DUSE, Eleonora
Discendente da una famiglia d'attori girovaghi (v. duse), fu battezzata in una parrocchia di Vigevano il 3 ottobre 1859. I suoi biografi raccontano che sua madre l'aveva data alla luce in un vagone di terza classe, viaggiando con la sua povera compagnia comica da un paese all'altro del Veneto. Simile a tutti i figli d'arte, anche la D. crebbe sulle tavole del palcoscenico, dove apparve la prima volta al pubblico in età di quattro anni, come Cosetta nei Miserabili di V. Hugo; e fra teatrini d'infimo ordine trascorse con la sua compagnia un' infanzia vagabonda e misera, in mezzo agli stenti e alla fame. Nella sua adolescenza nulla fece presagire in lei notevoli capacità: si sa che una sera il suo capocomico Pezzana, a Fano, in presenza di tutti i suoi compagni, la esortò a cambiare mestiere. Magra, non bella, di lineamenti irregolari e di tinta olivastra, sembra che recitasse svogliata, con una specie (dice il Rasi) di perpetuo sfiaccolamento, come di creatura nauseata dalla vita. Pure, qualcuno cominciò a notarla una sera, a Verona, nella parte di Giulietta, in cui l'attrice giovinetta ebbe l'idea di presentarsi con un gran fascio di rose pallide, acquistato a spese di tutte le sue piccole economie. Dopo avere ottenuto successi anche come Ofelia nell'Amleto, e nella Teresa Raquin di Zola, si rivelò pienamente a vent'anni al teatro Carignano di Torino, nella compagnia di Cesare Rossi, recitando la Principessa di Bagdad di Dumas figlio. Cominciò quindi per lei la serie dei trionfi, durati con ritmo crescente - salvo la lunga parentesi del suo silenzio - sino alla morte.
La sua carriera si può dividere, dal punto di vista artistico, in tre periodi. Il primo coincise più o meno con l'avvento del cosiddetto "naturalismo"; l'arte nuova della giovane attrice (la quale più tardi proclamava: "io non ho mai saputo recitare") fu salutata, da molto pubblico e molta critica, come stupenda "verità". Ma non era certo verità fotografica; anzi così impetuosa e violenta che nei primi tempi fu tacciata addirittura di scorrettezza; arte, difatto, alata e potente; furibonda sensualità e passione stragrande, con scatti e voli sino allora sconosciuti, e donde scoppiava la rivelazione d'una personalità ribelle, che pareva effondersi in disperati aneliti verso un irraggiungibile ideale. A manifestare una tale personalità la D. accettò via via tanto le opere dei poeti autentici quanto i pretesti scenici che le forniva il repertorio in voga ai suoi tempi: da Shakespeare (Romeo e Giulietta, Antonio e Cleopatra), a Goldoni (Locandiera, Pamela nubile, Innamorati), Verga (di cui rivelò Cavalleria rusticana), Renan (La badessa di Jouarre), Donnay (L'altro pericolo), Pinero (La seconda moglie); Dumas figlio (Signora dalle camelie, Dionisia, Demi-Monde, Francillon, Visita di nozze, Principessa di Bagdad, Principessa Giorgio, Moglie di Claudio), Meilhac e Halévy (Frou-frou), Sardou (Teodora, Fedora, Odette, Divorziamo), Cossa (Cecilia), Giacosa (Resa a discrezione, Contessa di Challant, Tristi amori), Cavallotti (Figlia di Jefte), Torelli (Scrollina), Praga (Moglie ideale e Innamorata), Ohnet (Padrone delle ferriere), Sudermann (Casa paterna). Fu con questo repertorio che la D., tra l'ultimo ventennio del secolo scorso e i primissimi del nostro, percorse tutti i teatri d'Italia e, presto, quelli dell'estero. Fin dal 1881 un impresario straniero, lo Schurmann, uditala recitare a Torino, le aveva proposto di condurla a Parigi; ma la D. non accettò che nel 1894, iniziando in tutta Europa, e in America, una serie di giri trionfali: Svizzera, Germania, Ungheria, Inghilterra, Austria, Russia, Stati Uniti, Francia.
È superfluo ricordare che l'esistenza privata della D. in questo periodo fu assai tumultuosa. Il suo matrimonio con l'attore Tebaldo Checchi era stato spezzato da una separazione, avvenuta senza colpa del marito, il quale si ritirò dall'arte per divenire console d'Italia nell'America del Sud; e la D., trasportata dall'ardore del suo temperamento e dal suo dichiarato senso pagano della vita, conobbe più esperienze passionali, che la lasciarono torbidamente insoddisfatta. Negli ultimi anni di questo periodo, ella aveva tuttavia cominciato a subire una trasformazione, anche grazie a un'amicizia che ebbe influenza sul suo spirito: quella d'Arrigo Boito. Desiderî nuovi, preoccupazioni culturali ancora alquanto disordinate ma profondamente sentite, vive inquietudini spirituali, avevano cominciato a correggere e a raffinare l'istintiva tempra della donna e dell'artista, e le avevano fatto cercare con ansia la parola dei grandi poeti, avviandola alla scoperta di quello che poi ella tenne sempre per il massimo trageda moderno, Ibsen. Un fatto nuovo, affascinante e devastatore, l'incontro con d'Annunzio - di cui il romanzo Il Fuoco rimane testimonianza famosa, ma parziale -, precipitò questa crisi dell'artista verso una temporanea soluzione: Eleonora D. fu conquistata alla cosiddetta religione della Bellezza, e si fece banditrice del nuovo teatro patrocinato dal poeta. Di qui comincia il suo secondo periodo artistico, caratterizzato appunto da quell'estetismo in cui l'attrice, nonostante le deplorazioni e i rimpianti di qualche adoratore del suo recente passato, stilizzò con squisita preziosità l'arte sua. A questo periodo appartengono le sue lotte per imporre il teatro dannunziano, e i celebri quanto vani progetti per il "Teatro d'Albano". E con repertorio prevalentemente dannunziano (Sogno d'un mattino di primavera, Sogno d'un tramonto d'autunno, Città morta, Gioconda, Francesca), ibseniano (Rosmersholm, Casa di bambole, Hedda Gabler, Donna del mare), e maeterlinckiano (Monna Vanna), ella compì tra il 1906 e il 1907 un nuovo giro mondiale, condotta da Lugné-Pöe, in Svizzera, Belgio, Svezia, Norvegia, Danimarca, America del Sud, e poi ancora America del Nord. I suoi trionfi, presso pubblico e critica, suscitarono echi vastissimi; il nome della D. cominciò a esser circonfuso da un'aura di leggenda, che sembrò non diminuire, ma anzi accrescersi quando, nel 1907, l'attrice non ancora cinquantenne si ritrasse improvvisamente dalla scena, per raccogliersi in solitudine (Roma, Firenze, Asolo).
Una nuova crisi, questa volta di natura religiosa, travagliava lo spirito della D. Ella non acconsentì a uscirne se non per posare, una sola volta, in una cinematografia tratta dal romanzo di Grazia Deledda, Cenere; e più tardi, nel 1914, per farsi iniziatrice d'una "Casa per le giovani attrici" in Roma, dove avrebbe voluto offrire un rifugio sereno all'intelligenza e al cuore delle artiste italiane, della cui vita la D. deplorava, per amara esperienza, la miseria morale. Lo scoppio della guerra europea travolse il progetto. La D. partecipò con tutta l'anima al tremendo fenomeno nazionale e mondiale; si prodigò nelle opere di assistenza; si recò anche a confortare della sua presenza l'iniziativa delle recite al fronte; e dalla sanguinosa prova uscì piena di sensi cristiani. Sicché quando, al termine della guerra, circostanze anche materiali la indussero a tornare alle scene, la sua essenziale preoccupazione fu d'ordine spirituale: ella volle portare, al pubblico del dopoguerra, una parola consolatrice.
Qui s'iniziò (maggio 1921) il terzo e ultimo periodo dell'arte sua, quello che potrebbe definirsi religioso. Nella Donna del mare e in Fantasmi di Ibsen, nella Porta chiusa di M. Praga, in Così sia di T. Gallarati-Scotti (ai quali aggiunse anche, per omaggio al d'Annunzio, una ripresa della Città morta), il pubblico italiano ed europeo conobbe una terza D., la cui recitazione era divenuta tutta spirito; la cui tecnica era sparita, quasi consunta da un fuoco divoratore; la cui parola era ormai un canto religioso. Ebbe accoglienze entusiastiche in tutti i paesi d'Europa, che le ridettero fede in sé, e in un suo sogno: quello di sanare la decadenza dell'arte scenica italiana, e di cominciare a redimere l'esistenza dei suoi attori raminghi, posandosi stabilmente in una città d'Italia, per crearvi uno di quei "teatri d'arte" che l'intelligenza italiana invocava con fervore da un quarto di secolo.
A questo fine, rifiutando con grata fierezza le offerte che il governo fascista le aveva fatto, di un aiuto economico per la vagheggiata impresa, ella accettò di compiere un ultimo giro nell'America del Nord, da cui si riprometteva di trarre liberamente ella stessa (come in realtà avvenne) una somma sufficiente a fondare il suo teatro. Ma nell'atmosfera soffocante di Pittsburg la sua fibra stanca non resse più: e il 20 aprile 1924 ella chiuse gli occhi per sempre, assistita soltanto dai suoi attori. Onori sovrani furono resi alla sua salma, sia in America, sia in Italia dal governo, che le tributò esequie solenni a spese dello stato.
Dei giudizî dati in tutto il mondo sull'arte della D., il lettore potrà trovare ampia notizia nei volumi qui sotto citati. La storia della D. è, meglio che d'un'attrice, quella d'un grande spirito, in comunione con tutte le ansie del tempo suo, prima pago al culto del vero e del sensibile, poi fidente di trascendere cotesto vero nella contemplazione della mera Bellezza, infine tornato al senso del Divino. Salutata fin dalla sua prima apparizione come una innovatrice, la D. non s'adagiò mai nelle conquiste compiute, ma si macerò, evolvendosi incessantemente, in un continuo superamento di sé stessa, verso un ideale sempre più alto, mirando a una meta sempre più pura. Perciò il suo nome non tanto rimane tra le gerarchie dei grandi attori, quanto fra quelle dei sommi artisti che, dalle esperienze anche più torbide e dalle ebbrezze e dai tormenti più fervidi e dolorosi, approdarono religiosamente alla rivelazione dell'amore e della fede.
Bibl.: G. Primoli, E. D., in Revue de Paris, 1° giugno 1897; L. Rasi, La D., Firenze 1901; G. Ferruggia, La nostra vera D., Milano 1924; E. Schneider, E. D., Parigi 1925; trad. it., Milano 1930; J. Bordeaux, E. D., the story of her life, Londra 1925; C. Antona-Traversi, E. D., sua vita, sua gloria, suo martirio, Pisa 1926; S. D'Amico, Tramonto del grande attore, Milano 1929; E. A. Reinhard, Das Leben der E. D., Berlino 1929; trad. it., Milano 1931. Nel volume intitolato: E. D., reliquie e memorie (Milano 1925) sono raccolti giudizî e pensieri sulla Duse di tutti i critici italiani e di molti stranieri.