elemento
Il termine e. è vocabolo tecnico del linguaggio filosofico e scientifico medievale, e come tale è usato da D.; il latino elementum traduceva il greco στοιχει̃ον (cfr. Cicerone Acad. I VII 26 " aer... et ignis et aqua et terra prima sunt... illa initia et ut e Graeco vertam elementa dicuntur ").
La dottrina dantesca degli e. prende le mosse da quella aristotelica, ricalcandone grosso modo tutti gli sviluppi, a eccezione di lievi modifiche e integrazioni quali l'estensione del moto circolare all'acqua e il problema, inesistente per Aristotele, dell'emersione della terra dall'acqua. Se ne distacca invece per quanto riguarda la creazione degli e., tema fondamentale per un pensatore cristiano ma ignorato dal filosofo greco. Giova però sottolineare che, pur allontanandosi da Aristotele e dall'interpretazione tomistica, D. non ne rifiuta, né in tutto né in parte, la dottrina, ma ecletticamente la giustappone ad altre correnti filosofiche e teologiche, più sensibili al tema della creazione.
" Elementum vero dicitur ex quo aliquid componitur primo inexistente indivisibili specie in aliam speciem ", sosteneva Aristotele (Metaph. V 3, 1014a 25 ss.) e s. Tommaso (Metaph. V lect. VI, nn. 795-798), analizzando l'enunciato, ne poneva in luce le quattro caratteristiche fondamentali. In primo luogo, gli e. costituiscono la causa materiale di tutti i corpi composti o misti (n. 795); inoltre, l'e. è il primo principio " ex quo aliquid fiat ", o materia costitutiva dei corpi (n. 796); in terzo luogo, l'e. è " inexistens " cioè " intrinsecum " (n. 797); infine, esso è " indivisibili specie " ovvero divisibile solo in parti omogenee (n. 798). Anche D., nella Quaestio (§§ 41-42), afferma che gli e., essendo omogenei, regulariter in suis partibus qualificantur (cfr. Cecco d'Ascoli Sphaera, Venezia 1518, c. 10 " unam habent in omnibus partibus rationem elementa simplicia "). In breve, gli e. sono cause materiali, interne e omogenee, " in quae ultimo resolvuntur omnia corpora mixta: et per consequens ea sunt, ex quibus primo componuntur " (Tomm. Metaph. V lect. VI, n. 800; cfr. Alb. Magno Philos. paup. III 1).
Sussiste pertanto, tra i corpi composti e gli e., non solo un rapporto interno e costante ma anche un rapporto più o meno diretto secondo la maggiore o minore complessità delle loro operazioni, ovvero, per dirla con Alberto Magno (Causis et propriet. elemen. I I 2), " corpora quaedam magis recedunt ab elementis in operationibus suis, et quaedam minus recedunt ab eis ". Di qui una visione della natura gerarchicamente ordinata secondo un processo ascendente che dal semplice (cioè dai ‛ corpi semplici ' o e.) muoveva per gradi verso il complesso. Detto processo, le cui tappe scandivano i diversi gradi dell'essere, era descritto da Alberto Magno in un'opera ben nota a D. (Cv III V 12 libro de la Natura de' luoghi e de le proprietadi de li elementi), il De Causis et proprietatibus elementorum (I I 2). Tra i corpi composti, quelli che " minus recedunt " dagli e. " sunt lapides et minerae ", perché in essi " expresse elementorum videmus operationes: propter quod immediate componuntur ex elementis ". Le piante invece " plus recedunt " dagli e., perché da essi " non immediate componuntur ". Gli animali infine " recedunt maxime, et ideo non generantur ex elementis proxime: sed oportet elementa commisceri in humores, et ex humoribus constitui animalium corpora ". Simile è la posizione di D., che ordina gli esseri naturali in cinque classi o gradi generali (Cv III VII 6), cioè le corpora simplici, le minere, le piante, gli animali e gli uomini (III 2-5).
Io veggio l'acqua, io veggio il foco, / l'aere e la terra, enumera D. in Pd VII 124-125. Secondo Aristotele infatti (Generat. et corrupt. II 3, 330a 30-330b 5), il numero e la natura degli e. derivava logicamente dal numero e dalla natura delle qualità primarie o " tangibiles ", cioè percepibili solo col tatto. Le qualità, come bianchezza o nerezza, dolcezza o amarezza, proprie di altri organi sensibili, non partecipavano alla costituzione degli e. non essendo esse né primarie, né attive, né passive. " Et quia non sunt primae - commentava Alberto Magno (Generat. et corrupt. II I 5) - ideo non sunt primorum corporum quae sunt elementa: et quia nec activae nec passivae, non transmutant ea quae tangunt, et ita non valent ad generationem et corruptionem elementorum ".
Solo l'organo del tatto permetteva di cogliere quelle contrarietà o qualità che " sunt causae omnium contrarietatum ", cioè il caldo, il freddo, l'umido e il secco, dalle cui quattro combinazioni, eccettuate le due coppie contrarie caldo-freddo e secco-umido, derivavano il fuoco. (caldo-secco), l'aria (calda-umida), l'acqua . (fredda-umida) e la terra (fredda-secca). Attivi erano il caldo e il freddo, passivi l'umido e il secco (cfr. Tommaso Generat. et corrupt. II II 6 e Alberto Magno Generat. et corrupt. II I 5). Il caldo era " congregativum homogeniorum, et disgregativum heterogeniorum: congregat enim aurum cum auro, et argentum cum argento: separat aurum a ferro, et plumbum ab argento " (Alberto Magno Philos. paup. III 3; cfr. De Mineralibus III I 1). Si comprende allora perché D. annoveri tra i corpi omogenei anche l'aurum depuratum (Quaestio 41). Il freddo (cfr. Rime CII 28 l'aere sempre in elemento freddo / vi si converte) invece aveva la proprietà di " congregare " tanto i corpi omogenei che gli eterogenei. L'umido era di per sé indelimitabile, pur essendo delimitabile " termine alieno ". Dice D.: aqua est labile corpus naturaliter, et non terminabile termino proprio (Quaestio 20; cfr. Campano, Sphaera, Venezia 1518, V, c. 153: " cum aqua propter sui humiditatem non sit terminabile nisi termino alieno "). Il secco infine, di per sé delimitabile, lo era difficilmente " termino alieno ". Da queste qualità primarie provenivano poi le cosiddette secondarie, come duro e molle, dolce e amaro, sottile e grosso e simili.
Gli e. e tutte lor misture (Pd VII 125) sono inoltre soggetti a corruzione e a durar poco (v. 126), destino comune a tutti i corpi sensibili, composti o semplici che siano, per le contrarietà insite in essi (cfr. Cecco d'Ascoli: " ogni elemento si muove e corrompe ", L'Acerba I 607). La generazione, secondo Aristotele (Generat. et corrupt. II 4, 331a 10), procedeva " ex contrariis et in contraria ", ed essendo gli e. fra loro contrari, ne conseguiva che tutti reciprocamente si trasformavano. Ma non tutte le trasformazioni avvenivano con la medesima velocità e facilità. " Citius et facilius " si trasformavano quegli e. che avevano in comune una qualità, mentre quelli che differivano per entrambe le qualità " tardius et difficilius " si trasformavano. Circolare era dunque la generazione dei corpi semplici, dal fuoco in aria attraverso la corruzione del secco, dall'aria in acqua attraverso la corruzione del caldo e infine dall'acqua in terra attraverso la corruzione dell'umido.
Grave et leve sunt passiones corporum simplicium, quae moventur motu recto, afferma D. in Quaestio 25. Non si confonda però passiones con qualità passive, perché la gravità e la leggerezza, secondo Aristotele (Generat. et corrupt. II 2, 329b 20), non erano né attivi né passivi: infatti i corpi non si dicevano pesanti o leggeri " in faciendo aliquod aliud, neque in patiendo ab alio ". Il termine passio è impiegato da D. nel significato aristotelico (Metaph. V 21, 1022b 15-16) di " qualitas secundum quam alterari contingit, ut album et nigrum, dulce et amarum, gravitas et levitas, et quaecumque sunt talia ". Corpi levi (Pd I 99) sono il fuoco e l'aria, corpora gravia (Quaestio 25) l'acqua e la terra. Levia moventur sursum, gravia vero deorsum, definisce D. (Quaestio 25; cfr. Arist. Coel. I 3, 269b ss.). .Ma pesante in senso assoluto è solo la terra (Terra est gravissimum corpus, Quaestio 34) perché " substat . omnibus quae deorsum feruntur " (Tomm. Comm. in De cael. I V 2; cfr. Pd XXIX 51 il suggetto de' vostri alimenti. Per l'alternanza alimento-elemento v. anche ALIMENTO, e Petrocchi, Introduzione 430), cioè la terra che " sottostà a tutti li elementi " (Buti; e Quaestio 37 ipsam [la terra] substare omnibus corporibus) e conseguentemente aequaliter undique ac potissime petit centrum dell'universo (Quaestio 34). Leggero in senso assoluto è invece detto il fuoco perché " supereminet omnibus quae sursum feruntur " (Tomm. Comm. in De cael. I V 2) e quindi movesi in altura / per la sua forma ch'è nata a salire (Pg XVIII 28-29; cfr. XXXII 109-111, Pd IV 115, 133-136, 141, 77, XXIII 40-42). Pertanto le corpora simplici hanno amore naturato in sé a lo luogo proprio, e però la terra sempre discende al centro; lo fuoco ha [amore a] la circunferenza di sopra, lungo lo cielo de la luna, e però sempre sale a quello (Cv III III 2), mentre l'aria e l'acqua occupano un posto di mezzo tra gli e. estremi fuoco e terra. D. ricorda anche la diversa disposizione degli e. avanzata da Pitagora (Cv III V 5).
Se il moto in linea retta è proprio dei corpi soggetti a gravità e leggerezza, e quindi degli e., quello circolare spetta invece ai corpi celesti che non partecipano di quella qualità (" corpus autem quod circulariter movetur, impossibile est quod habeat gravitatem aut levitatem ", Tomm. Comm. in De Caelo I V). È quanto sosteneva Aristotele nel De Caelo, osservando che un moto non retto degli e. era " praeter naturam ". Tuttavia, in un passo delle Meteore (I 3, 341a 1-3), lo stesso Aristotele estendeva all'aria e al fuoco il movimento circolare. L'apparente contraddizione non sfuggì a s. Tommaso (Comm. in De Caelo I IV 7) che così spiegava: " dicendum est quod illa circulatio ignis vel aeris non est ei naturalis, quia non causatur ex principio intrinseco; neque iterum est per violentiam, sive contra naturam; sed sit quodammodo supra naturam, quia talis motus inest eis ex impressione superioris corporis, cuius motum ignis et aer sequuntur secundum completam circulationem, quia haec corpora sunt caelo propinquiora; aqua vero secundum circulationem incompletam, scilicet secundum fluxum et refluxum maris; terra autem, velut remotissima a caelo, nihil de tali permutatione participat, nisi secundum solam alterationem partium ipsius ".
Oltre al moto naturale in linea retta, anche D. ne ammette uno circolare per il fuoco (Videmus ignem imitari circulationem caeli, Quaestio 84), per l'aria (in circuito tutto quanto / l'aere si volge con la prima volta, Pg XXVIII 103-104), e per l'acqua, riscontrabile nel flusso e riflusso del mare originato dal volger del ciel de la luna (Pd XVI 82-83; cfr. Quaestio 15 e 84). B. Nardi (D. e Alpetragio, in Saggi di filosofia dantesca, Firenze 19672, 161 ss.) ha messo in relazione questa dottrina dantesca con la tesi di Alpetragio (De Motibus caelorum, ediz. F.J.Carmody, Berkeley-Los Angeles 1952, 80-82), secondo cui il nono cielo comunicava il suo movimento circolare alle sfere celesti e agli e. a eccezione della Terra, immobile al centro dell'universo (Cum centrum terrae sit centrum universi, Quaestio 7), e ha avanzato l'ipotesi che i versi di Pd XXVII 106-108 alludano alla dottrina dell'astronomo arabo. Comunque sia, è certo che il movimento circolare dei primi tre e. era opinione diffusa e accolta, oltre che da s. Tommaso, da Alberto Magno (Liber de causis I IV 7; cfr. De Caelo II III 14) e da Ruggero Bacone (Opus maius, ediz. J.H. Bridges, Oxford 1900, 203).
Per quanto riguarda infine la figura sive forma (Quaestio 4; cfr. Arist. Categ. VI 14), D. attribuisce ai quattro corpi semplici una superficie sferica (Quaestio 5; cfr. Cv III III 2).
" Omnium elementorum - spiegava Alberto Magno (Summa de creaturis LXXIII 5) - figura est circularis: terra enim cum undique sit gravis, undique quantum potest appropinquat ad centrum, et ita in circulo... Aqua vero undique terminatur ad terram, et etiam rotunda est. Et eadem ratio est de aere propter contactum ad aquam. De igne autem alia ratio est: ille enim est simpliciter levis, et ideo undique ascendens sursum, ut dicit Avicenna, et figuratur ad coelum lunae, quod cum sit rotundum, ignis etiam rotundus erit " (cfr. anche B. Latini, Il Tesoro [volgarizz. attribuito a B. Giamboni, ediz. L. Gaiter, Bologna 1878, I 311-312]: " conviene che 'l mondo sia tondo, e che tutte cose che sono rinchiuse dentro da lui, vi fossero messe e istabilite ritondamente... perciò potete voi intendere che la terra è tutta ritonda. E altresì sono gli altri elementi che si tengono insieme in questa maniera "). Aristotele, pur accettando questa dottrina, aveva osservato che la sfericità degli e. non eguagliava quella perfetta dei corpi celesti e che la terra, in particolare, era provvista di cavità atte ad accogliere tanta acqua quanta ne bisognava per la formazione dei mari e dell'Oceano. Il problema dell'emersione della terra dall'acqua era dunque inesistente per lo Stagirita o quanto meno esso trovava una facile soluzione nell'irregolare sfericità terrestre. Non altrettanto facile si presentava la soluzione " ai filosofi, medici e cosmografi cristiani... per il conflitto che pareva loro delinearsi fra la dottrina aristotelica che pone l'acqua e gli altri elementi concentrici alla terra, e l'affermazione biblica che fu Dio stesso a raccogliere tutta l'acqua in un sol luogo come in un otre, per fare emergere la gran secca " (B. Nardi, La caduta di Lucifero e l'autenticità della Quaestio de aqua et terra, Torino 1959, 43-44). Non è questo il luogo per analizzare a fondo la questione; ci preme soltanto ricordare che, a partire dalla fine del XII secolo, numerose furono le discussioni sull'argomento e che D. stesso vi partecipò, in qualità di filosofo, componendo una Quaestio de aqua et terra, la cui autenticità è per altro ancora in discussione.
Consideriamo ora la creazione degli elementi. Come è noto, " una delle più caratteristiche opinioni di Dante è quella concernente la creazione " (B. Nardi, D. e Pietro d'Abano, in Saggi di filos. dant., cit., pp. 42 ss.). Essa muove dal principio che tutto ciò che Dio crea direttamente e immediatamente è incorruttibile e che gli esseri generabili e contingenti (La contingenza, che fuor del quaderno / de la vostra matera non si stende, Pd XVII 37-38), cioè gli e. e tutte lor misture (VII 125) non sono creati da Dio in loro essere intero (v. 132), bensì li alimenti che tu nomati hai / e quelle cose che di lor si fanno / da creata virtù sono informati (vv. 133-135). Questo principio di neoplatonica memoria, era stato ripreso dall'arabo Avicenna (" a stabili in quantum stabile non est nisi stabile ", Metaph. XI 1), insieme alla dottrina dell'emanazione del molteplice dall'Uno. D. respinge questa dottrina, palesemente eretica, sostenendo che forma e materia, congiunte e purette, / usciro ad esser che non avia fallo, / come d'arco tricordo tre saette (Pd XXIX 22-24), ma accoglie la tesi della creazione mediata degli e. e dei loro composti a opera delle intelligenze o corpi celesti (per la generazione del corpo umano si parla in Cv IV XXI 4 della vertù de li elementi legati, cioè la complessione). Affermazione non priva d'audacia, anzi eretica alle orecchie dei teologi, ché il privar gli esseri sublunari dell'attributo di creature divine equivaleva a negare la creazione. D., ben consapevole di ciò, ricorre a una sorta di compromesso distinguendo, negli esseri soggetti a corruzione, la materia creata direttamente da Dio (in Cv IV I 8 D. dice se la prima materia de li elementi era da Dio intesa), dalla forma comunicata dai corpi celesti. Così, oltre a sfuggire all'accusa di eresia, D. ritiene di non discostarsi da quel concetto di materia ingenerabile e incorruttibile avanzato da Aristotele e accolto da tutti gli scolastici del tempo.
In realtà lo Stagirita, pur distinguendo negli e. un principio materiale da un principio formale, aveva a più riprese sottolineato che la materia, inesistente allo stato separato, sempre celava in sé una contrarietà, cioè quelle qualità primarie da cui scaturivano gli e.; e s. Tommaso (Pot. IV I 13) sosteneva che se la materia, all'atto della creazione, " omni forma carebat, tunc erat tantum in potentia et non in actu; et ita nondum erat creata, cum creatio terminetur ad esse ". Avendo dunque " aliquam formam, aut illa erat aliqua forma elementaris, aut forma mixti ". Da escludere era la " forma mixti " perché i corpi composti non potevano precedere i semplici da cui provenivano, ed erronea era la tesi di una materia formata da un solo elemento, ché altrimenti si tornava alla dottrina dei presocratici, già confutata da Aristotele. Non rimaneva dunque che attribuire alla materia la forma dei quattro elementi.
D., fautore di una materia informe creata direttamente da Dio, abbandona il concetto aristotelico-tomistico del sostrato come pura potenza inesistente senza la forma, e fa suo " quello, assai meno rigoroso ma molto diffuso ed a lungo discusso tra gli Scolastici, di tant'Agostino; il quale affermò appunto la creazione di una materia informe e caotica, che avrebbe preceduto la distinzione e l'ordinamento successivo del mondo " (B. Nardi, D. e Pietro d'Abano, cit., p. 45). " Dicimus, illam primam materiam non ideo dictam fore informem, quod nullam omnino formam habuerit, quia non aliquid corporeum tale existere potest, quod nullam habeat formam; sed ideo non absurde informem appelari posse dicimus, quia in confusione et permixtione quadam subsistens, nondum pulcram apertamque et distinctam receperat formam, quale modo cernimus " (Pietro Lombardo, Libri IV Sententiarum, II XII 5). E Brunetto Latini: " Egli fu vero che 'l nostro Signore al cominciamento fece una grossa materia, e fu senza forma, e senza figura; ma ella era di tal maniera ch'egli ne poteva formare e fare ciò ch'egli voleva, e senza fallo di quella fece egli tutte le cose ...quella materia è chiamata hyle. E però che li quattro elementi, che l'uomo puote vedere, son tratti di quella cotale materia; però sono elli appellati elementi per lo nome di quella materia, cioè per hyle " (Il Tesoro, cit., r 297; cfr. Isidoro di Siviglia Etymol. XIII III 1; Vincenzo di Beauvais Speculum naturale II 4). Quanto poi alla dottrina neoplatonizzante della virtù informante dei corpi celesti accolta da D., essa era espressamente respinta da Alberto Magno che difendeva la creazione divina degli e. contro la " opinionem, quae dicitur Ptolemaei, quod elementa primo facta fuerunt per motum coeli ", cioè contro la loro generazione (Philos. paup. III 4). Sostenere dunque, come fa D., che il primo cielo mobile comunica col suo movimento uniforme la virtù generale e semplice al cielo stellato e che questo a sua volta " moltiplica e distingue per diverse essenze la causalità o influenza universale e indistinta del primo mobile " (B. Nardi, D. e Pietro d'Abano, cit., 43) via via limitata e determinata dalle sfere inferiori, significava per Alberto Magno postulare una materia informe a suo giudizio " impossibile " e, quel che è più, negare la creazione degli elementi.