roma, i primi critici si esercitano sul testo delle commedie di Plauto. Le due opere principali, che hanno esercitato un notevole influsso sulla critica moderna a partire dal Cinquecento, sono la Poetica di Aristotele e il trattato Del sublime scritto da un autore sconosciuto intorno al I secolo a.C.
Il primo critico letterario ricordato dalle fonti antiche è molto probabilmente Teagene di Reggio, vissuto nella seconda metà del VI secolo a.C., che scrive un libro nel quale interpreta allegoricamente i due poemi omerici. Un simile indirizzo ermeneutico – necessario se si vogliono leggere davanti a una classe di scolari episodi “scabrosi” come l’inganno di Zeus da parte di Era (Iliade XIV) o gli amori adulterini di Ares e Afrodite (Odissea VIII) – ha un notevole successo nei secoli seguenti: è ripreso da Metrodoro di Lampsaco e da Stesimbroto di Taso; si riscontra con frequenza nel corpus dei commenti antichi all’Iliade; è il principio fondamentale delle Questioni omeriche, un trattato scritto non prima del I secolo da un altrimenti ignoto Eraclito.
Tra i numerosi interessi dei sofisti c’è anche la critica letteraria: il Protagora protagonista dell’omonimo dialogo platonico non solo afferma che “l’educazione di un uomo consiste soprattutto nell’essere un esperto conoscitore di poesie, vale a dire nel saper comprendere quali affermazioni dei poeti sono composte in modo corretto e quali no, nel saperle definire, distinguere e catalogare e, se qualcuno glielo chiede, nel saperle spiegare”, ma discute a lungo con Socrate sull’interpretazione di un passo di Simonide (339a sgg.).
Brillanti squarci di critica letteraria si leggono inoltre nei poeti comici ateniesi del V secolo a.C.: nei perduti Archilochi, Cratino mette a confronto l’arte di Omero con quella del poeta giambico Archiloco; nella seconda parte delle Rane di Aristofane, Eschilo ed Euripide si scontrano in un agone letterario dove tutte le caratteristiche formali delle loro tragedie (le trame, la struttura, la lingua, il metro, la musica) vengono esaminate con estrema competenza critica. In quasi tutte le commedie di Aristofane la valutazione della produzione teatrale di Euripide è un tema ricorrente, dagli Acarnesi (dove si critica l’eccessivo utilizzo di elementi retorici presi in prestito dalle dottrine sofistiche) alle Donne alle Tesmoforie (dove vengono parodiate alcune situazioni caratteristiche dei drammi euripidei).
La critica letteraria vera e propria assume tuttavia connotati più precisi con Aristotele e la sua scuola; nelle opere del filosofo, sia in quelle conservate (la Poetica e la Retorica) che in quelle perdute (i dialoghi Sui poeti e Sulla retorica, il trattato Sulle tragedie, le Didascalie – i dati relativi alla rappresentazione di tutti i drammi messi in scena ad Atene), compaiono per la prima volta in modo organico la ricerca speculativa sulla natura dell’arte letteraria, la ricostruzione storica dei dati biografici, l’analisi attenta degli aspetti linguistici.
La Poetica, composta nella seconda metà del IV secolo a.C., è da questo punto di vista il lavoro più significativo di Aristotele: se il suo nucleo principale consiste nell’analisi precisa delle tecniche della composizione poetica (in particolare della tragedia, con una spiccata attenzione agli aspetti pragmatici), il filosofo affronta anche altre questioni, che vanno dal ruolo fondamentale ricoperto dall’imitazione (la “mimesi”) al suo sviluppo storico nelle principali forme poetiche, dagli elementi costitutivi dello spettacolo teatrale (la trama, i caratteri, il pensiero, la lingua e la musica, senza trascurare la dimensione visiva) alla teoria del “racconto” come struttura di una sola vicenda drammatica che si sviluppa seguendo percorsi ben definiti (la peripezia e il riconoscimento). Aristotele mette a confronto i diversi generi letterari (l’epica con il dramma, la tragedia con la commedia) per evidenziare somiglianze e differenze; discute gli effetti prodotti negli spettatori dalle conclusioni drammatiche degli spettacoli tragici (la “catarsi”); fornisce i criteri per leggere e giudicare le opere poetiche.
Lo studio critico della letteratura è una delle molteplici attività che caratterizzano il lavoro svolto dai filologi ellenistici tra il III e il I secolo a.C. nel Museo fondato da Tolomeo Soter ad Alessandria d’Egitto. Callimaco, una delle figure più significative della poesia ellenistica, lavora a lungo nella biblioteca d’Alessandria riordinando e catalogando le numerose opere antiche che vi sono conservate, suddividendole secondo i generi letterari e gli autori, indicandone i titoli, il verso iniziale e il numero totale dei versi; il frutto di una simile fatica sono i Pinakes (le “tavole”), un’opera organica (purtroppo perduta) che conteneva anche le biografie dei singoli autori e, soprattutto, un esame critico di tutte le questioni affrontate nel corso del lavoro.
Se la maggior parte dei filologi alessandrini (Zenodoto di Efeso, Aristofane di Bisanzio, Aristarco di Samotracia, Didimo di Alessandria detto il “Calcentero”) lavorano soprattutto sui testi per produrre quelle che, anacronisticamente, potremmo definire “edizioni critiche”, spesso corredate di ampi commenti, altre figure scrivono opere dal respiro più ampio, come per esempio Eratostene di Cirene, autore di un trattato in dodici libri Sulla commedia antica, dove non solo vengono discussi problemi di ogni tipo (linguistici, testuali, antiquari e cronologici), ma sono criticate sia l’interpretazione allegorica della poesia sia la sua importanza dal punto di vista didascalico, perché il compito del poeta consiste principalmente nell’affascinare e nel sedurre gli animi dei lettori.
Gli studiosi del Museo svolgono anche un altro dei compiti caratteristici del critico letterario: la valutazione dell’autenticità dell’attribuzione di alcune opere a un determinato autore. La “questione omerica” nasce proprio ad Alessandria: sulla base delle numerose discrepanze (soprattutto, linguistiche, ma non solo) fra l’Iliade e l’Odissea, Senone ed Ellanico (i cosiddetti “separatisti”) sostengono che Omero abbia composto soltanto l’Iliade.
Anche i primi critici letterari latini si occupano di problemi analoghi: tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C. Elio Stilone pubblica la prima edizione critica del teatro di Plauto; a lui le fonti attribuiscono il merito di aver considerevolmente ridotto (da 130 a 25!) il numero delle commedie autenticamente plautine, eliminando quelle che erano state composte da altri autori e gli erano state attribuite a torto. Il suo allievo Marco Varrone segue la strada tracciata dal maestro: non scrive solo le Questiones Plautinae (un commento linguistico-grammaticale ai drammi del poeta comico), il De scaenicis originibus (un trattato sulle origini del teatro) e il De personibus (un saggio sulle maschere), ma nel De comoediis Plautinis riduce il numero delle commedie autentiche a 21 e divide le altre in drammi di incerta autenticità (19) e di sicura inautenticità (90).
Che Varrone si sia occupato anche di questioni linguistiche (etimologia, morfologia, sintassi, stile) non deve stupirci: nel mondo antico la filologia (la scienza dell’edizione critica e l’interpretazione dei testi letterari) e la linguistica (la scienza del linguaggio) non sono discipline separate, ma costituiscono i due filoni principali di una materia (la “grammatica”) che ha un significato molto più ampio rispetto ai nostri giorni.
Con la conquista dell’Egitto e con la conseguente estensione del dominio politico di Roma sulle terre dove la lingua e la letteratura sono soprattutto greche, i rapporti di interscambio fra le due culture diventano sempre più frequenti e fecondi. Ne è un esempio Dionigi di Alicarnasso: benché greco, trova a Roma, e proprio negli anni che vedono la fine del conflitto con Cleopatra, un ambiente adatto per i suoi studi, grazie alla frequentazione di circoli culturali formati da Greci trapiantati come lui nella capitale del nuovo impero e da Romani che conoscono alla perfezione la lingua greca. La sua principale opera storica, le Antichità romane, narra l’ascesa di Roma fino alla prima guerra punica; come “grammatico”, si occupa di questioni stilistiche (il trattato Sulla composizione delle parole descrive come la scelta e la combinazione delle parole siano fondamentali per la bellezza di un testo); come critico letterario, scrive una serie di saggi dedicati agli oratori greci del periodo classico (Lisia, Isocrate, Iseo e Demostene) e allo storico Tucidide.
Anche gli autori latini hanno coscienza del fatto che, pur con tutte le differenze, la letteratura greca e quella latina seguono un percorso comune. Nel decimo libro dell’Institutio oratoria, il manuale dedicato alla formazione dell’oratore, Quintiliano, per dare ai suoi allievi una panoramica sui migliori modelli da seguire per acquisire la facilità di scrittura e di parola, traccia un sintetico profilo delle due letterature che costituisce il primo esempio di storia delle letterature greca e latina: si parte da Omero per arrivare, dopo la sezione dedicata agli autori greci (suddivisi per generi letterari: epica, lirica, commedia, tragedia, storia, oratoria e filosofia), a quella degli autori latini, che comincia, allo stesso modo, dalla poesia epica (con le figure di spicco di Lucrezio e Virgilio), e prosegue con i poeti elegiaci, satirici, tragici e comici, con gli storici, gli oratori (il gruppo più numeroso, dove risalta la figura di Cicerone) e i filosofi. Pur nella sua estrema sintesi, il quadro delinato da Quintiliano contiene alcune osservazioni interessanti che mostrano il suo equilibrio critico: il confronto tra Erodoto e Tucidide, le riserve su Ennio e Seneca, il giusto risalto dato alla satira latina.
Purtroppo le tante opere di critica letteraria composte nell’età imperiale sono andate tutte perdute. L’unica eccezione è il trattato Del sublime, scritto intorno alla prima metà del I a.C. da un autore sconosciuto, nel momento più acceso della polemica tra apollodorei (i seguaci di Apollodoro di Pergamo, che ritengono la retorica una scienza, basata su fattori razionali come le prove, i fatti e gli argomenti) e teodorei (i seguaci di Teodoro di Gadara, che vedono invece nella retorica un’arte caratterizzata dalla libertà dell’ispirazione) – una polemica che finisce per toccare altri aspetti, perché gli apollodorei sono, per quel che riguarda lo stile, sostenitori dell’atticismo (lo stile che si rifà agli autori attici come Lisia) e, in campo grammaticale, fautori dell’analogia (declinazioni e coniugazioni devono seguire regole rigorose, che non possono essere messe in discussione dalle infrazioni presenti nell’uso comune), mentre i teodorei sono a favore dello stile asiano (ornato ed esuberante) e dell’anomalia, poiché ritengono che le eccezioni grammaticali derivate dalla consuetudine debbano essere accettate.
L’Anonimo del sublime prende le mosse proprio da un trattato sullo stesso argomento scritto dal retore atticista Cecilio di Calatte, che aveva spiegato con ampiezza cos’era, dal punto di vista dello stile, il sublime, ma non aveva detto una parola su come lo si potesse raggiungere e da quali fonti esso potesse avere origine. Ed è proprio su questi problemi che l’Anonimo costruisce la sua trattazione: le cinque fonti del sublime, due naturali (la capacità di grandi concezioni e la passione violenta che nasce dall’ispirazione) e tre che possono essere acquisite con la tecnica (la qualità delle figure retoriche, la nobiltà di espressione e la composizione delle parole); l’importanza della passione (il pathos, la forza irrazionale dell’animo umano, che era stata trascurata da Cecilio), alla quale è strettamente connessa la “fantasia” (la capacità di creare immagini potenti attraverso l’uso del linguaggio); la dimensione etica (l’oratore deve essere animato da una forte tensione morale); le caratteristiche del vero sublime (che è tale perché si imprime profondamente nell’animo dell’ascoltatore). Fornito di una profonda padronanza della letteratura greca e latina, l’Anonimo sostanzia le sue considerazioni con una ricca serie di esempi (compresa la Bibbia), mostrando un acuto sguardo critico che, di ogni autore, coglie le caratteristiche principali; tra gli autori citati, preferisce quelli dotati di una grandezza geniale e travolgente (anche se non esente da cadute) a quelli che raggiungono una perfezione impeccabile ma mediocre (“Nella tragedia preferiresti essere Ione di Chio o Sofocle? … Nessuno che abbia un po’ di giudizio scambierebbe il solo Edipo re sofocleo con tutti i drammi di Ione”).
Benché sia stato letto spesso come un testo di estetica, il trattato Del sublime non ha niente a che vedere con il cosiddetto “bello”: come scrive Giulio Guidorizzi, il suo argomento è “quella forma di grandioso letterario che si manifesta nei momenti della massima tensione espressiva, quando la parola dell’autore raggiunge il suo uditorio con tanta forza da determinare una particolare condizione psicologica, i cui tratti caratteristici sono il cedimento della dimensione logico-razionale, uno stato di provvisoria alienazione mentale in cui il pubblico si identifica totalmente con il processo creativo dell’artista, una profonda commozione accompagnata da sensazioni di piacere e di entusiasmo che soggiogano e trascinano la mente di chi ascolta”. Insieme alla Poetica di Aristotele (e, per un certo periodo, più della stessa Poetica) il Sublime è stato l’unico testo di critica letteraria dell’età antica ad aver avuto un influsso durevole sulle teorie letterarie dell’epoca moderna: basterebbe questa sola considerazione a far capire quale sia il posto che esso occupa nella storia della critica letteraria di tutti i tempi.