ELETTRICITÀ.
Notazioni adottate in questo articolo:
A × B denoterà il prodotto scalare di due vettori.
A ⋀ B denoterà il prodotto vettoriale di due vettori.
Se R è un vettore di componenti X, Y, Z, il simbolo div. R indicherà la divergenza di B, cioè lo scalare definito da
Corrispondentemente, il simbolo rot. R denoterà la circuitazione specifica, o vorticità, o rotazionalità del vettore R (da altri autori indicata con curl R, quivl R e simili notazioni), cioè un vettore di componenti
Similmente, se Φ è uno scalare la notazione grad. Φ indicherà il gradiente di Φ (da altri indicato con ΔΦ), cioè un vettore di componenti
La terna di assi si supporrà una terna destra, cioè tale che se l'asse Ox è rivolto verso est, e l'asse Oy verso nord, l'asse Oz sia rivolto verso lo zenit.
La relazione tra verso positivo di traslazioni e rotazioni s'intenderà quella delle viti destre o viti ordinarie.
Lo sviluppo delle teorie elettriche, a partire dalla constatazione delle proprietà dell'ambra da parte degli antichi filosofi (Talete, Teofrasto, Plinio), e dalla scoperta della bussola fino all'inquadramento moderno nella teoria di relatività è indissolubilmente legato con lo studio degli altri fenomeni dell'etere; e in particolare della gravitazione e della radiazione luminosa. I punti di partenza devono essere dunque ricordati insieme.
Mentre Galileo, Torricelli e l'Accademia del Cimento avevano aperto alla scienza umana la strada maestra insegnando il metodo sperimentale e applicandolo a conoscere l'inerzia e le leggi prime del moto; mentre W. Gilbert nel 1600 aveva compiuto le prime ricerche sui magneti e su sostanze elettrizzabili affini all'ambra, e Otto von Guericke verso il 1650 aveva costruito la prima macchina elettrostatica, I. Newton nel 1687 pubblicò la prima edizione dei suoi Principia, enunciando la legge di gravitazione
e formulando la teoria emissiva (corpuscolare) della luce; nel tempo stesso C. Huygens in contrapposto a quest'ultima teoria formulò e sviluppò l'ipotesi della propagazione ondulatoria: cioè la radiazione luminosa sarebbe stata un fenomeno ondulatorio dell'etere. L'etere così veniva a comparire per la prima volta in una teoria scientifica precisa. E se Newton non accettò in quel momento la teoria ondulatoria, fu solo per la difficoltà di conciliarla allora coi fenomeni di ombra portata; tuttavia, nella terza edizione dei suoi Principia (1726) con larga visione sintetica additò doversi ricercare nell'etere (fluido sottilissimo che penetra anche in tutti i corpi) il mezzo che trasmette le forze e le azioni di coesione, quelle elettriche e quelle magnetiche, i fenomeni del calore, della luce, e persino quelli fisiologici. In quanto alla legge di gravitazione, Newton aveva sempre insegnato che i corpi non possono agire dove non sono e non possono trasmettere azioni a distanza, ma che si comportano come se si attirassero in ragione diretta delle masse e in ragione inversa dei quadrati delle distanze. Ma trascinati dai successi di questa legge nel campo dei calcoli astronomici, i contemporanei di Newton, dopo averla prima combattuta, l'accettarono andando oltre il pensiero del maestro, tanto che R. Cotes insegnava che la proprietà dei corpi di agire a distanza è la più naturale, e nessun'altra potrebbe immaginarsi più semplice ed evidente. Questo punto di vista è quello che ha influito poi in modo prevalente sulla formazione delle teorie elettriche nel secolo successivo.
Intanto, nel corso del sec. XVIII si raccoglievano sperimentalmente le cognizioni sul comportamento dell'elettricità statica: così Ch.-Fr. de Cisternay du Fay nel 1733 distinse l'elettricità positiva da quella negativa; i fisici olandesi costruirono nel 1745 il primo condensatore noto sotto il nome di bottiglia di Leida; e Beniamino Franklin verso il 1750 compì e pubblicò le sue memorabili ricerche che lo condussero da una parte a enunciare il principio della conservazione dell'elettricità (invarianza della somma algebrica delle cariche elettriche), dall'altra a identificare il fulmine con una scintilla elettrica e a costruire il primo parafulmine (1752). Molti e complessi fenomeni venivano rivelati da quel momento in poi, come quelli piroelettrici per opera di Giov. Caraffa duca di Noja nel 1758, e quelli di elettricità animale per opera di J. Walsh nel 1773; furono costruiti apparecchi e macchine che permisero di sperimentare estesamente; fino a che verso la fine dello stesso secolo si poterono scrivere vere trattazioni, descrittive e qualitative che prepararono il terreno alle trattazioni matematiche del secolo successivo. E la fine del secolo segnò la scoperta dell'elettricità dinamica per opera di Luigi Galvani, che nel 1790-91 insegnò a distinguere i conduttori di prima e di seconda specie, e di Alessandro Volta che nel 1799 costruì la prima pila; donde il periodo attivo e fecondo di ricerche si apre per tutti gli scienziati.
Per via parallela, intanto, la conoscenza dei fenomeni dell'etere aveva fatto un altro progresso. J. Bradley nel 1728 scoprì inaspettatamente che la direzione apparente in cui noi riceviamo la luce dalle stelle è influenzata dalla velocità orbitale della Terra nello stesso modo come la direzione apparente di caduta della pioggia si modifica per un osservatore che sta in una vettura in moto veloce: questo fenomeno si chiama aberrazione astronomica, e in virtù di esso le stelle oscillano di 20'' innanzi e indietro ogni anno. Fu questo il primo fatto positivo nei rapporti fra etere e moto della materia, e aprì le serie a quell'ordine di ricerche che hanno condotto quasi due secoli dopo a costruire la teoria della relatività. Collegato con questo è il fatto della velocità finita di propagazione della luce, constatata da O. Roemer con esperienze astronomiche, nella misura di 300.000 km./sec., e confermata poi da numerose esperienze terrestri, senza che per il momento si fosse potuto intravedere il legame intimo di questo fatto con quelli elettromagnetici. Sul fatto dell'aberrazione scrisse il dalmata R. Boscovich (nato a Ragusa, astronomo a Milano) il quale nel 1755, precorrendo A. Fresnel, propose di fare l'esperimento con un telescopio pieno d'acqua, e previde che l'aberrazione sarebbe rimasta la stessa; risultato verificato cento anni dopo da G. Airy a Greenwich. Progrediti i mezzi d'investigazione matematica e sperimentale, la propagazione ondulatoria della luce fu posta sopra basi definitive da T. Young (che nel 1804 diede la spiegazione ondulatoria dell'aberrazione, enunciando che l'etere non veniva trascinato dalla terra) e dal Fresnel (che confermò la teoria dell'etere stagnante, aggiungendo però nel 1818 la sua ipotesi di un trascinamento parziale dell'etere supplementare nei corpi trasparenti: con conseguenze verificate da A. H. Fizeau alcuni decenni dopo); infine dalle esperienze di J. F. D. Arago.
Su queste basi molteplici e influenzate da questi precedenti si sono sviluppate nel sec. XIX le teorie dell'elettricità e degli altri fenomeni dell'etere. Le teorie sono state successivamente ispirate da punti di vista differenti, e rappresentano fasi diverse nel pensiero scientifico, che tuttora sopravvivono in tutto o in parte, e che devono essere conosciute una per una.
Teorie premaxwelliane. - Il primo punto di vista fu quello dell'azione a distanza. Nella prima metà del sec. XIX, e anche in gran parte della seconda metà per il successo che in meccanica celeste aveva avuto la legge f = mm′/r2 si cercò di stabilire le leggi delle azioni elettriche e magnetiche per mezzo di formule che facessero dipendere le forze e le azioni induttive da funzioni pure e semplici della distanza, senza ritardo di tempo nella trasmissione degli effetti, e senza riconoscere influenza del mezzo interposto.
Primo punto di partenza e d'incoraggiamento in questo indirizzo furono le ricerche di C. A. Coulomb, contenute in sette memorie pubblicate all'Accademia di Parigi dal 1785 al 1787. Questo fisico esperimentò misurando con la bilancia di torsione le forze di reciproca attrazione e repulsione, tra sferette elettrizzate nell'aria, e trovò una legge di attrazione e repulsione comparabile a quella newtoniana; enunciò che due cariche omonime si respingono, e due di segno opposto si attirano, con una forza che è data dal prodotto delle cariche diviso per il quadrato della distanza. Questi risultati erano già stati ottenuti dall'inglese H. Cavendish parecchi anni prima, ma non divulgati, perché l'insieme dei lavori di questo fisico fu pubblicato molto più tardi, dopo la sua morte.
S. D. Poisson nel 1811, fondandosi su queste ricerche, e sulla teoria dei due fluidi già enunciata da B. Franklin, espose la prima teoria matematica delle azioni elettrostatiche; indi quelle delle azioni fra magneti, che si era riconosciuto seguire anch'essi leggi analoghe. La formulazione matematica ricevette elevato sviluppo con l'introduzione di una nozione ausiliaria, di cui si trovano i primi accenni nelle opere di J. L. Lagrange (1777) e di P. S. Laplace (1784), e che poi ricevette il nome di funzione potenziale nella trattazione di G. Green (1828), e il nome di potenziale in quella di K. F. Gauss (1840). L'uso costante di questa e altre consimili nozioni matematiche ausiliarie contribuì non poco ad allontanare gli scienziati di quel tempo dalla visione concreta del fenomeno fisico. La constatazione delle proprietà dei condensatori elettrici con dielettrico materiale, e la scoperta del diverso potere induttore specifico dei corpi dielettrici, la quale rivelava alterazioni della legge di C. A. Coulomb in funzione del mezzo interposto fra le cariche elettriche, non valse a rimuovere i fisici dall'ordine di idee già stabilito, ma fu ricondotta in quell'ordine stesso mediante ipotesi e nozioni supplettive artificiali di cariche apparenti indotte.
Con gli stessi procedimenti furono investigate e trattate le azioni magnetiche e in particolare quelle fra magneti permanenti. In questo campo il disagio fu ancora più grande. Non esiste in natura una "carica magnetica" isolata, che abbia funzione paragonabile a quella delle cariche elettriche. Nondimeno, esperimentando con magneti sottili e lunghi, si riconobbe che le estremità si attirano e respingono le une con le altre. Si disse allora: un magnete ha due poli magnetici, uno positivo e uno negativo; e s'immaginò un fluido, o meglio un doppio fluido magnetico, che si accumula in questi poli e cagiona le loro proprietà. La bilancia di Coulomb mostrò che avvicinando due poli dello stesso segno essi si respingono, e avvicinandone invece due di segno opposto si attirano, con forza che è data dal prodotto delle intensità dei poli, diviso per il quadrato della distanza. E quando i magneti non sono sottili e lunghi, ma qualunque, e magnetizzati in modo qualunque, si può rendere sempre conto del loro comportamento descrivendo una distribuzione opportuna di poli, cioè di cosiddetto magnetismo positivo e negativo attraverso tutto il loro insieme. In questo modo le azioni magnetiche erano inquadrate in uno schema teorico simile a quello ideato per le azioni elettrostatiche. Ma questo era ancor più artificiale. Un corpo può avere elettrizzazione d'insieme positiva o negativa: le cariche elettriche positive e negative sono separabili fra loro, e possono essere concentrate come si vuole in un elemento di materia; quindi hanno un certo grado d'individualità. Invece un magnete ha sempre tanto magnetismo positivo da una parte, quanto magnetismo negativo dall'altra.
È vero che in un magnete lungo (nella fig. A, B) i poli si presentano distanti, e sembrano comportarsi come se fossero indipendenti, ma se il magnete si spezza in mezzo, sulle facce della superficie di separazione compaiono altri poli opposti, di guisa che non si ha un magnete positivo e uno negativo, ma un magnete AC coi due poli uguali fra loro, e un magnete DB coi due poli pure uguali fra loro. Quindi i poli non hanno un'individualità fisica. S pensò che in ogni molecola esistono i due fluidi in uguale quantità che quando il corpo è magnetizzato, si separano e si portano a due estremità opposte della molecola, senza però uscirne; questa separazione ha un certo carattere di stabilità nei magneti permanenti ed è invece transitoria in quelli temporanei. Attraverso questa visione, l'elemento fondamentale per la descrizione quantitativa dei fenomeni non è più il polo magnetico, ma la molecola polarizzata, quale elemento indivisibile; ed era un primo distacco dalla semplicità della legge newtoniana. La concezione ideale del polo magnetico non fu però mai abbandonata del tutto dai teorici. L'inadattabilità dei metodi allo studio dei problemi reali venne poi singolarmente in evidenza quando, dopo il 1870, la nuova industria di costruzione delle macchine dinamoelettriche richiese alla teoria i dettami costruttivi. In questo come in altri casi l'influsso che la tecnica ha avuto sull'evoluzione delle idee teoriche fu non meno grande di quello che reciprocamente la scienza ha avuto sulla pratica.
Non uguale disagio si è verificato per ciò che riguarda lo studio delle correnti elettriche nei circuiti. La legge fondamentale scoperta da G. S. Ohm nel 1827 inquadrò nella calcolazione matematica il circuito elettrico scoperto da A. Volta; questa legge fu completata con quelle di C. R. Kirchhoff, con gli studî sperimentali sulle conducibilità e le resistività dei corpi, con quella di J. P. Joule e con le leggi speciali sull'elettrolisi, sulle pile e sui fenomeni termoelettrici. Il complesso di questi fenomeni, che fino da principio si trovarono descritti senza complicazioni d'ipotesi accessorie, fu così ridotto a una teoria che sarebbe tutta nella forma stessa in cui la conosciamo oggi, se il caso speciale del circuito metallico interrotto da dielettrici non costituisse un punto di diversità fra la trattazione antica e quella moderna.
L'influenza del preconcetto delle azioni a distanza si risentì invece di nuovo nel campo di studî dell'elettromagnetismo; questo campo fu aperto nel 1820 dal danese H. C. Oersted il quale constatò che l'ago della bussola devia in prossimità di una corrente elettrica (v. elettromagnetismo); e la proprietà additiva nelle azioni prodotte dalle correnti venne in evidenza con l'uso del telaio moltiplicatore, mentre in base agli esperimenti di A. M. Ampère e a quelli di J. B. Biot e di F. Savart, il Laplace pervenne a enunciare la prima legge quantitativa sull'azione meccanica fra correnti e magneti. Secondo questa legge l'azione si riduceva a una forza elementare esercitata da un inesistente elemento di corrente sopra un altrettanto inesistente polo magnetico libero: la forza elementare non risultava diretta secondo la congiungente, e non soddisfaceva al principio d'azione e reazione, ma era espressa in funzione della distanza e degli angoli. Seguendo lo stesso indirizzo, Ampère dal 1821 al 1826 sperimentò sulle attrazioni e repulsioni tra correnti, e concluse col proporre una classica formula di azione meccanica fra due elementi di corrente, la quale fu conservata nella scienza insieme con la formula di Laplace, nonostante che fra l'una e l'altra sorgesse contraddizione, perché l'identità fisica del campo magnetico prodotto dalle correnti con quello prodotto dai magneti era stata per molteplici vie constatata, e si era anche trovata la legge della azione di un campo magnetico su un elemento di conduttore percorso da corrente.
Fino a questo punto tutte le azioni sperimentate erano forze meccaniche. Ma gli esperimenti di M. Faraday, iniziati nel 1825, pubblicati nel 1830, rivelarono anche un'azione elettromotrice, il cosiddetto fenomeno delle correnti indotte nei circuiti posti sotto l'influenza di magneti mobili o di altre correnti variabili. Per molto tempo furono raccolti risultati di misure sperimentali su questo oggetto, fino a che una legge generale fu trovata, la quale esprime che ciò che viene "indotto" non è una corrente, ma una forza elettromotrice determinata. Ma di nuovo sorsero le complicazioni quando si volle esprimere questa forza elettromotrice in funzione dei dati geometrici e delle distanze degli elementi inducenti. Teorie matematiche intere, ma non mai complete, di elettromagnetismo furono elaborate in conseguenza di ciò, specialmente dagli scienziati tedeschi, F. Neumann, H. Grassmann, G. R. Kirchhoff, C. Neumann, W. Weber, R. Clausius, negli anni dal 1840 al 1866, mentre altri fisici, R. Pouillet, G. Wiedemann, C. Felici, M. Faraday di nuovo, F. Ch. Wheatstone, G. Matteucci, ecc., portavano nuovi contributi sperimentali, confermavano l'identità sostanziale fra l'elettricità statica e quella dinamica, e preparavano la via alle applicazioni. Queste incominciarono con la telegrafia, che portò alla posa del primo cavo transatlantico, compiuto nel 1866, e avendo dato origine alle memorabili ricerche di sir W. Thomson, e impulso alla costruzione degli strumenti di misura e all'uso pratico delle unità elettriche, provocò la diffusione della cultura elettrodinamica e avviò a considerare la teoria da punti di vista più obiettivi. Un altro fattore che preparò una mentalità nuova fu la dottrina dell'energia, che J. P. Joule aveva introdotto in termodinamica, che H. L. F. Helmholtz applicò all'elettromagnetismo, e che il Thomson e P. Tait insegnarono a prendere come base di tutte le dottrine fisiche. Questi eventi prepararono la via sia allo sviluppo di tutta l'industria elettrotecnica (a partire dalla macchina di Pacinotti, 1860), sia alla nuova scienza elettrica di cui siamo debitori particolarmente a J. C. Maxwell (prima edizione del suo trattato, nel 1875).
Facciamo ora seguire una breve esposizione delle teorie premaxwelliane, dividendole secondo i diversi rami della scienza elettrica, che si svilupparono appunto pressoché indipendenti.
Elettrostatica premaxwelliana. - Si ammette che lo stato di elettrizzazione di una particella di materia sia esprimibile per mezzo di una quantità algebrica q, che misura la sua carica elettrica, e a cui si dà anche il nome di quantità di elettricità. Questa può essere positiva o negativa. Vale la proprietà additiva, nel senso che riunendo due particelle con le cariche q1 e q2 si ha una particella la cui carica, per tutti gli effetti, può essere espressa da q1 + q2; di qui la possibilità di una misura effettiva di tutte le cariche, quando una qualunque di esse sia stata arbitrariamente scelta come unità; e ciò comparandole nei loro effetti, e componendole, come i pesi su una bilancia. E vale il principio di conservazione, secondo cui le singole cariche non si creano e non si distruggono; in altre parole, la somma algebrica delle cariche racchiuse in un ambiente non varia sino a che qualche carica non attraversa materialmente le pareti dell'ambiente per recarsi all'esterno. Questi due principî fondamentali e tutte le leggi successive sono interpetrabili ugualmente bene nell'ipotesi di un fluido solo come in quella dei due fluidi.
Fondamentali tra gli effetti delle cariche elettriche sono le azioni meccaniche di attrazione e repulsione. Due cariche elettriche puntiformi q e q′, poste in presenza e separate dalla distanza r, esercitano l'una sull'altra uno sforzo di repulsione
diretto secondo la loro congiungente; il coefficiente k dipende dalle unità di misure scelte; la repulsione è positiva se le cariche hanno lo stesso segno, e diviene attrazione se una carica è positiva e l'altra è negativa.
Il risultato dello sforzo F è diverso a seconda della natura dei corpi in cui risiedono le cariche, e conduce a dividerli in due categorie: conduttori da una parte, e isolanti o dielettrici dall'altra. Nell'interno dei corpi conduttori, le cariche si possono muovere liberamente: se una forza come la F agisce quindi su una carica che sia interna a un conduttore, la carica si sposta fino a che non si porta alla superficie del conduttore, in un punto dove la nuova F risultante (cioè la F modificata per effetto di questo trasporto) venga ad agire normalmente e sia rivolta verso l'esterno; in questo nuovo stato, il movimento della carica non è più possibile, perché la carica non può abbandonare il conduttore, e la F rimane come forza meccanica (forza ponderomotrice) applicata alla materia del conduttore. Invece, nell'interno dei corpi isolanti, le cariche non possono spostarsi, e ogni F agisce sempre meccanicamente come forza ponderomotrice, tendendo a spostare il corpo materiale che porta la carica. Lo spazio vuoto vale come dielettrico inquantoché non permette il movimento delle cariche elettriche, e non può mai assumere cariche.
Nello scrivere la formula si è fatto allusione a cariche puntiformi. In realtà le cariche dei corpi non sono mai puntifomfi, ma ripartite nel volume o nella superficie. Queste cariche ripartite s'immaginano però risolute in cariche elementari e puntiformi, una per ogni elemento di materia, e l'azione esercitata su ogni singolo elemento è la risultante di quelle dovute a tutte le altre cariche elementari dello stesso corpo e degli altri corpi. Per il calcolo di queste azioni si è trovato utile introdurre la variabile ausiliaria detta potenziale elettrico. Considerato un punto dello spazio P = (x, y, z) in presenza di più cariche q1, q2... qn, concentrate nei punti di coordinate (x1 y1 z1), (x2 y2 z2)... alle distanze r1, r2,... rn da esso punto. si costruisce la funzione scalare
e questa è il potenziale prodotto dalle cariche q1, q2,... qn nel punto P. Questo potenziale si annulla sempre, nel primo ordine, a distanza infinita e quando si tiene conto che in natura non esistono cariche positive senza che ve ne siano altre corrispondenti negative, l'annullamento è del secondo ordine rispetto alla distanza.
Allora, se una carica elettrica q esiste nel punto P, essa subisce per azione delle altre cariche, una forza F le cui componenti cartesiane sono
il che equivale a dire che la componente, lungo una direzione qualunque, della forza F, è uguale al prodotto della carica per il gradiente negativo (rapidità di caduta) del potenziale elettrico lungo quella direzione. Una carica elettrica positiva tende quindi sempre a muoversi dai punti dove il potenziale è più alto verso quelli dove è (algebricamente) più basso; viceversa per una carica negativa.
Se una carica q viene portata da un punto a potenziale V1 a un punto con potenziale V2, la forza elettrica agente sulla carica esegue un lavoro
e si può quindi anche definire fisicamente il potenziale elettrico di un punto siccome il lavoro che bisogna fare per portare su quel punto, da distanza infinita, l'unità di carica (supposto che durante questo trasporto le altre cariche rimangano tutte invariabili).
Di qui si arriva al concetto importante di energia d'un sistema di cariche. Considerate due cariche q1, q2 poste alla distanza r, il lavoro che la forza mutua esegue quando le cariche vengono allontanate indefinitivamente è
poiché la carica q2, per effetto della carica q1, ha il potenziale
quando r è nella posizione originaria, e ha potenziale nullo quando è all'infinito; onde nel passare dall'una posizione all'altra esegue il lavoro espresso dalla formula; e allo stesso risultato si perviene se l'allontanamento si calcola come fosse dovuto alla carica q1 che si porti indefinitivamente lontana dalla q2. Ne segue che due cariche poste in presenza l'una dell'altra hanno un'energia potenziale
Quindi un sistema qualunque r di cariche ha un'energia potenziale interna (energia elettrostatica) data da
Si dimostra, come conseguenza della (2), che il potenziale elettrico, in ogni punto dello spazio vuoto (cioè non occupato da cariche elettriche) soddisfa all'equazione di Laplace
In termini finiti, l'equazione di Laplace equivale ad asserire questo: che il valore di V al centro di ogni sfera (contenuto nello spazio vuoto) è la media aritmetica dei valori in superficie.
La corrispondente equazione nel caso di spazio occupato da cariche elettriche è stata trovata da Poisson. Si deve introdurre la nozione di densità di elettrizzazione, o densità di carica elettrica, definita dal limite del rapporto fra la carica elettrica posseduta da un elemento di un corpo, e il volume dell'elemento stesso, supposto che tutte le dimensioni dell'elemento tendano a zero nell'intorno di un punto. Si ha allora
Una formula corrispondente a quella di Poisson si ha nel caso in cui l'elettrizzazione sia ripartita su una superficie anziché in un volume. In luogo di ρ si considera allora σ, densità di elettrizzazione nella superficie, ovvero carica per unità di superficie; e indicando con n1, n2, le direzioni della normale da un lato e dall'altro lato della superficie, si ha
Il potenziale V, oltre che soddisfare all'equazione di Laplace in tutto lo spazio vuoto, si annulla come già si è detto, all'infinito; ed è funzione regolare delle coordinate. Una tale funzione è di quelle che si dicono armoniche. Ne segue il principio di Dirichlet in doppia forma: a) conosciuti, o dati arbitrariamente, i valori di V in tutti i punti di una superficie chiusa che racchiuda spazio vuoto, si possono univocamente determinare i valori di V in tutto lo spazio interno; b) conosciuti, o dati arbitrariamente, i valori di V in tutti i punti di una superficie chiusa, all'esterno della quale vi sia solo spazio vuoto, si possono univocamente determinare i valori di V in tutto lo spazio esterno. Il problema della calcolazione effettiva di tali valori, nell'uno e nell'altro caso, costituisce il problema di Dirichlet, che ha esercitato tanto a lungo gli sforzi dei cultori matematici dell'elettrostatica classica.
Poiché nell'interno della materia conduttrice, una volta raggiunto l'equilibrio statico, non vi è forza elettrica il potenziale ha un valore costante in tutti i punti di ogni singolo corpo conduttore: e quel valore si chiama potenziale del conduttore. Ma vi ha di più: considerato un conduttore cavo, cioè che abbia una cavità interna, e ammesso che in questa cavità non vi siano cariche, si deduce dal principio di Dirichlet che anche in tutti i punti della cavità interna il potenziale è costante ed è uguale a quello del conduttore.
Applicando la formula (9) alla superficie di un conduttore, e tenendo conto che sulla normale interna il gradiente del potenziale è nullo, e dicendo allora semplicemente
il gradiente lungo la normale esterna, si ha
dove σ è la carica distribuita per unità di superficie del conduttore. Questa carica è sollecitata verso l'esterno da una forza che è la media aritmetica fra quella che si avrebbe applicando la (3) nell'ipotesi che la carica fosse tutta esterna, e quella (nulla) che si avrebbe se la carica fosse nell'interno dove il potenziale è costante. La forza per unità di superficie è dunque
Alla forza T si dà il nome di tensione elettrica (questo vocabolo è stato poi impropriamente applicato per indicare il potenziale). Nei punti dove la superficie di un conduttore ha curvatura grandissima, e quindi specialmente negli spigoli e nelle punte, il gradiente esterno
del potenziale un raggiunge, per ragioni geometriche, valori molto elevati, e quindi anche la tensione T è grandissima: ne può conseguire la fuga delle cariche elettriche. Questo è il cosiddetto potere delle punte.
Lo studio geometrico delle distribuzioni elettrostatiche ha ricevuto molto aiuto dalla considerazione delle superficie equipotenziali, cioè delle superficie V = cost. La superficie di ogni conduttore è una superficie equipotenziale; nell'interno dei conduttori queste superficie non esistono, fuori riempiono tutto lo spazio, senza mai intersecarsi.
Due conduttori vicini e tipicamente due lame parallele separate da uno strato di spazio vuoto costituiscono quello che si dice un condensatore (v.). Sulle due lame, e precisamente sulle due faccie prospicienti si possono accumulare forti quantità di elettricità, di segno opposto tra le due lamine, senza richiedere una forte differenza di potenziale, perché le cariche opposte prospicienti si attirano mutuamente. Detta δV la differenza di potenziale fra le due lamine, detta Q la carica elettrica totale di ogni lamina (positiva per l'una, negativa per l'altra), si dimostra valida la seguente relazione
Al coefficiente di proporzionalità K si dà il nome di capacità del condensatore. Nel caso, ora descritto, di un condensatore a lame parallele, qualora sia S la superficie comune delle lame, e sia s lo spessore dello strato vuoto interposto, supposto costante, si ha
e formule analoghe a questa, ma corrispondentemente più complicate, valgono per i condensatori di altra forma (a spessore variabile, ad armature cilindriche, sferiche, ecc.).
Spesso si parla della capacità di un conduttore singolo. Per intendere questa frase bisogna pensare che secondo l'elettrostatica classica si attribuisce alla Terra un potenziale zero, considerando la Terra come un conduttore che si estende fino a distanza grandissima, ove il potenziale si annulla. Questo modo di ragionare non è esatto, perché il potenziale proprio della Terra è forse molto diverso da quello dei punti dello spazio siderale; ma diventa rigoroso, se s'intende alludere solo al potenziale prodotto da un sistema determinato di cariche vicine. Allora, capacità di un conduttore significa: capacità di un condensatore di cui un'armatura sia quel conduttore, e l'altra sia la Terra; ciò equivale a dire che la capacità del conduttore è il rapporto fra la carica di quel conduttore e il potenziale che esso assume rispetto alla Terra, quando esso conduttore è isolato. Sul valore di essa capacità influisce la posizione degli altri conduttori circostanti, che possono supporsi presenti purché scarichi. Se il conduttore è a distanza sufficientemente grande dalla Terra e dagli altri conduttori, la capacità che così si misura è quella stessa che si avrebbe se il conduttore si concepisse come realmente solo in tutto lo spazio, e si determinasse il rapporto fra la sua carica e il suo potenziale assoluto. Per un conduttore sferico di raggio R la capacità così intesa, ha il valore
Per costruire tutta questa teoria matematica, è stato sufficiente partire dall'ipotesi dei due fluidi elettrici (o da quella dell'unico fluido elettrico secondo Franklin, la quale conduceva agli stessi risultati), e dalla legge di Coulomb, intesa e applicata nel modo detto da principio; la legge di conservazione delle cariche elettriche s'intende inclusa nell'ipotesi dei fluidi. Ma queste basi avevano, fisicamente, due punti deboli: a) l'aver ammesso la validità della legge fondamentale in modo uniforme, senza preoccuparsi della natura dello spazio interposto; b) l'aver calcolato i valori della forza elettriostatica anche nelle cariche interne ai corpi materiali, senza che in questo caso la forza stessa corrisponda a qualche entità fisicamente misurabile. In realtà le esperienze fisiche eseguite erano essenzialmente di due tipi, quella grossolana di Coulomb per l'attrazione e repulsione di pallottoline di sambuco elettrizzate, immerse nell'aria, e quelle che verificano l'assenza di cariche nell'interno di un conduttore, e la distribuzione di elettricità alla sua superficie. I risultati ottenuti erano d'accordo con le ipotesi, ma non erano sufficienti per comprovarle.
Il primo indizio di deficienze si ebbe quando Cavendish verificò che in un condensatore a strato isolante materiale la capacità è maggiore che in un condensatore a vuoto. Si dové allora introdurre il concetto di potere induttore specifico dei dielettrici materiali, definito dal rapporto fra la capacità dei due condensatori come sopra. Ciò equivaleva però a dire che in un ambiente occupato da un dielettrico materiale, il coefficiente k della legge di Coulomb non aveva più lo stesso valore k0 come nel vuoto. E allora sorge spontanea la domanda: perché nei conduttori (i quali in certa guisa sono come in caso limite di dielettrici con potere induttore grandissimo) si deve piuttosto assumere k = k0 e non piuttosto k = 0? Quest'ultima ipotesi avrebbe spiegato il comportamento dei conduttori ugualmente bene.
Questa e altre riflessioni che nascono dall'osservazione dei fenomeni dei dielettrici materiali conducono spontaneamente a una dottrina elettrostatica di nuovo tipo.
Elettrocinematica premaxwelliana (che non differisce da quella delle teorie successive). - Con "elettrocinematica" intendiamo dire dei fenomeni galvanici, cioè quelli delle correnti elettriche nei circuiti.
Dopo la scoperta di Volta è stato accertato che le cariche elettriche possono fluire lungo i conduttori anche in modo continuativo, e si è acquisito nella pila elettrica un primo mezzo per mantenere effettivamente questo flusso. Collegando l'esperimento con quello elettrostatico, si perviene a definire come intensità di corrente la quantità di elettricità convogliata nell'unità di tempo.
In un conduttore metallico lineare percorso da corrente I, detti V2, V1 i potenziali agli estremi, vale la legge di Ohm, di origine sperimentale
dove R è una costante fisica di proporzionalità, indipendente da I, a cui si dà il nome di resistenza del conduttore. Alla sua reciproca
si dà il nome di conduttanza.
Risalendo alle relazioni fra energia e potenziale, si deduce che mentre in un tempo δt viene convogliata una quantità di elettricità
essa nel passare dal potenziale V2 al potenziale V1 esegue un lavoro
per cui il lavoro eseguito nell'unità di tempo, o potenza, corrispondente al passaggio della corrente nel conduttore è
e questa è la legge energetica fondamentale del circuito elettrico, e può valere per definire la differenza di potenziale indipendentemente da considerazioni elettrostatiche.
In un conduttore metallico semplice, il lavoro eseguito dal flusso di elettricità viene trasformato in calore. Combinando la (14) e la (18) si ha il calore prodotto nell'unità di tempo (misurato come lavoro) dato da
Dalla legge energetica, e da considerazioni matematiche ovvie, segue che la resistenza di un conduttore filiforme di lunghezza l e di sezione trasversale S si esprime sotto la forma
dove ρ è una costante propria della sostanza di cui è composto il conduttore, che prende il nome di resistenza specifica o resistività, e rappresenta la resistenza di un conduttore avente l'unità di lunghezza e l'unità di sezione. Reciprocamente la conduttanza è data da
dove γ = ρ-1 prende il nome di conduttanza specifica o conduttività.
Il fatto che la resistenza di ogni conduttore sia funzione della temperatura entra nella elettrofisica macroscopica, e segnatamente in quella classica, come una legge empirica, da precisare volta per volta, senza spiegazioni teoriche. Se più conduttori affluiscono in un nodo, e se la somma delle correnti che arrivano è maggiore di quella delle correnti che partono, segue dalla relazione fra galvanismo ed elettrostatica che la carica elettrica in quel nodo deve aumentare. Nel regime permanente, questo è escluso, e allora vale la prima legge di Kirchhoff: la somma algebrica delle correnti che affluiscono in un nodo è sempre nulla. Quindi la corrente fluisce sempre in circuiti chiusi.
Per completare la teoria matematica del circuito elettrico occorre tener computo delle cause che producono il flusso d'elettricità. Poiché nei conduttori metallici comuni (conduttori detti di 1a specie) vi è dissipazione di energia, deve esservi qualche tratto del circuito in cui l'energia viene somministrata alla corrente. Nella pila voltaica, questo tratto è ottenuto con l'intercalazione di un elettrolita (conduttore di 2ª specie), attraverso il quale vi è energia chimica potenziale che si converte in energia elettrica consegnata al circuito; ma presto furono scoperti altri fenomeni che dànno risultato equivalente. In un tratto di circuito così "attivo", si fa luogo a definire una quantità fisica E, eguale al rapporto fra l'energia che in un intervallo elementare di tempo è stata consegnata al circuito, e la quantità di elettricità che contemporaneamente ha fluito. Questa quantità E si chiama forza elettromotrice: essa ha la natura e la dimensione fisica di una differenza di potenziale. Quando in un tronco di circuito agisce la forza elettromotrice E, e contemporaneamente vi è una caduta di potenziale IR in confoimità della legge di Ohm, la differenza di potenziale fra i due estremi è
Se per qualsiasi ragione (brevità del tronco, grande conducibilità, o assenza di corrente) la caduta di potenziale è trascurabile o nulla, la differenza di potenziale s'identifica praticamente o esattamente con la forza elettromotrice.
Attraverso le formule scritte, la legge di Ohm e la definizione di resistenza elettrica si estendono, bene o male, anche ai conduttori di 2ª specie; e diciamo "bene o male" perché in questi conduttori la resistenza non è più indipendente dalla corrente.
Considerato un circuito elettrico completo e chiuso (senza diramazioni), l'intensità di corrente ha un valore costante I attraverso ogni sua sezione. Detta E la f. e. m. agente lungo il circuito se è unica, o la somma algebrica delle f. e. m. se ve n'è più d'una, e detta R la resistenza totale del circuito (somma delle resistenze dei suoi tronchi singoli), si ha la legge di Ohm nella sua forma tipica
In una rete di circuiti, considerato un percorso chiuso qualunque, o maglia, vale, sempre come conseguenza della (22), la seconda legge di Kirchhoff
La prima e la seconda legge di Kirchhoff, insieme, forniscono le equazioni necessarie e sufficienti per risolvere qualunque problema fisico relativo a distribuzione di correnti in una rete.
Occorre osservare che l'espressione della seconda legge, e di quelle che vi conducono, come è stata ora data, è quella generalmente adoperata nell'elettrofisica classica: essa presuppone che tutte le f. e. m. siano localizzate. Quando intervengono f. e. m. non localizzate (quali sono le f. e. m. indotte di tipo generale) cessa la nozione di potenziale elettrico e non si possono quindi scrivere le equazioni come la (22); nella seconda legge di Kirchhoff bisogna scrivere a secondo membro, invece che zero, un termine corrispondente alla somma di quelle f. e. m. che non sono localizzabili nei singoli tronchi.
La denominazione di forza elettromotrice ha dovuto essere estesa oltre che alle f. e. m. attive o impresse come sono quelle ora considerate, anche alle f. e. m. reattive (dipendenti dal passaggio della corrente in certi tronchi), e dalle f. e. m. assorbite. Così si dice che lungo un tronco ohmico (tronco di conduttore semplice di prima specie), viene assorbita una f. e. m. IR. Lo schema matematico generale dell'elettrocinematica non è stato complicato dalla conoscenza dei fenomeni termoelettrici, e di molti altri speciali che intervengono nella materia durante il passaggio della corrente. Di questi fenomeni la teoria ha tenuto conto come forze elettromotrici attive o reattive, e accettando il valore di queste f. e. m. siccome dato empiricamente dall'esperimento.
Magnetostatica premaxwelliana. - Nei primi tempi, come abbiamo già detto, la dottrina delle azioni magnetostatiche si è imperniata sull'ipotesi dei due fluidi magnetici, positivo e negativo, e su una legge analoga a quella elettrostatica per esprimere la legge di repulsione o attrazione fra due poli magnetici omonimi o eteronimi, d'intensità m, m1:
Ne seguiva, come in elettrostatica, la definizione di un potenziale magnetico
e la valutazione del'energia di un sistema di poli magnetici
con l'avvertenza che devono figurare solo i prodotti con due indici disuguali, e ciascuno di essi deve figurare una volta sola (altrimenti premettere il coefficiente 1/2).
Per i fluidi magnetici non si verificherebbe però mai il caso di libera mobilità assoluta come per i fluidi elettrici nei conduttori. Un magnete permanente conterrebbe eguali quantità dei due fluidi magnetici localizzate presso le estremità opposte e ivi immobili: in una sostanza magnetizzabile temporaneamente, come il ferro dolce, i due fluidi si separerebbero sotto l'azione d'un polo magnetico che venga avvicinato, e l'un fluido si accumulerebbe temporaneamente verso un'estremità l'altro alla estremità contraria.
Ma questa raffigurazione, come abbiamo già rilevato, fu trovata insufficiente di fronte al fatto che spezzando comunque un magnete temporaneo o permanente, i due magnetismi opposti non si separano mai, e nascono invece nuovi poli opposti sulla superficie di separazione, di guisa che ciascuno dei due nuovi magneti che si ottengono ha sempre un polo positivo da una parte e uno negativo dall'altra, eguali fra loro. Fu allora dovuto ammettere, nell'evoluzione della teoria da D. Poisson a W. Weber, che ogni molecola ha i due fluidi in eguale quantità, e che questi possono portarsi alle estremità opposte della molecola, senza lasciarla mai: in una successione di molecole o di magneti elementari, polarizzati tutti in un senso, i successivi poli opposti contigui neutralizzerebbero la loro azione, e avrebbero quindi effetto solo quelli estremi, dando l'impressione di due quantità di fluidi opposti distaccati fra loro. Per questo motivo, in un magnete allungato, si ha l'illusione dei poli magnetici separati; ma si rende ragione che il polo magnetico singolo è fisicamente inesistente.
Con questo, la concezione dei due magnetismi opposti restava superflua: era uno di quei modelli che contengono più della realtà; e la teoria matematica poteva impostarsi assumendo come elemento primo l'elemento di materia polarizzato, cioè il magnete elementare. Le proprietà di questo elemento sono individuate da un unico vettore M, il quale nella precedente concezione sarebbe definito così: la sua grandezza è il prodotto della comune intensità dei due poli per la loro distanza; la sua orientazione è quella della congiungente del polo negativo con quello positivo. A questo vettore si dà il nome di momento magnetico della particella. Tutte le azioni dovute alla particella, o subite da essa, si possono, con una conveniente trasformazione delle fonmule del primo tipo, esprimere in funzione del momento magnetico; invece i singoli valori delle intensità dei poli e della loro distanza non figurano in nessun risultato fisico, e rimangono entità fittizie. Proseguendo con la costruzione matematica, si definì come momento magnetico di un magnete la somma vettoriale dei momenti delle sue particelle, e come intensità di magnetizzazione in un suo punto generico il vettore che nasce facendo il rapporto fra momento magnetico ed elemento di volume. Si rivolse particolare attenzione al concetto di lamina magnetica o doppio strato magnetico: con questo nome s'intende una lamina di materia che abbia in ogni punto un'intensità di magnetizzazione normale alla sua superficie. Nell'antica raffigurazione ciò equivaleva a dire: una lamina con magnetismo positivo su una faccia, negativo sull'altra faccia, ripartiti in modo tale che in ogni punto il prodotto della densità superficiale del magnetismo sull'una o l'altra faccia (eguali fra loro) per la distanza delle facce sia finito; se questo prodotto è costante su tutta la lamina, esso si chiama potenza della lamina. È immediato che in una lamina come in qualunque magnete, la componente normale del vettore I in un punto di superficie equivale a ciò che la teoria precedente chiamava densità di magnetismo in superficie. Quindi la potenza, nel nuovo linguaggio, corrisponde all'intensità di magnetizzazione moltiplicata per lo spessore.
In questa guisa la concezione fisica della materia polarizzata o polarizzabile si sostituiva a quella precedente dei fluidi magnetici.
Le formule principali in questa seconda concezione erano le seguenti (sempre indicando con h la costante nella formula magnetica del Coulomb, la quale dipende dalle unità):
a) Potenziale magnetico prodotto in un generico P da un magnete elementare il cui momento magnetico M abbia la grandezza scalare M e la direzione n
dove r è la distanza fra il magnete e il punto P, nel senso da P verso il magnete. Di qui, per sommazione o integrazione, si deduce il potenziale dovuto a un sistema di magneti elementari o di magneti estesi. In particolare si ottiene il potenziale dovuto a una lamina magnetica di potenza π sotto la forma rimarchevole
dove ϕ è l'angolo solido sotto cui dal punto P si vede la faccia positiva della lamina.
b) Energia potenziale di un magnete elementare in presenza di un sistema che produca il potenziale V = V (x, y, z)
c) Coppia ponderomotrice che sollecita un magnete elementare in presenza come sopra:
d) Forza ponderomotrice di traslazione che sollecita un magnete elementare in presenza come sopra:
Queste due leggi di azioni ponderomotrici si possono ricavare dalla formula dell'energia potenziale, esprimendo che in uno spostamento qualunque il lavoro delle azioni ponderomotrici è eguale alla diminuzione di energia potenziale.
Gli autori della teoria del magnetismo fecero tentativi per inquadrare in formule matematiche le leggi del magnetismo indotto nelle sostanze magnetizzabili (corpi ferromagnetici, come il ferro dolce, corpi paramagnetici veri come l'ossigeno, e corpo diamagnetici come il bismuto). Ma queste formule riescono empiriche, perché il magnetismo indotto nella materia non segue leggi riconducibili a uno schema matematico rigoroso. Lo stesso avviene di numerosi fenomeni magnetici della materia, che al pari degli analoghi elettrostatici e galvanici non sono riconducibili a teorie matematiche generali nel campo della fisica macroscopica e il cui studio rimane, per quel campo, di dominio sperimentale.
Elettromagnetismo ed elettrodinamica premaxwelliana (v. elettromagnetismo). - Caratteristica della teoria classica, specialmente nella sua prima fase, fu l'assumere come nozione fondamentale l'elemento di corrente ids, cioè un tratto elementare di conduttore elettrico percorso da corrente, e separato idealmente dal resto del circuito. Questa entità non è realizzabile né materialmente né concettualmente; perché è fisicamente contraddittorio concepire un tronco di circuito, senza tutti gli altri tronchi che formano il circuito chiuso. Questa nozione fittizia fu nei primi tempi associata con quella fittizia di polo magnetico singolo.
La prima legge elettromagnetica enunciata fu così quella di Biot e Savart, detta anche di Laplace, per la forza ponderomotrice esercitata da un elemento di corrente ids su un polo magnetico m. Detta r la distanza PQ fra i due elementi, e detto ϑ l'angolo fra ds e PQ, la forza è diretta normalmente al piano che contiene il tutto, in un verso determinato, e ha il valore
dove α è un coefficiente di proporzionalità non indipendente da quelli che figurano nelle due leggi di Coulomb.
Questa legge non è fisicamente controllabile, ma quelle che se ne deducono applicandole a magneti completi posti sotto l'azione di circuiti completi, sono conformi alle esperienze di H. C. Oersted, di A. M. Ampère, ecc.
La legge non era invertibile: non si poteva applicare il principio di azione e reazione per dedurre la forza ponderomotrice esercitata da un polo magnetico su un elemento di conduttore percorso da corrente. Secondo la costruzione matematica di Ampère si riconobbe che questa forza F′ ha lo stesso valore di F, ed è rivolta in senso contrario
ma non ha la stessa linea d'azione perché è applicata all'elemento di conduttore. Di qui si deduce, in accordo con l'esperimento, la forza che un sistema qualunque di magneti esercita su un elemento ids.
Si noti che in questa seconda legge non si parla più di un elemento di corrente, ma di un elemento di conduttore percorso da corrente; il primo non è fisicamente concepibile perché la corrente fluisce sempre in circuiti chiusi; ma si può invece sperimentare su un elemento di conduttore appartenente a un circuito di corrente chiuso, ma munito di contatti striscianti tali da essere mobile indipendentemente dal resto del circuito senza interromperlo; e allora si può misurare la forza ponderomotrice da esso subita. Facendo intervenire il gradiente del potenziale magnetico, si può esprimere la forza ponderomotrice subita da un elemento di conduttore in presenza di un sistema qualunque di poli e di magneti che producono il potenziale V sotto forma di vettorprodotto
Dalla legge di Biot e Savart seguì l'identificazione fra gli effetti magnetici di un circuito di corrente e una lamina magnetica che abbia la stessa potenza come l'intensità di corrente nel circuito, con un fattore dipendente dalle unità di misura. Questa identificazione vale però per i punti esterni alla lamina, non per quelli interni.
Ne segue il potenziale magnetico dovuto, in un punto P dello spazio, a un circuito lineare chiuso
dove ϕ è l'angolo solido sotto cui dal punto P si vede il circuito; formula analoga a quella della lamina, ma con la differenza che qui si può girare attorno al circuito senza incontrare la discontinuità dovuta allo spessore della lamina; e il potenziale V non è più monodromo (a valore unico) ma cresce di 4 πια per ogni giro che si faccia, allacciato col circuito.
Come una lamina equivale a un circuito lineare, così analogamente una sbarra magnetica equivale a un solenoide avente la stessa superficie laterale: dalle esperienze di Ampère segue infatti che l'una e l'altro producono gli stessi effetti e subiscono le stesse forze ponderomotrici.
Questi confronti tra magneti e circuiti di correnti condussero Ampère a due nuove concezioni: a) nel decomporre un circuito in elementi, anziché fare il frazionamento in elementi lineari, farlo in elementi areali, cioè sostituire il circuito con una doppia infinità di circuiti chiusi di dimensionî infinitesime, percorsi dalla stessa corrente, e che riempiano un'area contornata dal circuito; quando questi ciicuiti sono riuniti insieme, i tronchi di corrente confinanti si distruggono, e rimane solo la corrente nel circuito primitivo; e questi elementi areali sono entità concepibili fisicamente, che possono esistere isolati; b) spiegazione delle proprietà dei magneti permanenti e temporanei, immaginando che ogni molecola sia sede di un circuito chiuso di corrente permanente: quando questi circuiti sono ugualmente orientati, si ha il fenomeno detto magnetizzazione.
Questa spiegazione dei magneti mediante correnti amperiane, se si riguarda come un'ipotesi fisica, esce dal dominio macroscopico, e infatti è sopravvissuta come parte integrante della microfisica moderna. Ma nella elettrofisica macroscopica rimane come modello che permette di sopprimere ogni riferimento a fluidi magnetici e a polarità magnetiche come elementi indipendenti, e riconduce i fenomeni magnetici nel campo di quelli elettrici.
Ampère avrebbe potuto in base a questo sopprimere ogni riferimento alla legge magnetica di Coulomb, a quella di Biot e Savart intesa come legge fondamentale, e dedurre tutto da leggi del tipo (35) e (36) che dànno il potenziale magnetico prodotto da un circnito, e lo sforzo ponderomotore subito da un elemento di conduttore in presenza di una data distribuzione di potenziale magnetico. Ma non arrivò a questa semplificazione, e raccolse invece sotto il titolo di Elettrodinamica le leggi ricavate direttamente dall'esperimento per le forze ponderomotrici esercitate fra due circuiti. Per l'enumerazione di queste leggi, v. elettromagnetismo. Si riassumono esse tutte in una cosiddetta legge elementare, che Ampère formulò nei termini delle cuncezioni pre-amperiane, perché dava l'azione ponderomotrice fra due fittizî elementi di corrente ids, i.ds′, sotto forma di una forza di attrazione o repulsione mutua, diretta secondo la congiungente, sottomessa al principio di azione e reazione, e avente il valore
dove β è un coefficiente (che nelle misure elettrodinamiche scelte da Ampère aveva il valore 1), r è la distanza fra i due conduttori, ϑ, ϑ′ sono gli angoli che i due conduttori fanno con essa distanza, ε è l'angolo fra le direzioni dei due conduttori.
Questa legge è in contraddizione con quelle che si ricaverebbero applicando le nozioni precedenti, e considerando ogni corrente come generatrice d'una distribuzione di potenziale magnetico. Invero, secondo i concetti amperiani, ognuno dei due elementi di corrente è un sistema magnetico, e come tale influisce sull'altro elemento; il quale, in quanto elemento di conduttore che porta corrente, non può subire altra forza ponderomotrice se non quella normale al proprio asse, e all'asse del primo conduttore, che risulterebbe dalla formula (35). Nonostante questo la formula elettrodinamica di Ampère non è contraria all'esperienza, perché non si può esperimentare sui due elementi di corrente fittizî; si può al più sperimentare la forza che un elemento di conduttore ids subisce in presenza d'un circuito intero percorso dalla corrente i′; e si trova veramente una forza normale all'elemento di conduttore. Ma questo risultato proviene anche dalla formula di Ampère perché la differenza fra questa e altra più razionale è tale che integrata lungo un circuito chiuso, dà risultato nullo.
Ciò spiega perché altre formule elettrodinamiche diverse dalla (35), furono proposte da Ampère stesso e da altri autori senza che l'esperienza potesse decidere fra l'una e l'altra. Ma nessuna aveva il vantaggio della semplicità, e della razionalità del principio. Erano state dedotte tutte sotto l'influsso della formula gravitazionale, cercando il più possibile una legge che esprimesse la forza come funzione della distanza, e si accordasse o col principio di azione e reazione, o con qualche altro presupposto newtoniano. E pure, fra due enti fittizî, non vi era ragione per conservare la legge d'azione e reazione; né, tanto meno, la forza di tipo newtoniano diretta secondo la congiungente, e sarebbe stato preferibile avere una legge non indipendente da quelle elettromagnetiche. H. Grassmann ne aveva, su questi principî razionali, dedotto una, asserendo che un elemento ids esercita su un elemento i′ ds′ una forza ponderomotrice normale a quest'ultimo elemento e giacente nel piano che contiene l'asse del primo elemento e il centro del secondo, e avente il valore
dove β è un coefficiente come prima, r la distanza fra i due elementi, n la normale al piano di cui sopra.
Altro gruppo di fenomeni è quello delle correnti indotte; Faraday nel 1831 scoprì i casi tipici d'induzione di correnti elettriche, per effetto di magneti e di correnti elettriche. H. Lenz nel 1834 enunciò questa legge: la corrente indotta ha sempre tal segno, che la forza ponderomotrice esercitata dal sistema induttore su essa corrente, agisce in modo da opporsi al movimento che ha provocato l'induzione. F. Neumann nel 1845 pervenne a enunciare che, in circostanze date, ciò che viene indotto è una forza elettromotrice determinata, la quale è indipendente dalla natura del circuito, è funzione delle cause agenti ed è proporzionale alla velocità con cui si muove il conduttore indotto. Con ragionamento che corrisponde a quelli che noi chiamiamo energetici, precisò che se v è la velocità con cui si muove in una certa direzione un elemento conduttore, e se Fv è la componente, secondo quella direzione, della forza ponderomotrice che il conduttore subirebbe se fosse percorso dalla corrente unitaria, sotto l'azione delle cause inducenti che esistono nell'ambiente, la forza elettromotrice indotta in quel conduttore ha il valore
dove γ è un coefficiente che dipende dalle unità di misura.
F. Neumann realizzò indi un passo importante definendo, per due circuiti chiusi percorsi da correnti i, i′, la seguente funzione
gl'integrali essendo estesi ai due circuiti, il coefficeiente γ essendo lo stesso come nella (39). A questo egli diede il nome di "potenziale mutuo" dei due circuiti: nel linguaggio nostro, non è un potenziale, ma ha le dimensioni d'una energia, ed esprime il lavoro che bisognerebbe fare contro le forze ponderomotrici mutue, per allontanare, in qualunque modo, i due circuiti l'uno dall'altro e portarli a distanza infinita, mentre le correnti i, i′ fossero mantenute costanti.
L'espressione W è applicabile, come ha mostrato poi E. Wiechert, anche al caso di due lamine magnetiche, prendendo in luogo di i, i′ i valori delle correnti corrispondenti alla potenza delle lamine (v. più sopra), quindi anche al caso di molecole magnetizzate, e quindi infine a quello di magneti qualunque, perché ogni magnete deve essere considerato come composto di molecole magnetiche, le quali sono lamine magnetiche elementari. E anche nel caso d'un sistema qualunque di correnti e di magneti, si definisce una funzione W quale somma di singole W relative alle coppie di elementi in cui si lascia decomporre il sistema (circuiti lineari e lamine o molecole magnetiche). Ma occorre fare un'osservazione. Se il sistema è composto di soli magneti, la W presa col segno cambiato rappresenta l'energia potenziale del sistema, intendendo assunto come livello zero dell'energia quello che si ha quando i singoli elementi in cui il sistema si è idealmente decomposto come sopra si trovano tutti a distanza infinita l'uno dall'altro. Nel caso dei circuiti elettrici, questa equivalenza non è più vera, perché durante l'ipotetico allontanamento dei circuiti le sorgenti che alimenterebbero i circuiti stessi e che manterrebbero costanti le correnti, fornirebbero lavoro (e precisamente, come ha dimostrato più tardi lord Kelvin, fornirebbero lavoro elettrico doppio e di segno opposto a quello eseguito contro le forze ponderomotrici). In ogni caso, nondimeno, se q è una coordinata del sistema (coordinata ordinaria cartesiana oppure coordinata generalizzata, come p. es. un angolo), e si vuol conoscere la forza ponderomotrice Q (ordinaria o rispettivamente generalizzata) che agisce nel senso d'incrementare q (così p. es., se q è un angolo, Q = coppia che tenda a far aumentare quell'angolo), si ha:
e risulta qui una regola generale per calcolare le forze ponderomotrici in qualunque sistema di correnti e magneti permanenti: rimangono incluse tutte le forze che erano dette magnetostatiche, elettromagnetiche ed elettrodinamiche, e sono escluse solamente quelle elettrostatiche. E allorquando un circuito elettrico si muove, la f. e. m. indotta è
dove γ è la costante di Neumann, già definita, e la derivazione s'intende fatta nel corso di quello spostamento relativamente a cui si vuol calcolare la E, mentre tutto il rimanente è supposto fermo.
Le considerazioni energetiche a questo riguardo furono sviluppate da H. Helmholtz, e costituirono il suo più grande contributo alla dottrina della conservazione dell'energia.
Il metodo di Neumann, così completato dai suoi successori, assurge a una grande generalità perché riunisce in un postulato unico tante leggi elementari disparate, raccolte attraverso esperienze di varia natura, e permette di dedurre conseguenze in casi più ampî. Antivedendo il futuro, Neumann non mancò di avvertire che le sue formule erano applicabili solo per movimenti compiuti con velocità molto inferiore a quella con cui si propagano le azioni elettriche: quindi, p. es., non per le correnti indotte prodotte da scariche elettriche.
La teoria matematica ispirata al punto di vista delle azioni a distanza era arrivata attraverso questi sviluppi a un alto grado di perfezione. Il completamentti più perfetto della medesima si sarebbe dovuto avere in una legge che avesse espresso la forza ponderomotrice fra due particelle elettrizzate in rapido movimento e tenendo conto possibilmente anche dell'effetto della loro accelerazione. Fino da allora si ammetteva implicitamente che una carica elettrica in moto doveva equivalere a un elemento di corrente: da una legge di quel tipo si sarebbe dovuto dedurre come primo caso limite la legge elettrostatica di Coulomb e come secondo caso limite quella fra due elementi di corrente; e non solamente sarebbero rimaste incluse in una formulazione unica tutte le leggi fin qui citate, compresa quella del Neumann, ma anche il caso delle correnti rapidamente variabili avrebbe potuto essere incluso nella previsione. Di sua natura, una legge così espressa sarebbe meglio ispirata al punto di vista dell'azione a distanza che non quelle ove figura il potenziale neumanniano.
Gauss nel 1835 suggerì una legge elementare di questo tipo
(i primi quattro simboli, come nella legge di Coulomb; C una costante universale, u il modulo della differenza vettoriale delle velocità assolute delle due cariche). Ma questa non conteneva l'effetto dell'accelerazione, e anche prescindendo da questo era inesatta perché non portava come conseguenza la legge della f. e. m. indotta.
Altra legge contenente il termine di accelerazione fu proposta dal Weber nel 1846 così
(a = costante universale, la cui reciproca ha le dimensioni di una velocità, e precisamente è eguale alla velocità della luce, divisa per √2). Questa legge, a differenza di quella del Gauss, era indipendente da riferimenti assoluti, e quindi relativista, ma più relativista di quanto i fatti richiedono. Le critiche del Thomson e del Tait e quelle del Helmholtz hanno provato che essa non è ammissibile.
Un anno prima, cioè nel 1845, Gauss in una memorabile lettera a Weber aveva esposto un'altra idea che in quanto additava la lacuna principale delle teorie dell'azione a distanza costruite fino a quei tempi doveva divenire dominante. Gauss diceva di avere speso dieci anni nei tentativi per ottenere una formula d'azione elementare fondata sull'ipotesi di una propagazione dell'azione stessa che avvenisse non in modo istantaneo, ma con velocità finita, a somiglianza della luce. Questa formula sarebbe stata la chiave di volta per una rappresentazione costruttiva di tutta l'elettrodinamica.
Il suggerimento di Gauss fu racconto da G. F. B. Riemann il quale nel 1858 proponeva di assumere che il potenziale V dovuto alle cariche elettriche mobili fosse determinato dall'equazione
dove α sarebbe stata una costante con le dimensioni fisiche di una velocità, k è la costante della formula di Coulomb. Col calcolo si verificava che questa formula avrebbe portato per conseguenza nel caso di due circuiti elettrici, quella di F. Neumann, pur di assumere α eguale alla velocità della luce. E questa legge di Riemann precorreva veramente la teoria di Maxwell e quella elettronica di H. A. Lorentz.
Altro e diverso tentativo fu fatto da C. Neumann in un gruppo di lavori intorno al 1869, assumendo che l'azione di una particella q su una particella q′ a un'epoca t′ dipendesse da un potenziale emesso dalla particella q a una certa epoca anteriore t, in modo che propagandosi con una certa velocità β lungo il segmento che ad ogni istante congiunge le due particelle raggiungerebbe la seconda particella all'epoca t., e avrebbe un valore dipendente dalla distanza mutua all'atto dell'emissione. La formula effettiva risultante era piuttosto complicata e fu molto discussa dai fisici matematici di quel tempo, con la conclusione che le sue conseguenze potevano solamente in parte essere d'accordo con la realtà.
Infine R. Clausius nel 1876 e 1877 formulò una nuova legge che, opportunamente semplificata, esprimeva l'energia potenziale mutua (cosiddetto "potenziale mutuo" nella terminologia di allora; di due cariche q, q′ animate da velocità assolute v, v′ e poste alla distanza r sotto la forma
dove A ha le dimensioni di una velocità. Il primo termine di questa formula viene a rappresentare l'energia potenziale coulombiana, il secondo è quello che prese il nome di "potenziale di Clausius". Questa viene ad essere una generalizzazione della legge elettrodinamica di Grassmann e al pari di essa è concettualmente ammissibile soltanto nell'ipotesi di un'azione che sia propagata attraverso il mezzo interposto. Anche questa formula diede luogo a critiche e obiezioni serie, che la fecero abbandonare; nondimeno secondo l'analisi più recente fatta da A. Sommerfeld (nella Encyklopädie der mathematischen Wissenschaften, V, 2, fasc. 1), dovrebbe esser preferita a tutte le altre come formula fondamentale dello schema premaxwelliano, insieme con quella di Grassmann che dà la forza ponderomotrice fra due elementi di circuiti elettrici. La differenza tra le formule di Clausius, Weber e Riemann viene in evidenza quando si applicano per calcolare l'energia mutua di due cariche q, q′ che percorrono un cerchio con eguale velocità v e si trovino in posizioni antipode. Si ha per la prima formula:
Ww = 0 per la seconda e per la terza
I calcoli fondati sulle dottrine più moderne darebbero invece risuliati diversi da tutti e tre questi valori.
Introduzione dei sistemi assoluti di unità elettriche. - I diversi schemi teorici sono collegati all'uso dei diversi sistemi assoluti di unità di misure, dai quali le formule traggono il loro aspetto caratteristico. Il primo suggerimento per un sistema assoluto si deve a Gauss, un contributo importante fu dato da Ampère, ma lo sviluppo scientifico definitivo dei sistemi di unità elettriche e magnetiche nel periodo dell'elettrofisica classica costituisce il principale titolo di gloria di Weber.
In accordo con lo schema teorico premaxwelliano, sono stati definiti questi sistemi:
a) Sistema elettromagnetico assoluto secondo Weber. - Viene assunta come numero puro la costante h della formula di Coulomb magnetostatica, attribuendole il valore 1, per il caso in cui il mezzo ambiente sia lo spazio vuoto, quindi l'unità di polo magnetico è quella che respinge con forza unitaria un polo eguale posto all'unità di distanza. Viene pure considerato come numero puro, e posto = 1, il coefficiente α che figura nelle formule elettromagnetiche (33) e (34), il che porta a fissare l'unità di corrente in dipendenza da quelle magnetiche. Ne segue β = 1/2 nelle formule elettrodinamiche di Ampère e di Grassmann (37) e (38), e γ = i nelle formule (39) e (42) e nella formula (40) di F. Neumann. La carica elettrica unitaria, o unità di quantità d'elettricità, resta definita come quella convogliata dall'unità di corrente nell'unità di tempo. Il coefficiente k nella formula elettrostatica di Coulomb riceve un valore obbligato con dimensioni [L2T-2]. Tutte le grandezze elettriche e magnetiche iicevono dimensioni esprimibili in [L], [M], [T], perché vengono tutte fatte dipendere dalle unità di lunghezza, di massa e di tempo.
Come realizzazione pratica definita, il sistema elettromagnetico più conosciuto è quello C. G. S. (centimetro-grammo-secondo) definito dall'Associazione britannica. In questo sistema l'unità di carica elettrica è 10 coulomb, quella di corrente è 10 ampère; quella di f. e. m. è 10-8 volt; quella di resistenza elettrica è 10-9 ohm; quella di flusso magnetico è 10-8 weber (volt-secondi); quella di autoinduzione elettrica è 10-9 henry; quella di capacità elettrostatica è 109 farad; e tutte queste sono in relazione con l'unità C. G. S. di energia che è 1 ergon = 10-7 joule.
b) Sistema elettrostatico assoluto di Weber. - Si considera come numero puro (valore = 1) nello spazio vuoto, la costante elettrostatica k di Coulomb, anziché quella magnetostatica, il che equivale a derivare tutte le altre unità da quella di carica elettrica, definita come la carica di una particella elettrizzata la quale nello spazio libero respinge una carica eguale, con una forza eguale a uno. L'unità di corrente elettrica è allora quella che convoglia l'unità di carica nell'unità di tempo.
Come nel sistema elettromagnetico, viene assunto = 1 il coefficiente α delle equazioni elettromagnetiche, con tutte le conseguenze che ne risultano; e tutte le unità magnetiche restano definite in conseguenza. Il coefficiente h della formula di Coulomb magnetostatica diviene qui una costante concreta, con dimensioni fisiche [L2T-2]. Anche in questo sistema, tutte le dimensioni di unità elettriche e magnetiche vengono espresse in funzione di [L], [M], [T], ma con formule dimensionali diverse da quelle del sistema elettrostatico. È da notare che la resistenza ohmica d'un conduttore ha le dimensioni d'una velocità; la capacità elettrostatica ha le dimensioni d'una lunghezza, la capacità d'una sfera conduttrice immersa nello spazio vuoto infinito è eguale al suo raggio.
Come realizzazione pratica definita, si ha anche qui il sistema elettrostatico C. G. S. dell'Associazione britannica. In esso l'unità di carica elettrica è
quella di corrente elettrica è
quella di f. e. m. è 300 volt; quella di capacità è la capacità di una sfera di 1 cm. di raggio, pari a
quella di flusso magnetico è 300 weber. 9.10
c) Sistema di Gauss-Hertz. - Vengono assunte simultaneamente come numeri puri le due costanti coulombiane h, k, ed eguagliate entrambe all'unità numerica nello spazio vuoto; con questo si forma un sistema che è contemporaneamente elettrostatico ed elettromagnetico, ma rinunciando a porre eguale a uno il coefficiente α delle formule di elettromagnetismo. Questo coefficiente acquista allora le dimensioni fisiche [L-1T] cioè quelle della reciproca di una velocità.
Il sistema è dualistico, e teoricamente semplice. Non è stato tradotto in pratica, perché comunque ciò si facesse, si arriverebbe a unità fisiche di grandezza troppo anormale; ma sotto varie forme e con qualche cambiamento è stato adoperato anche negli schemi teorici più recenti.
Attraverso questi sistemi di misure, è venuto in evidenza l'intervento continuo di una velocità critica che coincide con quella della luce.
La costante magnetostatica di Coulomb nel sistema elettrostatico e quella elettrostatica nel sistema elettromagnetico hanno il valore c2 e similmente tutti i rapporti fra unità corrispondenti di quei due sistemi conducono a potenze semplici della stessa c. Infine ha il valore 1/c anche la costante a nel sistema di Gauss-Hertz. Questa coincidenza, che veniva in evidenza attraverso i lavori di Weber, non mancò d'impressionare i fisici di quel tempo; e la spiegazione precisa fu ottenuta solo più tardi, dopo che la teoria maxwelliana mostrò che quella costante c rappresenta la velocità di propagazione delle perturbazioni elettromagnetiche nello spazio vuoto, e condusse gradualmente anche a impostare lo studio dei sistemi di unità elettrica da un punto di vista più sintetico.
Teoria di Faraday - Maxwell - Heaviside. - Nella seconda metà del sec. XIX, in contrapposto col punto di vista teorico fondato sulle azioni a distanza, che fin qui abbiamo esposto, si sviluppò dapprima attraverso un vivo contrasto, e finalmente con consenso universale, un altro schema nel quale è concezione predominante il riguardare tutti i mezzi dielettrici e anche l'etere libero o spazio vuoto, come veri mezzi fisici che divengono sedi di perturbazioni; in questo ordine di idee non si parla più di azione esercitata da uno su un altro corpo elettrizzato o magnetizzato, o percorso da corrente, e che dovrebbe esercitarsi in funzione della distanza; ma si considera che l'un corpo agisce sul mezzo ambiente perturbato: la perturbazione viene studiata col nome di campo elettromagnetico (come casi particolari elettrostatico o magnetostatico); e il mezzo così perturbato è quello che agisce sul secondo corpo.
Questo punto di vista, così estraneo alle idee dominanti dei fisici matematici del 1800-1850, che cercavano di ricondurre tutto a uno schema del tipo cosiddetto newtoniano, si presentò a Faraday attraverso le sue Experimental Researches pubblicate dal 1839 al 1855. Il grande fisico inglese non era analista, e non aveva familiarità con gli sviluppi dei fisici matematici del suo tempo; e forse questa fu ventura; perché, non influenzato dal pensiero di altri, cercò di tradurre in veste descrittiva e geometrica le idee che gli si presentavano attraverso le esperienze: descrisse lo spazio come popolato di linee e di punti di forza, e l'etere come trovantesi in una specie di "stato elettrotonico" o "di polarizzazione" per effetto dei corpi elettrici e magnetici che lo influenzano; descrisse l'"extracorrente" come un semplice fenomeno d'inerzia della corrente elettrica anziché come un risultato complicato di forze elettromotrici dovute all'induzione di un circuito su sé stesso; e investigò a lungo le proprietà dei dielettrici materiali, riguardando ognuno di essi in prima approssimazione come modificazione dell'etere libero.
Le idee teoriche di Faraday, necessariamente incomplete e non precise, attrassero poco l'attenzione dei contemporanei, ma furono raccolte da James Clerk Maxwell, a cui servirono come primo nucleo e come incitamento per costruire uno schema teorico grandioso, che fu esposto nelle due edizioni del suo Treatise on Electricity and Magnetism (1873 e 1881). Maxwell precisò e tradusse in equazioni le proprietà attribuite al campo elettromagnetico, e con idea geniale aggiunse una concezione nuova, quella di corrente dielettrica, per effetto della quale la trasformazione della teoria, in confronto alle concezioni classiche, fu sostanziale e non solamente formale. Egli volle cioè riguardare come corrente elettrica anche una variazione qualunque del campo elettrostatico in seno a un dielettrico; osservò che tenendo conto di questa corrente, tutti i circuiti si chiudono, e il movimento dell'elettricità diviene come quello di un fluido incompressibile che ritorna su sé stesso. La nozione di "elettricità" non coincide più con quella di elettrizzazione, l'elettricità può muoversi in tre modi, e come convezione e come conduzione, e infine sotto forma di corrente dielettrica; quelle correnti che i fisici precedenti riguardavano come aperte divengono invece correnti che si completano e si chiudono attraverso il dielettrico, sia esso etere o dielettrico materiale. E l'ipotesi fondamentale di Maxwell, che dà portata fisica concreta a tutta questa concezione è che la corrente dielettrica, al pari di quella di convezione, sia capace degli stessi effetti magnetici che si riscontrano prodotti dalle correnti di conduzione.
Da questa ipotesi segue una conseguenza di enorme portata: le azioni elettromagnetiche si propagano non istantaneamente, ma con velocità finita, che il calcolo dimostra dover avere il valore c = 3•108 metri al secondo, quindi essere eguale a quella della luce. Il campo elettromagnetico può dunque esistere e mantenersi e propagarsi, come entità fisica a sé, anche quando è cessata la causa che lo ha prodotto; può propagarsi sotto forma di onde periodiche, e il calcolo condusse Maxwell a concludere che queste onde avrebbero avuto le stesse proprietà qualitative e quantitative di quelle luminose. Con tranquilla fiducia il fisico di Cambridge poté dunque concludere che le onde luminose non sono altro che onde elettromagnetiche. II fenomeno della rifrazione si spiega con la diversa velocità che la propagazione elettromagnetica deve avere nei corpi materiali trasparenti, a causa della diversa costante elettrica degl'isolanti materiali in confronto dell'etere libero. Il fenomeno stesso dell'opacità dei metalli, e quello dei corpi opachi che esposti al sole si riscaldano, si spiegano con l'effetto Joule delle correnti indotte che la radiazione luminosa provoca nelle particelle conduttrici.
Con questo l'ottica diventava un ramo dell'elettromagnetismo, e si risolveva una difficoltà fondamentale che era apparsa insormontabile ai creatori dell'ottica fisica: la natura ondulatoria della luce era stata accertata attraverso i fenomeni d'interferenza e di diffrazione, fino dai principî del sec. XIX; ma questa ondulazione era stata concepita come una vibrazione meccanica di un mezzo elastico le cui particelle avrebbero compiuto varî movimenti geometrici; per spiegare i fenomeni di polarizzazione, questi movimenti vibratorî sarebbero stati trasversali, cioè nel piano d'onda, e non longitudinali (cioè in direzione del raggio) come quelli delle onde sonore ordinarie; e questa concezione era incompatibile con quella d'un etere fluido, ed esigeva l'ipotesi d'un etere solido-elastico e con grandissimo coefficiente di rigidità per render conto della velocità della luce così elevata come si riscontra nell'esperienza; e l'etere rigido era incompatibile con la libera mobilità assoluta che hanno i corpi materiali attraverso di esso, e col fatto pure accertato che i corpi celesti non mettono in moto l'etere ambiente; e non era sufficiente enunciare l'ipotesi della compenetrabilità illimitata dei corpi materiali con l'etere, perché non conciliabile con le proprietà meccaniche attribuite all'etere stesso, e col fatto che gli atomi per far vibrare l'etere avrebbero dovuto aver presa su di esso. Tutte queste contraddizioni venivano risolute d'un tratto con la concezione di Maxwell secondo cui la perturbazione trasversale che avviene nel piano d'onda della luce è una perturbazione elettromagnetica e non un movimento geometrico di particelle dell'etere; e il legame fisico fra i successivi strati dell'etere, per cui la perturbazione trasversale avvenuta in un piano provoca una perturbazione conseguente in un piano successivo, non è un legame meccanico-elastico, ma una reazione elettromagnetica.
La teoria di Maxwell rispondeva al quesito fondamentale proposto da Gauss, di descrivere l'insieme delle azioni elettriche e magnetiche come propagantisi nel tempo attraverso lo spazio; le sue formule fondamentali non erano nelle forme preconizzate da Gauss, di cui già abbiamo detto, ma erano ad esse equivalenti.
Come forma matematica di presentazione, la teoria di Maxwell si esprimeva partendo da equazioni differenziali, atte a rappresentare le proprietà del campo, per contrapposto alle equazioni finite, usate dai fisici precedenti per esprimere le mutue azioni a distanza dei corpi elettrizzati e magnetizzati.
E coerentemente a questa impostazione, Maxwell indicava la localizzazione dell'energia nel campo elettromagnetico, anziché sulle cariche elettriche e magnetiche e sugli elementi di corrente. Ma non basta dire questo per esprimere la differenza sostanziale fra la sua teoria e le precedenti. In veste matematica, la differenza importante è questa, che nelle equazioni maxwelliane interviene fra le variabili indipendenti il tempo; mentre se le teorie precedenti fossero state tradotte in equazioni differenziali, vi avrebbero figurato solamente come variabili indipendenti le coordinate di spazio.
Nel concetto maxwelliano dunque, tradotto da equazioni di questo tipo, il mezzo ambiente dielettrico anche quando è costituito da spazio libero, è la sede principale di tutti i fatti elettromagnetici. I conduttori, in un campo elettrostatico, non avrebbero altra funzione che di vuoti o interruzioni del dielettrico: e ciò, secondo le idee di Maxwell, sarebbe in accordo col fatto che non la natura dei conduttori, ma quella del dielettrico, influisce sui risultati osservabili (per es. sulle capacità) e che quando il potenziale cresce oltre un certo limite, la rottura avviene nel dielettrico e non nei conduttori. Similmente, in una linea elettrica, l'energia sarebbe convogliata quasi interamente nel dielettrico ambiente e non nei fili conduttori, i quali avrebbero solamente la funzione di guida centrale. La concezione teorica nelle sue ultime conseguenze viene lumeggiata pensando al caso limite o ideale di un conduttore perfetto, o corpo di conducibilità infinita; perché la teoria mostra che questo corpo funzionerebbe come un "perfetto ostruttore", cioè come una barriera insormontabile per qualunque propagazione elettromagnetica; tanto che se un ambiente venisse interamente circondato da una parete ideale di questa natura, nessuna azione esterna potrebbe penetrare nell'interno, e reciprocamente.
E con questo, abbiamo detto della trama essenziale della teoria di Maxwell, sopravvissuta attraverso gli autori posteriori e che tuttora viene riguardata come lo schema teorico più naturale e più adatto per l'elettrofisica macroscopica e per le sue applicazioni.
L'autore inglese, però, influenzato dallo spirito "meccanicista" che dominava i fisici di allora, volle andare oltre, nel senso di marcare modelli meccanici, e spiegazioni che riconducessero a fenomeni meccanici i fatti elettromagnetici. È un avviamento a questo ordine di idee la sua mirabile, ma non feconda, teoria dinamica dell'elettromagnetismo, esposta nel secondo volume del suo Treatise; in questi capitoli, con inatteso ardimento, egli si chiede se l'insieme delle relazioni elettromagnetiche sarebbe d'accordo con l'ipotesi astratta d'un meccanismo nascosto e non precisato, tale che quella che chiamiamo energia magnetica sarebbe energia cinetica di questo meccanismo, e quella che chiamiamo elettrostatica sarebbe energia potenziale. Traducendo in calcolo questa ipotesi e applicando le equazioni dinamiche di Lagrange che valgono per lo studio dei meccanismi nascosti, egli ottenne risultati d'accordo con quelli che si deducono dalle equazioni elettromagnetiche. Il risultato impressionò molto i contemporanei, e, come primo esempio, servì a provare che i sistemi elettromagnetici possono venire discussi in equazione coi metodi e con le formule della meccanica analitica; ma non altro. La teoria dinamica maxwelliana dell'elettromagnetismo non è necessaria, né particolarmente utile, nemmeno come mezzo di calcolo, per determinare le forze elettromotrici e ponderomotrici nei sistemi effettivi.
Più oltre, in questo ordine di idee, Maxwell credette additare che le azioni ponderomotrici elettriche e magnetiche, sono l'effetto di tensioni e pressioni meccaniche, cioè di sollecitazioni interne che esisterebbero nell'etere e si trasmetterebbero lungo le linee di forza; precisamente questa sollecitazione, detta stress maxwelliana, consisterebbe in una tensione lungo le linee di forza (elettriche o magnetiche) e in un'eguale pressione in ogni senso normale; di guisa che esse linee si comporterebbero come filamenti elastici che tendono a contrarsi e a rigonfiarsi insieme, comprimendosi reciprocamente. Questa concezione ha il valore di un modello meccanico, che si può utilizzare, benché senza grande vantaggio, per calcolare le forze ponderomotrici; ma che non corrisponde, come Maxwell aveva creduto, a una realtà fisica sostanziale.
Infine Maxwell tentò di dare un modello meccanico completo del campo elettromagnetico; ma i tentativi non furono nemmeno per lui soddisfacenti, e non furono inclusi nel suo trattato.
All'opera di Maxwell si riconnette quella di W. Thomson (Lord Kelvin), il cui contributo all'edificio delle varie teorie elettriche è molto maggiore di quanto non possa apparire attraverso questo riassunto sommario. Non solamente il Thomson completò la teoria di Weber sulle unità elettriche e la avviò all'applicazione, non solamente legò il suo nome a teoremi fondamentali sulla matematica dei campi elettrici e sull'energia dei sistemi elettrostatici ed elettromagnetici e sulla propagazione nelle linee, ma si deve a lui la distinzione tra il vettore induzione e il vettore forza magnetica nell'interno dei corpi magnetici, e quindi la prima base matematica della teoria del campo magnetico utilizzata da Maxwell. E anche il Thomson compì un tentativo ingegnoso ma infruttuoso di spiegare le azioni elettromagnetiche per mezzo di un modello meccanico fondato su un supposto etere girostatico.
La fine immatura impedì al Maxwell di completare la sua teoria attraverso la successiva edizione del suo trattato nella quale i primi capitoli solamente furono scritti da lui ex novo, e anche queste con l'intento di esporre le teorie precedenti anziché la propria. Le idee maxwelliane, così contrarie allo spirito informatore delle costruzioni elettromatematiche d'allora, non potevano incontrare facile accoglienza presso i contemporanei e solamente le parti meno essenziali e meno vitali della sua esposizione furono seriamente studiate; l'idea della corrente dielettrica non si accettava volentieri, e la previsione delle onde elettromagnetiche era considerata quasi una fantasia da visionario, senza rapporti con la realtà. Per qualche tempo G. F. Fitzgerald, O. Lodge, J. H. Poynting, J. Larmor e altri seguaci poco numerosi ne divulgarono le idee. O. Heaviside più a fondo di tutti gli altri, le fece proprie; e le sottopose a revisione, portandole oltre e rifondendole in un'esposizione teorica nuova, che fu pubblicata in una serie di articoli dal 1887 al 1891, e quindi riassunta nel primo volume della sua Electromagnetic Theory apparsa nel 1893. Non senza ragione abbiamo a principio di questo paragrafo, associato il nome di Heaviside alla teoria delle azioni mediate, o teoria del campo, che qui vogliamo esporre; poiché se Faraday diede l'avviamento, se Maxwell ebbe l'idea della corrente dielettrica e previde le propagazioni elettromagnetiche, e mise in formula la teoria, l'esposizione fatta da Maxwell era però lungi dall'essere completa, definitiva o esente da errori. Le nuove equazioni che egli addita sono ancora complicate e risentono troppo degli schemi premaxwelliani, e sono anche mancanti di qualche termine. Solamente Heaviside ha portato a fondo le idee maxwelliane, e le ha fuse in uno schema coerente e semplice; ed è lo schema di cui qui daremo conto, con le non molte modificazioni e semplificazioni che sono suggerite dallo stato delle cognizioni odierne. Tratti fondamentali dell'opera di Heaviside furono: il principio di dualità fra relazioni elettriche e magnetiche; la distinzione fisica netta fra il vettore induzione e il vettore forza, tanto per l'elettricità quanto per il magnetismo, e tanto nei dielettrici materiali quanto nell'etere libero; il riconoscimento conseguente che le due costanti dell'etere si devono considerare come grandezze fisiche concrete e non come numeri puri; la formulazione chiara delle due equazioni circuitali come equazioni fondamentali dell'elettromagnetismo; l'aver introdotto in conto esplicito le forze elettriche e forze magnetiche impresse, l'aver riconosciuto le due forze di origine mozionale, una delle quali era stata omessa da Maxwell; infine l'aver posto la teoria delle unità elettriche in nuova forma, collegandola a punti di vista nuovi; oltre a molti cambiamenti formali che si collegano intimamente alla nuova concezione teorica.
Nel 1892 Heaviside aveva appena completato la sua esposizione teorica, che H. Hertz, annunciava di aver ottenuto in laboratorio le onde elettromagnetiche previste da Maxwell, e con risultati del tutto coincidenti con la previsione maxwelliana. Alla pubhlicazione dei risultati sperimentali fece seguire uno schema teorico, dove esponeva equazioni analoghe a quelle di Heaviside, per quanto meno complete. Ingiustamente e inesattamente le equazioni del campo elettromagnetico vengono spesso citate come equazioni di Hertz, e nella forma da lui data, quantunque il fisico tedesco sin da principio abbia riconosciuto la priorità di Heaviside. I meriti di Hertz, per la sua dimostrazione sperimentale delle onde, e per aver insegnato a ottenere le onde elettromagnetiche dai circuiti e aver quindi aperto tutto il campo delle applicazioni successive, e per tanti altri suoi contributi teorici, sono così grandi che non hanno bisogno di questa aggiunta.
Dopo gli esperimenti di Hertz la teoria di Maxwell fu discussa da tutti; male compresa e male apprezzata ancora per qualche tempo, specialmente da chi non aveva seguito Heaviside, tanto che ancora verso il 1900 H. Poincaré insegnava che il tratto più importante della costruzione maxwelliana era la teoria dinamica dell'elettromagnetismo, ha gradatamente penetrato lo spirito dei fisici.
Un'altra teoria quasi parallela, che è però quasi una sintesi delle antiche teorie fu ideata da Helmholtz; e invano difesa da P. Duhem che nel 1902 tentò una vana critica demolitrice dell'opera maxwelliana.
Le opere di volgarizzazione e le nuove esposizioni teoriche furono numerose intorno al 1900: così quelle di Föppl, di Wiechert, di Cohn, di Abraham, di Drude, e simili. In parte sono cambiamenti di forma, che non raggiungono la perfezione dello schema di Heaviside; in parte sono complementi e sviluppi importanti; in parte riguardano ulteriori capitoli dell'elettrofisica, di cui daremo conto più oltre
Ecco dunque lo schema matematico della teoria delle azioni mediate, nella forma migliore in cui possiamo concepirlo oggi.
Col nome di dielettrico si designa un mezzo qualunque capace di propagare le azioni elettriche e magnetiche. Il dielettrico fondamentale è l'etere, cioè lo spazio vuoto di materia ordinaria; e questo spazio viene concepito come un mezzo fisico, capace d' immagazzinare energia, quando è assoggettato a particolari perturbazioni o deviazioni dallo stato naturale, che costituiscono il campo elettromagnetico. I dielettrici materiali vengono computati come mezzi che differiscono dall'etere libero per l'alterazione di alcune eostanti fondamentali, e per eventuale presenza di certe cause che vengono computate come forze elettriche e magnetiche impresse. Oltre ai dielettrici vi sono i conduttori, in cui si presenta una proprietà nuova, la conducibilità, e che possono divenire sedi di cariche, ma nei quali non è possibile un campo elettrostatico.
Tanto Maxwell quanto Heaviside hanno messo bene in evidenza che questo schema, mentre è rigoroso per l'etere libero, è bensì del tutto semplicista come modo di riguardare i corpi materiali; ma è il più adatto per la fisica macroscopica; le leggi e le spiegazioni intime di tanti fenomeni complicati che avvengono nella materia restano al difuori della portata di questa teoria, come restavano al difuori (lo abbiamo già detto) dell'ambito delle teorie precedenti.
Premesso questo, lo stato di perturbazione elettrica in un punto del campo è espresso da un vettore Q, quello di perturbazione magnetica da un vettore B. Questi due vettori si chiamano induzione elettrica e magnetica rispettivamente: ad ogni variazione del vettore varia l'energia elettrica immagazzinata nel campo, e dicendo BW la variazione dell'energia per unità di volume, e scrivendo
resta definito un vettore H, che si chiama forza elettrica. Similmente a ogni variazione del vettore B corrisponde una variazione dell'energia magnetica immagazzinata nel campo, e scrivendo un'altra equazione
resta definito un altro vettore H detto forza magnetica. La denominazione di "forza" per questi due vettori non deve intendersi nel senso che siano forze ponderomotrici, cioè meecaniche, bensì nel senso lagrangiano generalizzato.
Le "forze" E, H, devono considerarsi come cause del campo, i vettori Q, B, come effetti che misurano la perturbazione ottenuta. In un mezzo materiale qualunque, i secondi vettori sono funzioni qualunque dei primi, e talvolta non solo dei valori attuali ma anche di quelli precedenti (fenomeno dell'isteresi). In un mezzo isotropo e semplice come l'etere, si ha una relazione di proporzionalità
dove ε, μ denotano due costanti fisiche del mezzo, la costante dielettrica e la costante magnetica. Queste costanti misurano l'attitudine che ha il mezzo d'immaganizzare energia quando è sottoposto a una forza elettrica o magnetica data. In questi mezzi isotropi si ha infatti
e quindi
donde appare che ε, μ, hanno ufficio analogo a quello di costanti di cedevolezza in un sistema elastico.
Quando il campo è variabile, le rapidità di variazione dei vettori Q, B, cioè
si chiamano corrente elettrica e corrente magnetica specifica nel mezzo. La derivazione è indicata col δ, perché deve farsi a coordinate ferme.
Nel dielettrico i vettori Q, B, quindi anche i vettori Q???, B???, sono sempre solenoidali, cioè distribuiti con la stessa legge della velocità d'un fluido incompressibile. Cioè si ha
e analoghe equazioni per Q, B.
Nuovi fenomeni si presentano nei conduttori elettrici. Anche nel loro interno si lascia definire con metodi opportuni la forza elettrica E, e l'esperienza prova che quando una E agisce, non avviene immagazzinamento, bensì dissipazione di energia, cioè trasformazione in calore. Questa dissipazione è collegata a un nuovo vettore I, che si chiama corrente di conduzione (specifica, cioè riferita all'unità di area). L'energia dissipata nell'unità di tempo e nell'unità di volume ha il valore
Nei conduttori metallici, isotropi, e dove non intervengano fenomeni speciali, i due vettori E, I, sono diretti per lo stesso verso, e proporzionali fra loro; e scrivendo
la costante fisica γ si denomina conducibilità, mentre la sua reciproca γ-1, denotata anche con la lettera ρ, prende il nome di resistività, della materia conduttrice, nel punto considerato. E ne segue la legge di Joule, specifica, nella triplice forma
Secondo fenomeno è quello dell'elettrizzazione. Un corpo conduttore isolato può acquistare tale condizione, che la divergenza totale del vettore Q cioè il flusso totale del vettore Q che da esso esce non sia nullo (come lo è sempre per i corpi dielettrici); il valore di questo flusso si chiama allora carica elettrica, e s'indica con q. Immaginando che un numero qualunque di corpuscoli conduttori elettrizzati sia distribuito nel volume di un dielettrico, la carica complessiva per unità di volume si chiama densità di elettrizzazione o densità elettrica, e si denota comunemente col simbolo ρ (da non confondere con lo stesso simbolo, usato per la resistività elettrica). E si ha, in conseguenza di quanto s'è definito
Ovvero questa formula si può, in sostituzione di quanto s'è detto, considerare come definizione di ρ. In un dielettrico senza particelle conduttrici, così nello spazio vuoto, ρ = o e si ricade nella formula div Q = 0.
Allorquando la materia elettrizzata si muove, con velocità w, si chiama corrente (specifica) di convezione il prodotto
Le tre correnti di spostamento, di conduzione e di convezione, hanno gli stessi effetti fisici: sommandole (vettorialmente), si ha in
la cosiddetta corrente totale. Beninteso le sue tre componenti non esistono simultaneamente, a meno che non s'immagini un mezzo composto in maniera speciale e con la formula s'intende che S è eguale all'uno qualunque di quei tre termini presente in ogni singolo punto.
Il tratto essenziale della teoria maxwelliana è l'assumere in evidenza questo vettore S e il ritenere che da esso, e non da uno o l'altro dei suoi componenti, dipendono tutti gli effetti elettromagnetici. Essenzialmente, il Maxwell ha riconosciuto che questo vettore non solo gode incondizionatamente della proprietà solenoidale, cioè
ma, ciò che è più, S è circuitale, cioè si distribuisce sempre in circuiti chiusi: le linee di corrente, che seguono l'andamento di S sono linee chiuse: ciò dipende dal fatto che la legge solenoidale è soddisfatta senza eccezione, e che, a sufficiente distanza, S si annulla (o almeno diviene infinitesimo, in guisa che il flusso di S uscente da una sfera qualunque tende a zero col crescere del raggio e col restar fermo il centro.
L'ultima equazione scritta è strettamente collegata con l'equazione di continuità (non scritta esplicitamente da Maxwell e da Heaviside), la quale esprime la conservazione delle cariche elettriche sotto la forma
e questa è un'estensione dell'analoga legge della teoria antica.
Venendo ai fatti magnetici: Heaviside nello sviluppare la teoria macroscopica dei fenomeni, insiste sulla dualità fra elettricità e magnetismo, concetto già avanzato da A. H. Rowland e che del resto era implicito all'epoca delle prime teorie coulombiane. Nel magnetismo non si presenta un fenomeno di conduzione, né uno di carica magnetica, e quindi nemmeno una corrente di convezione: ma, senza rinunciare alla dualità, basta asserire che nei corpi finora conosciuti l'equivalente magnetico di γ è sempre nullo. Si fa luogo a definire una corrente magnetica totale Z corrispondente dualmente alla S, ma essa (consiste nel solo primo termine, cioè coincide con la B definita sopra
e anche questa Z, al pari di S, è illimitatamente solenoidale e circuitale.
Acquisiti così i concetti di corrente elettrica e corrente magnetica, si definiscono come spostamento elettrico elementare e spostamento magnetico elementare i prodotti delle rispettive correnti per il tempo; cioè (calcolando sempre come vettori specifici) le grandezze
La parola "spostamento" qui significa non spostamento nel senso geometrico, ma deviazione o alterazione dallo stato preesistente: nel dielettrico questi spostamenti coincidono con le variazioni dQ, dB, per cui i vettori Q, B si chiamano anche spostamento elettrico e spostamento magnetico, in quanto significano deviazione dallo stato neutro.
Per completare lo schema, Heaviside aggiunge questo: ogni sistema di fenomeni elettrici e magnetici è collegato fisicamente con altri fenomeni fisici, per cui accade uno scambio di energia tra i primi e i secondi; p. es., in una cella elettrolitica vi è trasformazione di energia chimica in elettrica o viceversa. Per tener conto di questi scambî, si deve introdurre in conto in ogni punto un vettore Ei col nome di forza elettrica impressa, e un vettore Bi col nome di forza magnetica impressa, tali che i loro prodotti scalari per qualunque ipotetico spostamento elettrico elementare o magnetico elementare (definiti come sopra) diano le rispettive energie comunicate al mezzo, in forma elettrica o magnetica, per unità di volume. Questi vettori sono essenziali per la teoria macroscopica; Maxwell li aveva omessi, e gli autori posteriori, da Hertz fino a Planck, li hanno pure omessi, o computati solo parzialmente. Esempî di forza elettrica impressa sono: quella voltaica, quella termoelettrica, quella piezoelettrica, e così via. Esempio di forza magnetica impressa si trova in quella che chiamiamo "intensità di magnetizzazione" dei magneti. Denotando questa con I, si scriveva, nel periodo di passaggio prima di Heaviside, come equazione caratteristica per l'interno di un magnete
e questa eia irrazionale perché era informata in parte ai concetti dello schema premaxwelliano, in parte a quelli nuovi.
L'equazione si scrive invece, mettendo in evidenza il diverso carattere fisico fra B da una parte, H e I dall'altra parte:
Per passare ora alle leggi elettromagnetiche, che costituiscono la parte culminante della teoria delle azioni mediate, è necessario precisare la piattafomia di riferimento, su cui si suppone collocato l'osservatore o il triedro coordinato. La scelta della piattaforma interviene in tutte le formule dove entra il simbolo δ/δt (derivazione fatta a coordinate fisse), perché questa operazione dà risultato diverso secondo il sistema di riferimento che si considera come fermo. Nelle equazioni scritte, si è presentato già questo simbolo, ma in formule di definizione o in altre in cui il cambiamento di piattaforma non portava differenza essenziale: per es., la corrente elettrica totale, riferita a piattaforma mobile, riesce diversa da quella riferita a piattaforma fissa, ma soddisfa alla medesima condizione di circuitalità. Con le leggi (67), (68) non è più lo stesso e dobbiamo presupporre l'esistenza di una piattaforma privilegiata ben determinata (fissa rispetto all'etere), tale che le equazioni elettromagnetiche sono valide rispetto a quella piattaforma e non rispetto ad altre. Questo è il postulato fondamentale della fisica prerelativista, su cui tanto Maxwell quanto Heaviside avevano fatto assegnamento senza metterlo in evidenza.
Ammettendo che questa piattaforma esista, e adottandola come riferimento, le leggi elettromagnetiche si riassumono, secondo Heaviside, in queste due, che prendono rispettivamente il nome di prima e seconda legge circuitale
La prima equivale a dire che lungo ogni linea chiusa, ferma rispetto alla piattaforma maxwelliana, agisce una "forza magnetomotrice indotta" eguale al flusso totale di corrente elettrica che attraversa una superficie qualunque, contornata da detta linea. La seconda asserisce la stessa relazione tra forza elettromotrice indotta e corrente magnetica. I segni delle due equazioni sono opposti, perché nel primo caso la relazione dei versi positivi è quella di una vite destra, nel secondo è quella di una vite sinistra. Per ulteriori notizie e deduzioni, v. elettromagnetismo.
Nella forma compendiosa e definitiva che Heaviside ha dato alla teoria maxwelliana, le formule (49), (50), (51), (55), (61), (67), (68) comprendono tutto lo schema matematico essenziale dell'elettrofisica macroscopica, per i mezzi fermi: e sono due equazioni energetiche, due equazioni di divergenza, un'altra che equivale alla legge di conservazione delle cariche, e due equazioni circuitali. L'autore inglese, seguendo le idee espresse da Maxwell, volle aggiungere tutta una serie di formule relative alle supposte sollecitazioni meccaniche nel dielettrico, e alle altre speculazioni che vi si connettono; ma questa parte è ora sorpassata.
Si noterà che le leggi che abbiamo riportato sono quelle fondamentali della teoria, scritte sempre in forma differenziale e specifica, cioè facendo intervenire i vettori che misurano le correnti per unità di area, le forze per unità di lunghezze, ecc.; e questa è la forma di presentazione che si addice naturalmente al punto di vista delle azioni mediate. Per le applicazioni, e per il confronto eon la teoria premaxwelliana, occorre sviluppare le conseguenze, e specialmente quelle che si traducono in relazioni integrali o concrete, non specifiche. Per lo sviluppo ulteriore daremo qualcuna delle deduzioni più importanti; per alcune altre v. elettromagnetismo.
Le forze ponderomotrici si ricavano tutte dall'equazione dell'energia. Un corpuscolo elettrizzato di carica q, immerso in un campo in cui il vettore forza elettrica sia E, subisce una forza meccanica
Un fittizio polo magnetico isolato, d'intensità m, come quelli considerati dalla teoria coulombiana, subisce in un campo in cui il vettore forza magnetica sia H, una forza meccanica
Un magnete permanente elementare reale, o particella magnetizzata, con momento magnetico M subisce uno sforzo meccanico, che consiste in una coppia
e in una forza di traslazione
dove ρ indica la direzione dell'asse del magnete.
La forza di trazione che si esercita lungo l'asse d'un magnete temporaneo o permanente (con cui le facce polari attirano una sbarra di ferro posta a contatto, ovvero anche la forza con cui due metà della sbarra supposta spezzata resisterebbero all'allontanamento), ha il valore
dove S è la sezione, μ è la permeabilità dell'etere libero.
Un elemento ids di conduttore percorso da corrente, immerso in un campo in cui il vettore induzione magnetica sia B subisce una forza meccanica trasversale
da cui si ricavano tutte le azioni ponderomotrici esercitate da magneti e da correnti su circuiti o elementi di circuiti che portano correnti.
Come caso più generale, che le formule della teoria antica non pervenivano a calcolare, se un sistema qualunque composto di circuiti elettrici, di magneti temporanei σ permanenti e di corpi dielettrici, si trova immerso in un campo qualunque, la forza ponderomotrice Q relativa a una coordinata generalizzata qualunque q è data da
dove W è l'energia totale elettrica e magnetica contenuta in tutto lo spazio, e la derivazione parziale s'intende fatta immaginando sospesa ogni somministrazione di energia al sistema che si muove e a quello che produce il campo (sospese quindi anche tutte le f. e. m. nei circuiti).
Per i ealcoli concreti (integrali) è utile l'intervento dei potenziali, che non figurano invece nelle formule differenziali fondamentali della teoria. In ogni campo dove sia nulla la corrente magnetica esiste un potenziale elettrico Ve tale che
In ogni punto dove sia nulla la corrente elettrica totale, esiste un potenziale magnetico Vm, tale che
Questi potenziali diventano multiformi quando il campo è attraversato da correnti lineari; cessano di esistere se le correnti sono ripartite nel volume. Oltre ai due potenziali scalari, si definisce anche un potenziale vettore dell'induzione magnetica, cioè un vettore tale che il suo integrale di linea, o circuitazione, lungo una qualunque linea chiusa è eguale al flusso d'induzione magnetica attraverso qualunque superficie che abbia quella linea come contorno. Dicendo A il potenziale vettore,
Queste relazioni, e altre che insegnano a calcolare i valori dei tre potenziali dovuti a un sistema qualunque in funzione dei suoi elementi componenti, permettono il passaggio alle formule delle comuni teorie premaxwelliane nei casi statici e quasi-statici più sempliei, a cui quelle teorie si limitavano.
Ma lo schema maxwelliano conduce, come abbiamo detto, a prevedere quanto avviene anche nel caso di campi rapidamente variabili. Come capisaldi tipici, citiamo i seguenti.
Anzitutto, il teorema trovato da Poynting, secondo cui in ogni punto d'un campo elettromagnetico esiste una corrente di energia, misurata da un vettore P (flusso di Poynting o vettore radiante), dato da
In secondo luogo, l'asserzione generale che qualunque perturbazione elettromagnetica in un mezzo dielettrico si propaga con velocità
e calcolando il valore di questa v per ogni singolo caso, si trova una velocità eguale a quella della luce nel mezzo dielettrico considerato.
In terzo luogo, è possibile una propagazione regolare permanente per onde, in tal guisa che in ogni piano d'onde siano un vettore E e un vettore H normali fra loro, e normali alla direzione della propagazione, e funzioni sinusoidali del tempo e della coordinata spaziale nel senso della propagazione.
Questi teoremi, fondamento della teoria elettromagnetica della luce e della conoscenza delle onde elettromagnetiche, hanno condotto alle esperienze di Hertz e a tutta la tecnica delle radiotrasmissioni.
Unità e sistemi dI misure in relazione alla teoria rinnovata. - Lo schema della teoria delle azioni mediate, come è già stato esposto, è naturalmente legato all'uso di un sistema assoluto razionalizzato di unità, che abbiamo senz'altro presupposto nello scrivere le formule, e i cui punti di comunanza e di differenza con gli antichi sistemi elettrostatico ed elettromagnetico sono i seguenti:
1. si continua ad assumere come numero puro, e a porre eguale all'unità, la costante di collegamento tra fenomeni elettrici e magnetici; qualora non si volesse fare così, questa costante figurerebbe come fattore ne! le due relazioni circuitali;
2. si rinuncia invece a considerare come prive di dimensioni fisiche le costanti elettrica e magnetica dell'etere, o di qualsiasi altro mezzo, e si ammette esplicitamente che nelle dimensioni fisiche delle grandezze elettriche e magnetiche entra una quarta dimensione fondamentale oltre [L], [M], [T];
3. le intensità d' una carica elettrica e d' un polo magnetico s'intendono misurate dal totale flusso prodotto, e non dall'induzione prodotta a distanza uno; quindi le grandezze dei vettori forza elettrica o forza magnetica rispettivamente prodotti a distanza r in un mezzo omogeneo indefinito con costanti fisiche ε, μ sono
il divisore 4πr2 corrispondendo alla superficie della sfera su cui il flusso si ripartisce. La regola per il passaggio alle formule di Coulomb è evidente.
Questo modo di computare conduce: a mettere in evidenza le costanti fisiche elettriche e magnetiche in quelle formule dove l'antico modo di scrivere le faceva alternativamente scomparire ponendole eguali all'unità; a riguardare come grandezze fisiche diverse, anche nell'etere libero, B e B e similmente Q e E; a fare sparire il 4π da tutte le relazioni che non riguardano sfere e ripartizioni sferiche. E la dualità riesce completa. Non solamente la f. e. m. indotta da una corrente magnetica concreta (derivata del flusso magnetico rispetto al tempo) coincide con la corrente stessa, ma anche la forza magnetomotrice dovuta a una corrente elettrica concreta ha la stessa misura della corrente, senza il coefficiente 4π.
Come realizzazione pratica abbiamo il sistema definitivo, o sistema assoluto M. K. S. (metro, chilogrammo-massa, secondo), il quale comprende le cosiddette unità pratiche di elettricità. Queste unità pratiche erano prima state introdotte come multipli o sottomultipli delle unità C. G. S. elettromagnetiche; si è poi riconosciuto che formano sistema assoluto col metro, col chilogrammo e col secondo. In questo sistema, l'unità di lavoro è il joule, l'unità di potenza è il watt, l'unità di carica elettrica o di quantità di elettricità è il coulomb, l'unità di corrente elettrica è l'ampère, l'unità di f. e. m. è il volt, l'unità di resistenza elettrica è l'ohm, l'unità di polo magnetico, coincidente con quella di flusso magnetico è il weber (= volt-secondo), l'1mità di f. m. m. è l'ampère-spira o ampère senz'altro, l'unità di capacità elettrica è il farad, l'unità di autoinduzione coincidente con quella d'induttanza di circuito magnetico è il henry; e così via.
Questo sistema è l'unico che, pur conducendo a formule razionali, dualistiche, adatte per le esigenze della teoria macroscopica maxvelliana, mantiene tutte unità di valore conveniente per la pratica, e coincidenti con quelle usate dagli elettrotecnici. In esso, la costante elettrica dell'etere libero ha il valore
e quella magnetica ha il valore
Questi valori, fisicamente, misurano il doppio dell'energia immagazzinata in un metro cubo di etere quando tra le facce opposte agisce la f. e. m. di un volt, o la f. m. m. di un ampère rispettivamente: e la loro esiguità mostra che l'etere si comporta come un corpo estremamente "reluttante" a caricarsi di energia quando viene sottoposto a sollecitazioni elettromagnetiche di grandezza paragonabile a quella che noi adoperiamo nella vita pratica. La velocità delle propagazioni elettromagnetiche, nel vuoto, risulta
conforme ai risultati dell'esperimento fatto tanto con le onde marconiane quanto con la luce.
Teoria di Maxwell-Heaviside applicata ai sistemi mobili. - Per trattare il caso in cui il mezzo sia in moto rispetto agli assi di riferimento, Heaviside ha insegnato a completare le leggi circuitali tenendo conto di due forze impresse mozionali, di cui l'una magnetica, eguale al vettorprodotto dell'induzione elettrica nella velocità u del mezzo, l'altra elettrica duale alla prima, con inversione del segno.
Le equazioni circuitali si scrivono allora così
Maxwell aveva già scritto un equivalente delle (85), tenendo conto della forza mozionale elettrica; e le formule, così incomplete, conducevano a conseguenze erronee, mantenute dalla maggior parte degli autori posteriori. La correzione del Heaviside elimina la dissimmetria e l'errore.
Ma nemmeno Heaviside ha avuto un'idea precisa dei limiti di applicabilità delle (85). In realtà le (85) valgono quando il mezzo tutto intero (etere + materia) si muove rispetto agli assi, il che vuol dire quando invece degli assi di Maxwell legati con l'etere si adottano assi mobili (in moto uniforme o quasi uniforme rispetto ai primi). Se si vuol fare però l'ipotesi di materia che scorre rispetto all'etere, resta incerto quale sia la velocità u da introdurre in equazione, o quali altri termini correttivi siano da aggiungere. Sappiamo solo che quando si tratti di materia conduttrice, la velocità di essa materia è quella che determina la f. e. m. indotta. Ma questo non basta per risolvere in modo completo tutti i problemi relativi a sistemi in moto, anzi nemmeno tutti quelli dove figurano solamente conduttori e spazio libero. Occorrerebbe, oltre che completare le equazioni (85), scrivere anche le "equazioni di passaggio", da applicare alla superficie di separazione di due mezzi diversi. Si veda nella voce elettromagnetismo un elenco di paradossi e di quesiti insoluti che dipendono da questa mancanza.
Dopo di lui Hertz tentò una teoria dei mezzi mobili, assumendo che nelle (85) quando il mezzo è etere libero, la u deve denotare la velocità dell'etere, ma quando vi è insieme etere e materia, sia pure aria estremamente rarefatta, interviene in equazione la velocità della materia solamente. Quest'ipotesi antinaturale fu presto smentita dalle esperienze.
Altre teorie matematiche o altre ipotesi sui fenomeni che avvengono nei sistemi mobili furono date da J. Larmor, da E. Wiechert, da H. Cohn, da M. Planck e da altri autori, ma non furono vitali. Alcune di esse presupponevano anche movimenti interni dell'etere, connessi o no con quelli della materia. La discussione ulteriore sui mezzi mobili si collega con la microfisica lorentziana e con la teoria di relatività, e ne diamo notizie qui appresso. Fin da ora però si deve rilevare che un'estensione completa delle equazioni dell'elettrofisica macroscopica ai sistemi mobili non è stata a tutt'oggi ottenuta.
Elettrofisica di Lorentz. - Si può dire che la fisica dell'etere con l'opera teoretica di Maxwell e di Heaviside e con la dimostrazione sperimentale data da Hertz era definitivamente fondata; ma restava da approfondire quella dei corpi materiali. Come la teoria dell'etere ebbe per caposaldo la corrente di spostamento, così quella della materia si sviluppa dalla considerazione della corrente di convezione.
Si deve al fisico olandese H. A. Lorentz questo nuovo sviluppo che è venuto a costituire la cosiddetta "teoria elettronica".
I germi della teoria elettronica stanno già nelle conoscenze dell'elettrolisi, acquisite da Faraday, secondo cui la corrente negli elettroliti consiste in un trasporto di granuli elettrizzati, tutti di carica eguale, salvo il segno positivo o negativo. Da questa prima nozione è venuta gradualmente l'ipotesi che anche le correnti di conduzione potrebbero essere spiegate mediante movimento di granuli analoghi nell'interno dei conduttori; si è anche stati condotti a supporre che l'elettrizzazione della materia (notiamo bene, l'elettrizzazione, e non l'elettricità in genere secondo il concetto maxwelliano, quale si rivela nelle correnti di spostamento attraverso l'etere) sia costituita atomicamente: e allora un corpo sarebbe elettrizzato quando possiede un eccesso di granuli positivi sui negativi o viceversa. A questi granuli elementari fu dato poi (da J. Stoney) il nome di elettroni, e quando occorra distinguere, si dicono ora più propriamente elettroni quelli negativi, protoni quelli positivi.
Queste idee divennero schema matematico preciso in un opuscolo memorabile che Lorentz pubblicò a Leida nel 1895 col titolo Versuch einer Theorie der elektrischen und optischen Erscheinungen in bewegten Körpern. L'autore olandese qui ebbe in proposito di dare una spiegazione unitaria dei fenomeni nei mezzi mobili; ma nel seguire questo intento fu indotto a portare lo studio nell'interno della materia, e a sostituire allo schema maxwelliano che era semplicista e macroscopico, una rappresentazione del comportamento della materia in base ai suoi elementi costitutivi, e questo costituì appunto il primo schema di quella che ora si dice teoria elettronica. Veramente Lorentz non descrisse la materia come composta di elettroni, ma riferì i fenomeni della materia ai movimenti degli ioni cioè dei granuli materiali elettrizzati. Ma la teoria fu presto condotta oltre. L'esperienza e il calcolo teorico combinati insieme mostrarono che nelle scariche catodiche e nei raggi beta emessi dai corpi radioattivi, s'incontrano granuli elettrici negativi tutti eguali, e che questi granuli mostrano di essere privi di supporto materiale e che la loro inerzia meccanica si presenta come una conseguenza delle reazioni del campo elettromagnetico che li accompagna (meccanica elettronica di Max Abraham). Similmente nelle scariche anodiche o raggi canale, e nei raggi alfa emessi per radioattività, s'incontrano altri corpuscoli positivi, pure tutti eguali e aventi carica eguale agli elettroni e proprietà eguali, salvo il segno e salvo la massa (inerzia meccanica) che è circa 1845 volte maggiore; e questi corpuscoli furono considerati come i granuli positivi elementari o protoni, senza preoccuparsi della questione (finora solamente formale) se ognuno di essi sia pure granulo elettrico o abbia un cosiddetto supporto inerte di altra natura. Fu infine riconosciuto che il nucleo dell'atomo d'idrogeno (cioè, come si dice, l'atomo d'idrogeno ionizzato, ovvero privo dell'elettrone periferico) è un protone; e che tutti gli altri atomi si risolvono in elettroni e protoni.
Attraverso queste nozioni, la teoria ionica divenne appunto teoria elettronica, che nei lavori ulteriori del Lorentz e dei suoi seguaci ha ricevuto assetto definitivo.
I principî della nuova teoria sono quelli stessi di Maxwell-Heaviside, con queste ipotesi ulteriori: 1. esiste un solo dielettrico, cioè un solo mezzo attraverso cui si trasmettono le azioni elettromagnetiche, e questo è l'etere; 2. l'etere esiste ovunque, anche nel seno dei corpi materiali, ed è con essi illimitatamente penetrabile; 3. l'etere, dal punto di vista cinematico, si comporta come un mezzo geometricamente invariabile: non esistono moti interni nell'etere; 4. l'etere, come non è suscettibile di movimento, non può essere sollecitato da forze meccaniche; 5. non esiste altra materia se non gli elettroni positivi (protoni) e negativi; 6. ogni atomo neutro è composto di protoni e di elettroni in pari numero; 7. non esistono correnti di conduzione; quelle che macroscopicamente appaiono come tali sono correnti di convezione, dovute a elettroni liberi o semiliberi che si muovono nell'interno di quei materiali che chiamiamo conduttori; 8. quei corpi che macroscopicamente si comportano come dielettrici materiali possono in prima approssimazione essere considerati come composti di molecole nelle quali esistono elettroni (o ioni, cioè gruppi non neutri) legati "elasticamente" al resto della molecola, cioè trattenuti da forze di richiamo; 9. le "forze impresse" elettriche e magnetiche di cui Heaviside ha ammesso l'esistenza nell'interno dei corpi materiali, scompaiono quando si riguardi la materia microscopicamente; 10. la magnetizzazione dei corpi materiali è dovuta a correnti amperiane nelle molecole, e queste correnti sono costituite da elettroni che ruotano in orbite orientate o orientabili (cosiddetti elettroni di magnetizzazione); 11. tutte le forze meccaniche che si esercitano sulla materia sono forze ponderomotrici che il campo elettromagnetico esercita sugli elettroni; 12. l'inerzia della materia è tutta dovuta all'inerzia elettromagnetica degli elettroni positivi o negativi; 13. ogni elettrone è un'unità indistruttibile. È da notare che Lorentz col postulato 4. rinunciava risolutamente all'ingombrante ipotesi maxwelliana delle tensioni e pressioni interne nell'etere; e ammettendo cne il campo elettromagnetico, cioè l'etere, esercita forze meccaniche sulla materia, e questa non le esercita sull'etere, rinunciava al principio d'azione e reazione.
Questa teoria si traduce, per ciò che interessa l'elettrofisica, in un sistema di equazioni microscopiche, cioè valevoli per un osservatore il quale si supponga capace di rilevare, punto per punto, ciò che avviene nel campo fra atomo e atomo, fra elettrone ed elettrone. Queste si ottengono dalle equazioni macroscopiche sopprimendo i termini di conduzione. le forze elettriche e magnetiche impresse, e prendendo in luogo delle ε, μ variabili da mezzo a mezzo, i loro valori nell'etere libero. Degli elettroni conviene tener conto nelle formule come se la loro densità elettrica fosse distribuita in modo continuo, e continuando a far figurare questa densità col simbolo ρ. Un'ulteriore semplificazione di forma si ottiene considerando che, poiché l'unico mezzo elettromagnetico è l'etere libero, i due vettori H, B sono rigorosamente proporzionali fra loro, e conviene sostituirli con un vettore solo che si dirà vettore magnetico M; similmente i due vettori E, Q si sostituiscono con un unico vettore elettrico E. Affinché queste due posizioni siano compatibili, è necessario o adottare la velocità della luce come unità di velocità, o ripristinare nelle formule circuitali il coefficiente elettromagnetico, ponendolo eguale a 1/c, cioè all'inverso della velocità della luce: si ha così il sistema di unità di Lorentz, che è analogo a quello di Gauss-Hertz, ma razionalizzato. Questo sistema è il più adatto per le formule delle teorie moderne, mentre non converrebbe nella fisica macroscopica e nelle applicazioni pratiche. In questo sistema, le equazioni microscopiche di Lorentz si scrivono così, rispetto a una piattaforma fissa con l'etere e indicando con ω la velocità degli elettroni:
mentre l'equazione di continuità, cioè
è una conseguenza della seconda e terza di queste equazioni combinate insieme. In luogo delle equazioni energetiche basta aggiungere quella che dà la forza ponderomotrice sugli elettroni, e che si riduce alla forma semplicissima
il prímo termine rappresenta (per unità di volume) la forza elettrostatica, il secondo la forza trasversale o deviatrice che il campo magnetico esercita sull'elettrone in moto, equivalente a un elemento di corrente.
In tutto sono cinque equazioni fondamentali da cui si deduce ogni altra legge elettromagnetica. Inoltre: se da queste equazioni microscopiche in cui figurano le grandezze intramolecolari si passa a equazioni di media, sostituendo alle grandezze M, E, ρ, w le loro medie quali appaiono a un osservatore come noi, si ottengono equazioni macroscopiche, che sono quelle dell'elettrofisica maxwelliana: ma si ricava anche la spiegazione dell'inerzia e delle fondamentali proprietà meccaniche e ottiche della materia, e di quei complicati fenomeni elettrici e magnetici dei corpi materiali, che le teorie precedenti dovevano considerare come fatti empirici. Nel suo opuscolo classico, Lorentz espose le principali di queste deduzioni, fra cui: le leggi fondamentali della dinamica; il comportamento dei dielettrici materiali; la legge di Ohm; l'indice di rifrazione variabile in funzione della lunghezza d'onda luminosa; le proprietà principali dei corpi magnetizzati; i principali fenomeni elettroottici, fino al fenomeno Zeemann. Il lavoro dei successivi investigatori ha allargato sempre più questo campo, mostrando, come con ipotesi più precisate sulla costituzione dell'atomo (atomo di E. Rutherford, consistente in un nucleo composto di M protoni e di N elettroni, con M > N intorno a cui circolano M - N elettroni periferici; v. le voci relative all'atomo e alla costituzione della materia), questa spiegazione dei diversi fenomeni fisici si spinge sempre più oltre.
Alle equazioni scritte nella forma specifica o differenziale, corrispondente al punto di vista maxwelliano, Lorentz aggiunge poi le equazioni integrate, paragonabili a quelle delle antiche teorie delle azioni a distanza. Queste furono ottenute col metodo caratteristico dei potenziali ritardati. Introduciamo due potenziali, l'uno scalare ϕ, corrispondente al potenziale elettrico dell'antica teoria; il secondo, vettoriale, A corrispondente al potenziale vettore maxwelliano dell'induzione magnetica. Questi siano definiti dalle equazioni differenziali
Ad esse corrispondono le equazioni
nelle quali ρ???, w??? sono la ρ e la w che appaitenevano al punto ξ, η, ξ non all'epoca t, ma ad un'epoca
indicando con R la distanza dal punto x, y, z. Ciò vuol dire che i potenziali ϕ, A, differiscono dai potenziali corrispondenti che figurerebbero in uno schema di azioni a distanza, tipo premaxwelliano, per il fatto che invece di propagarsi istantaneamente si propagano con velocità c. Il primo di essi, ϕ, corrisponde al potenziale che era dato dalla formula di B. Riemann.
Da questi potenziali ritardati si ricavano le grandezze del campo mediante le relazioni
e di qui si ricava ogni altra formula integrale.
Sotto un certo punto di vista si può dire che lo schema di Lorentz coincide con la teoria di Maxwell per i fenomeni dell'etere, e riprende e perfeziona i concetti dell'antica teoria per i fenomeni della materia.
Un passo decisivo fu compiuto da Lorentz con la sua teoria, affrontando per la prima volta in modo razionale lo studio dei fenomeni nei sistemi in moto.
Non essendovi più da considerare mezzi elettromagnetici diversi dall'etere, e questo etere essendo ammesso come un insieme geometricamente invariabile senza moti interni, non è più da affrontare la questione del triplo moto dell'etere del mezzo dielettrico e della materia elettrizzata che si presentava nella teoria di Maxwell-Heaviside. Il caso del moto dell'etere è ridotto a quello di una piattaforma di riferimento che invece di essere fissa si muova rispetto ad esso; e impliea solo una trasformazione matematica, che si esegue introducendo le due forze mozionali di Heaviside. Il moto della materia è ridotto a moto di elettroni, e le conseguenze si deducono dalle formule fondamentali (86) senza ipotesi ulteriori. Analizzandole, Lorentz pervenne a formulare il suo teorema degli stati corrispondenti. Quando la materia si muove, in traslazione uniforme o quasi-uniforme, con velocità globale v, le equazioni macroscopiche rimangono le stesse, per un osservatore che accompagni la materia, purché in luogo dei vettori B, H, si prendano in conto due nuovi vettori
(i quali sono vettori modificati con l'aggiunta di forze mozionali corrispondenti al moto della materia) e purché in luogo del tempo vero t si adotti un tempo locale:
Da questo teorema segue che in un ambiente trascinato attraverso l'etere (come i nostri ambienti terrestri) non si può constatare nessun effetto di primo ordine dovuto alla velocità di trascinamento. Sono stati così d'un tratto spiegati tutti i risultati negativi incontrati dagli sperimentatori quando avevano voluto ricercare effetti del trascinamento terrestre che dovessero essere proporzionali alla velocità di trasporto; così la mancanza di campo magnetico attorno a un corpo elettrizzato trascinato nel movimento terrestre, e così via.
La fisica del sec. XIX era così arrivata al suo coronamento: si può dire che era tutta ridotta a elettrofisica, e che le cinque equazioni di Lorentz la riassumevano tutta. Ma proprio quando per un momento si poteva pensare che non vi fosse più nulla da investigare in fatto di leggi fondamentali, i fisici dovettero constatare che sottoponendo a un ulteriore cimento la teoria in confronto con l'esperienza, una contraddizione essenziale era rivelata da due ordini di fenomeni: a) mancanza degli effetti di secondo ordine dovuti al trascinamento terrestre (esperienze di A. Michelson e E. W. Morley, 1881; di F. Trouton e J. Noble, 1903); b) comportamento discontinuo negli scambî di energia fra atomi ed etere (spettri discontinui di righe, ripartizione dell'energia dello spettro, fenomeni fotoelettrici, ecc.).
L'impossibilità di spiegare queste contraddizioni nell'ambito di tutte le teorie fisiche classiche, che si riassumevano e si completavano nell'elettrofisica lorentziana, ha condotto ai due grandi rami di fisica del sec. XX, la relatività e la fisica quantistica. Diciamo qui dei rapporti di esse con l'elettrofisica, avvertendo che dalla teoria di Lorentz in poi, in quanto riguarda lo studio microfisico, la distinzione fra teoria elettrica e altri rami di fisica tende a scomparire.
Elettrofisiche prerelativistiche del periodo intermedio. Teoria di W. Ritz. - Per spiegare la mancanza di effetti di trascinamento di secondo ordine, fu introdotta l'ipotesi della contrazione lorentziana (v. relatività), la quale sotto forma elettrica divenne l'ipotesi dell'elettrone contrattile, confermata in certa guisa dalle esperienze del Kauffmann e di altri. Ma per rendere conto simultaneamente di altre constatazioni negative (esperienza di Trouton e Noble del 1903 sul mancato sforzo torcente in un condensatore a lame metalliche parallele immerso nel vuoto, e obbiquo rispetto alla velocità di trascinamento; esperienze di Rayleigh sulla mancata birifrangenza che avrebbe dovuto nascere in un corpo materiale trasparente isotropo per effetto del trascinamento, come conseguenza della teoria dell'elettrone contrattile), e in previsione di una futura constatazione di mancanza di effetti d'ordine più elevato, Lorentz verso il 1904 elaborò altre teorie elettriche più complicate, dalle quali sarebbe conseguita anche la mancanza di effetti di trascinamento fino al quarto ordine; e queste ebbero valore transitorio.
Intanto Poincaré per primo, nel 1901, esprimeva la convinzione che i fisici avrebbero dovuto prepararsi a non attendere effetti di trascinamento di nessun ordine, e di nessuna natura, e che una teoria su basi radicalmente nuove si sarebbe dovuta elaborare in conseguenza. Il suggerimento fu raccolto da A. Einstein nel 1905, e da allora in poi si ebbero le diverse forme di teoria della relatività.
Nel tempo della prima elaborazione di queste teorie (1908), il Ritz esponeva una teoria elettrofisica del tutto diversa, la quale pure arrivando a conseguenze completamente relativiste per quanto riguarda la mancanza di fenomeni di trascinamento, differiva dalle teorie di relatività propriamente dette, perché deviava in tutt'altro senso dalle basi concettuali della fisica classica e non spiegava la ragion d'essere delle equazioni elettromagnetiche.
Nella teoria del Ritz, detta balistica da M. La Rosa, si nega la sufficienza delle equazioni differenziali come fondamento della fisica: si sopprime, o piuttosto si crede di sopprimere ogni riferimento all'etere; si rinuncia alla nozione di campo elettromagnetico, e s'imposta tutta l'elettrodinamica sulle due equazioni integrali (90) che dànno i potenziali ritardati; queste vengono però modificate con l'ipotesi che i potenziali emessi, invece di propagarsi con la velocità c rispetto all'etere, si allontanino dalla sorgente con la stessa legge come se fossero proiettili lanciati con la velocità c. Secondo questa teoria, la velocità di propagazione delle radiazioni elettromagnetiche e luminose si comporrebbe con quella della sorgente: cioè si avrebbe la stessa cinematica di radiazione come nelle teorie emissive, anziché analoga a quella del suono.
Contro lo schema del Ritz erano state mosse obiezioni troppo sollecite da W. De Sitter e da altri, rivolgendo l'attenzione ai fenomenì delle stelle doppie. Il La Rosa ha confutato quelle obiezioni, e ha cercato di dimostrare che la variabilità di luce osservata nelle stelle doppie, o presunte doppie, è un effetto della composizione della velocità della luce con quella della sorgente. I tentativi di experimentum crucis eseguiti con misure terrestri non hanno portato a conclusione alcuna.
La generalità dei fisici ritiene oggi che la teoria balistica, in quanto devia dalla sintesi einsteiniana, non ha probabilità di corrispondere alla realtà dei fatti. Ciò non esclude, secondo M. De Broglie, che una composizione tra la velocità della sorgente e quella delle radiazioni (la quale dovrebbe essere lievemente inferiore al valore critico c) possa avvenire, ma secondo la cinematica einsteiniana, non secondo lo schema del Ritz.
Teoria dei fenomeni elettrici nella fisica relativistica. - La teoria di relatività, di cui Einstein diede nel 1905 la sua prima formulazione, parte dal duplice presupposto che la fisica sia retta da equazioni fondamentali del tipo lorentziano, e che queste valgano inalterate di forma in ogni piattatorma inerziale; di guisa che il sistema di riferimento per esse equazioni sia determinato solo a meno di un moto di traslazione uniforme.
Per conciliare fra loro questi postulati, fu necessario rinunciare alle basi geometriche e cinematiche tradizionali. In luogo dei due diversi assoluti, distanza e tempo, ne fu ammesso uno che misurerebbe l'intervallo spazio-temporaìe fra due avvenimenti
Le formule cinematiche di passaggio fra due piattaforme che differiscono per una velocità v parallela all'asse Ox sono
La prima equazione corrisponde all'ipotesi della contrazione lorentziana, interpretata però come una specie di effetto di scorcio, dovuto a un semplice cambiamento del punto di vista nel passare da una ad altra piattaforma; l'ultima significa l'abbandono della nozione dell'universalità del tempo: non esiste più un tempo assoluto universale, ma su ogni piattaforma avrebbe valore un tempo proprio, il quale è una derivazione di quel tempo locale che Lorentz aveva introdotto solamente a titolo di costruzione matematica.
Contemporaneamente fu ammesso che nel passaggio di piattaforma le grandezze elettromagnetiche subiscono questa trasformazione
a cui corrisponde una trasformazione reciproca analoga. A parte il denominatore, sarebbero le stesse formule di Lorentz, ma diversamente interpretate: invece di dire che passando alla nuova piattaforma intervengono forze elettromotrici, e magnetomotrici indotte, dovute al movimento, si asserisce che per effetto del passaggio i due vettori elettrico e magnetico s'incrementano l'uno a spese dell'altro, di guisa che campo elettrico e campo magnetico diverrebbero un'entità unica, un campo elettromagnetico che ai diversi osservatori si presenta in forme diverse. Einstein ha richiamato l'attenzione sul significato concettuale di questa interpretazione.
Più perspicua e sintetica è divenuta la rappresentazione teoretica per opera di H. Minkowski (1908).
Riconosciuta l'inseparabilità dello spazio dal tempo, l'universo viene considerato come un continuo quadridimensionale. In questo continuo il campo elettromagnetico resta definito da un areale (un ente rappresentabile con un'area di cui sono definiti la grandezza, la giacitura e il verso), le cui componenti sui sei piani coordinati sono
Il passaggio da una piattaforma a un'altra che sia in moto rispetto alla prima equivale a una pseudo-rotazione (rotazione lorentziana anziché euclidea) nello spazio Oxyzt, per effetto della quale le sei proiezioni dell'areale elettromagnetico sui piani coordinati si modificano tutte, mentre l'areale come ente geometrico rimane invariato nello spazio. I fenomeni delle forze elettromotrici e magnetomotrici indotte, che conducono alle due leggi circuitali dell'elettromagnetismo, e quelli delle forze ponderomotrici subite dai conduttori nei campi magnetici, vengono tutti riassunti nella semplice affermazione che il campo è caratterizzato da un areale, le cui proiezioni si modificano variando l'orientazione del sistema di riferimento; così la ragione d'essere di tutti quei fenomeni appare evidente. Similmente, le equazioni della divergenza restano conglobate in un'asserzione unica relativa a una particolare "solenoidalità" nella distribuzione dell'areale di cui sopra. In quanto al comportamento della materia, l'elettrofisica minkowskiana lo fa dipendere tutto da un vettore ordinario nel continuo spazio-temporale, di componenti
Questo vettore interviene a secondo membro nella legge di distribuzione dell'areale elettromagnetico.
Quindi tanto l'elettrofisica dello spazio vuoto quanto quella della materia si trovano riassunte in una sintesi così elevata, a cui nessuna teoria precedente aveva potuto aspirare.
Minkowski da queste equazioni, che sono microscopiche, ricavò anche un gruppo di equazioni che dovrebbero rappresentare il comportamento macroscopico di un qualunque sistema di conduttori e di dielettrici mobili. Ma i risultati ottenuti non vanno esenti da obiezioni.
Dopo la prima relatività, o relatività "ristretta" di Einstein e Minkowski, le vedute si allargarono molto con la seconda relatività (cosiddetta relatività generalizzata), data da Einstein nell'anno 1914 e successivi (v. relatività); ma l'unica modificazione interessante l'elettrofisica fu l'avere riconosciuto che anche il campo elettromagnetico possiede una massa, e sotto un certo punto di vista dev'essere classificato come materia; quindi l'energia irradiata si comporta come un proiettile dotato d'inerzia, e anche nella radiazione elettromagnetica viene salvaguardato il principio di azione e reazione, che Lorentz aveva dovuto abbandonare.
Interessano più intimamente la teoria dell'elettricità i tentativi che sono stati fatti per spiegare i campi elettromagnetici quali variazioni di proprietà geometriche dello spazio. Il primo tentativo fatto da H. Weyl poco dopo il 1916 urtò contro difficoltà insuperabili. Dal 1929 al 1931 si ebbero, in questo senso, altri tentativi che entrano a far parte delle cosiddette "teorie unitarie" della gravitazione e del campo elettromagnetico, elaborate da Einstein, da T. Levi-Civita, da P. Straneo e altri. Un tentativo ulteriore è quello di G. Giorgi (1931) che spiegherebbe il campo elettromagnetico come uno sdoppiamento dello spazio metrico-gravitazionale, di guisa che una tale metrica sarebbe quella determinatrice del moto degli elettroni positivi, un'altra quella valevole per i negativi: in questo schema, le forze ponderomotrici restano tutte spiegate come forze fittizie di G. Coriolis.
La tendenza moderna di "geometrizzare" la spiegazione dell'elettrofisica è dunque evidente.
Teoria dei fenomeni elettrici nella fisica quantistica. - La seconda deviazione dagli schemi dell'elettrofisica classica è quella richiesta dai fatti quantistici (si veda la voce dedicata alla teoria dei quanti). Il lato della fisica quantistica che interessa la teoria dell'elettricità uscì presto dallo stadio primitivo, nel quale i postulati di N. Bohr si limitavano a enunciare che nell'interno dell'atomo concepito secondo il modello di Rutherford gli elettroni sarebbero stati regolati in parte dall'elettrodinamica lorentziana e in parte da inesplicabili e inconciliabili leggi di eccezione. E fu allora messa in dubbio la teoria elettromagnetica della luce, e parve che in ogni radiazione la concezione del campo dovesse cedere il posto a quella dei fotoni puntiformi di Einstein. I primi schemi di teoria coerente, furono quello formulato da W. Heisenberg con le sue matrici infinite e quello della meccanica ondulatoria di E. Schodinger. Il primo rimase solamente formale e limitato. Il secondo parve dover fornire una spiegazione della struttura dell'elettrone quale distribuzione di onde di un certo "scalare di campo"; ma poi fu riguardato anch'esso come formale, quando si riconobbe che lo scalare di campo, anziché fornire la legge di distribuzione della elettrizzazione nello spazio, fornisce solo la probabilità che un elettrone si trovi in un dato punto.
I fisici della nuova scuola, abbandonando sempre più l'idea di cercare modelli esplicativi di carattere macrofisico per rappresentare i fenomeni elettrici elementari, riconoscono di dover dirigere l'attenzione solamente alle teorie formali, le quali tendono a collegare con enunciati matematici astratti le relazioni fra le entità osservabili. L'elettrofisica s'idealizza con questo sempre più; e non sappiamo ancora quali delle concezioni a cui la nostra mentalità macroscopica è abituata, potrà sopravvivere nel mondo dei fenomeni elementari.
I tentativi più recenti di teorie del campo elettromagnetico sono quelli che conservano l'aspetto formale delle equazionì di Maxwell-Lorentz, sostituendo però matrici infinite o altri enti di carattere matematico elevato, ai vettori delle teorie classiche. Sembra che percorrendo questa via si arrivi a una descrizione dei fenomeni radianti tale che per frequenze basse condurrebbe come caso limite alle onde maxwelliane, e per frequenze molto alte si avvicinerebbe in certa guisa ai fotoni einsteniani, e in ogni caso renderebbe conto dei fatti osservati.
Queste teorie stanno all'avanguardia dell'elettrofisica, e attraverso i lavori di P.A.M. Dirac, H. Weyl, W. Pauli, E. Fermi, W. Heisenberg ed altri, si trovano ora in uno stato di rapida evoluzione.
Bibl.: E. Hoppe, Geschichte der Elektricität, 1ª ed., Lipsia 1884; Ch. A. Coulomb, Memorie varie (in numero di 7), pubblicate dal 1785 al 1789; A. Volta, Scritti varî, dal 1769 in poi: v. le numerose biografie voltiane, pubblicate l'anno 1927 per il suo centenario; H. Davy, Chemical Agencies of Electricity, in Proceedings of Royal Society of London, 1806; D. Poisson, Mémoire sur la distribution de l'électricité a la surface des corps conducteurs, 1811; A. Fresnel, lettera ad Arago che predice il trascinamento parziale dell'etere, 1818; H. C. Oersted, Experimenta circa efficaciam conflictus electrici in arcum magneticum, Copenaghen 1820; D. Arago, in Øuvres: Notices scientifiques, 5 voll., Mémoires scientifiques, 2 voll., Parigi 1854 segg., A. M. Ampère, Mémoire sur la théorie mathématique des phénomenes électrodynamiques, uniquement déduite de l'expérience, Parigi 1826; G. S. Ohm, Die Galvanische Kette, mathematisch bearbeitet, Berlino 1829; G. Green, Essay on the application of mathematical analysis to the theories of electricity and magnetism, Nottingham 1828; M. Faraday, Experimental researches on Electricity, in Philosophical Transactions di Londra a cominciare dal 1831; ristampate in tre volumi, Londra 1831, 1844 e 1855; C. F. Gauss, Allgemeine Lehrsätze, ecc., in Göttinger Nachrichten del 1840, e scritti successivi sulla teoria dell'elettricità e magnetismo, ristampati nelle sue Gesammelte Werke; W. E. Weber, Elektrodynamische Massbestimmungen in Leipziger Abhandlungen, 1840-1878; F. Neumann, Die mathematischen Gesetze der inducirten elektrischen Ströme, Berlino 1845; H. von Helmholtz, Die Erhaltung der Kraft, Berlino 1847; W. Thomson, On the theory of electromagnetic induction, in Reports of the British Association 1848, e molte altre memorie successive, riprodotte nei suoi Mathematical and Physical Papers, Cambridge 1903 segg.; C. Neumann, Die Principien der Elektrodynamik, Tubinga 1868; W. K. Clifford, On the space theory of matter, 1870, riprodotto nei suoi Mathematical Papers; J. Clerk Maxwell, A treatise on electricity and magnetism, 1ª ed., Oxford 1875; 2ª ed., parzialmente modificata, pubblicata nel 1881 a cura di W. D. Niven, e tradotta in francese col titolo Traité d'électricité et de magnétisme, Parigi 1885 e 1891; C. Neumann, Die elektrischen Kräfte, Lipsia 1873-78; H. A. Lorentz, Over het verband tuschen de coorplanting snellheid van het licht en de dichtheit en samenstelling der midden stoffen, in Amsterdam Versh., 1878; A. A. Michelson, The relative motion of the earth and the luminiferous ether, in American Journal of Science, 1881; O. Heaviside, The relation between magnetic force and electric current, in The Electrician, dal nov. 1882 al genn. 1883, e altre serie di memorie, pubblicate di lì in poi; J. H. Poynting, On the transfer of energy in the electromagnetic field, in Philosophical Transactions, Londra 1884; H. Hertz, Memorie fondamentali sulle esperienze fatte per comprovare le onde elettromagnetiche di Maxwell; e della teoria del campo elettromagnetico, in Wiedemann Annalen del 1884 e 1888, riprodotte nelle sue Gesammelte Werke, Lipsia 1895; Oliver Lodge, Modern views on Electricity, Londra 1889, tradotto in francese col titolo Les Théories modernes de l'électricité, Parigi 1891; O. Heaviside, prime puntate della Electromagnetic Theory, pubblicate in The Electrician, gennaio 1881, indi proseguite nel 1891, e riunite come trattato in tre voll., Londra 1895, 1899 e 1912; G. Johnston Stoney, Memoria fondamentale sugli "elettroni", in Transactions di Dublino, 1891; H. Boltzmann, Vorlesungen über die Maxwell'sche Theorie, Lipsia 1891; P. Duhem, Leçons sur l'électricité et le magnétisme, voll. 3, Parigi 1891; A. Föppl, Einführung in die Maxwell'sche Theorie der Elektricität, Lipsia 1894; H. A. Lorentz, Versuch einer Theorie der elektrischen und optischen Erscheinungen in bewegten Körpern, Leida 1895, ristampato poi anastaticamente da B. G. Teubner, Lipsia 1903; E. Wiechert, Über die Grundlagen der Elektrodynamik, 1890 e 1899; J. Larmor, Ether and matter, Cambridge 1900; Max Abraham, Principien der Dynamik des Elektrons, in Wiedemann Annalen, 1903; H. A. Lorentz, Electromagnetic phenomena in a system moving with any velocity smaller than that of light, in Proceed. Amst. Acad., 1904; J. J. Thomson, Electricity and Matter, Londra 1904; R. Reiff, A. Sommerfeld e H. A. Lorentz, Physikalische Grundlegung der Elektricitätslehre, pubblicato come fascicolo 1o del vol. V della Encyklopädie der mathematischen Wissenschaften, Lipsia 1904; A. Einstein, Memoria fondamentale sulla teoria di relatività, pubblicata col titolo Zur Elektrodynamik bewegter Körpern, in Annalen der Physik, 1905; W. Ritz, Recherches critiques sur l'électrodynamique générale, in Annales de Chimie et physique, 1908; H. Minkowski, Raum und Zeit, Colonia 1908, tradotto in italiano da G. Gianfranceschi, col titolo Spazio e tempo, in Nuovo Cimento del 1908; Max Abraham, Theorie der Elektricität, 2ª ed., Lipsia 1908; H. A. Lorentz, The theory of electrons, Lipsia 1909; H. Minkowski, Zwei Abhandlungen über die Grundlagen der Elektrodynamik, ristampate in edizione Teubner, Lipsia 1910; A. Sommerfeld, Atombau u. Spektrallinien, 2ª ed., Brunswick 1921; R. A. Millikan, The electron, Chicago 1924; J. H. Jeans, The mathematical theory of electricity and magnetism, 5ª ed., Cambridge 1925; M. A. Boutaric, La physique moderne et l'électron, Parigi 1927; W. Gerlach, Materie, Elektricität, Energie, Berlino 1926; Elektronen, Atome, Moleküle, in Handbuch der Physik, XXII, Berlino 1927; L'Energia elettrica, fascicolo speciale pubblicato per il 1o centenario voltiano, Milano 1927: contiene articoli di molti autori sulla storia e lo stato attuale dell'elettrofisica; G. Giorgi, Lezioni di fisica matematica, tenute nell'università di Cagliari negli anni 1926-27 e 1927-28; litografate, Roma 1927-28; id., Che cosa è l'elettricità?, Roma 1928; R. W. Pohl, Elementi teorico-pratici di elettrofisica moderna, trad. da C. Rossi, Milano 1928; J. Frenkel, Lehrbuch der Elektrodynamik, II, Berlino 1928; P. Bricout, Ondes et électrons, Parigi 1929; O. D. Chwolson, La physique de 1914 à 1926, 2 volumi supplementari al Traité de Physique, ediz. francese, Parigi 1927 e 1928.
Elettricità animale.
Ogni attività d'organo e di tessuto vivente è accompagnata da correnti elettriche che, data la loro modesta intensità, possono essere rilevate da galvanometri che hanno una resistenza interna molto forte e una grande sensibilità (galvanometro di Thomson elettrometro capillare, galvanometro a corda di Einthoven). Soltanto alcuni speciali organi (detti appunto elettrici) d'alcuni pesci quali le torpedini, il gimnoto, possono scaricare potenti correnti da tramortire la preda o l'avversario. Le più interessanti e approfondite ricerche sono state fatte da fisiologi sui muscoli (striati e lisci) sui nervi e sui centri nervosi. Si distinguono le correnti di demarcazione (già dette impropriamente di riposo) dalle correnti d'azione; le prime si hanno quando si congiungono col galvanometro un punto della superficie normale (non lesa) dell'organo e un punto d'una superficie comunque alterata. Più importanti sono le correnti d'azione, perché accompagnano sempre lo stato attivo dell'organo (per es., l'accorciamento del muscolo, o la conduzione dell'eccitamento del nervo). Esse sono per lo più difasiche e indicano con esattezza l'entità e il decorso delle fasi attive dell'organo. Per questo motivo hanno oggi assunto una grande importanza clinica i fenomeni elettrici dell'attività cardiaca, che si esaminano e si registrano mediante l'elettrocardiografo (v. elettrocardiografia).
Organi elettrici. - Sono così chiamati alcuni organi speciali produttori di energia elettrica, in talune specie di Pesci. Questi organi sono sempre costituiti da tessuto muscolare trasformato e corrispondono a muscoli presenti in altri Pesci; essi si osservano, fra i Selaci, nelle torpedini (Torpedo ocellata e altre) dei nostri mari e, fra i Teleostei, nel gimnoto (Gymnotus electricus) dei fiumi dell'America Meridionale e nel malapteruro (Malapterurus electricusi dei fiumi africani. In altri Selaci (Raja) e Teleostei (Mormyrus, Gymnarchus) vi sono organi simili, chiamati pseudoelettrici o meglio organi elettrici deboli, perché sono molto meno potenti degli organi elettrici veri. Nella torpedine gli organi elettrici, derivati dalla parte distale della muscolatura dei primi cinque archi viscerali, sono posti lateralmente, sui lati del capo e della regione branchiale, e sono innervati da rami del faciale, del glossofaringeo e del vago, le cui fibre provengono da un centro comune rappresentato da due grossi lobi (lobi elettrici) uno destro, l'altro sinistro, che sporgono nella fossa romboidale. Nel gimnoto, invece, gli organi elettrici derivano dai muscoli latero ventrali della coda, che è molto lunga, e sono innervati da rami dei nervi spinali. Nel malapteruro gli organi elettrici si stendono formando un involucro, che riveste tutto il corpo, ma che verosimilmente deriva dai muscoli spinali derivati dai miotomi anteriori; essi sono innervati, dai due lati del corpo, da un nervo unico formato da una sola fibra che si origina da una grande cellula posta nel midollo spinale. Gli organi elettrici deboli di Raja e Mormyrus provengono dai muscoli della coda. Come si è detto, gli organi elettrici sono formati da tessuto muscolare (striato) trasformato. Le fibre muscolari trasformate in piastre, con molti nuclei, riccamente innervate, sono nella torpedine sovrapposte l'una all'altra formando delle pile; tra le piastre è una sostanza gelatinosa, mentre ogni pila di piastre è avvolta da uno strato di connettivo, nel quale passano vasi e nervi.
La scarica elettrica è di maggiore intensità nel gimnoto, minore nel malapteruro, ancora minore nella torpedine, molto minore nella razza, minore ancora nel mormiro. La direzione della corrente prodotta è diversa. Nella torpedine la differenza di potenziale si stabilisce secondo l'asse dorso-ventrale e il dorso è positivo; in tutti gli altri secondo l'asse cefalocaudale, e in gimnoto e mormiro l'estremità cefalica è positiva, in malapteruro e razza la corrente ha direzione contraria.
Cli organi elettrici hanno funzione non solo difensiva contro gli eventuali nemici, ma servono anche per la cattura della preda. Le torpedini, per es., se ne stanno in agguato, sotterrate sotto la sabbia, con gli occhi che sporgono fuori; appena vedono passare un pesce a loro portata, si precipitano su di esso, lo stordiscono con una scarica elettrica e lo ingoiano, onde nello stomaco delle torpedini si trovano di solito pesci, anche relativamente grandi, completamente sani, perché inghiottiti in un solo boccone.
Bibl.: O. Bütschli, Vorlesungen über vergleichende Anatomie, I, Berlino 1921; S. Garten, Die Production von Electrizität, in Winterstein Handbuch der vergleichenden Physiol., III, Jena 1914.
Elettricità atmosferica.
Cenno storico. - L'anno 1750 Beniamino Franklin, in una lettera diretta a Pietro Collinson, membro della Società reale di Londra, propose di fare un esperimento per decidere se i lampi e i tuoni fossero fenomeni della stessa natura delle scintille che si possono ottenere dalle ordinarie macchine elettriche, come molti avevano già sospettato. E l'esperienza, eseguita la prima volta il 10 maggio 1752 a Marly-la-Ville dal D'Alibard, diede il risultato previsto: da un conduttore metallico, isolato e terminato in alto con una punta, si traevano scintille come quelle delle macchine elettriche, quando sopra di esso veniva a passare una nube temporalesca. Nel mese di luglio dello stesso anno Luigi Guglielmo Lemonnier, avendo collocato nel mezzo di un'ampia radura, a SaintGermain-en-Laye, un conduttore isolato, terminato in punta, per trarne scintille al passaggio delle nubi temporalesche, vide con sua meraviglia che in certe ore del giorno l'estremità libera di un filo metallico comunicante con il conduttore attirava energicamente i granellini di polvere messi a piccola distanza, come fanno i corpi elettrizzati, anche quando il cielo era perfettamente sereno. Osservato più volte il fenomeno durante l'estate e l'autunno, nel mese di novembre egli comunicò all'Accademia delle scienze che vi può essere elettricità nell'aria senza alcuna nube.
Tutti gli studiosi che nella seconda metà del sec. XVIII si occuparono dei fenomeni elettrici dell'atmosfeta, fra i quali Giambattista Beccaria, Tiberio Cavallo, Orazio Benedetto Saussure, Alessandro Volta, considerarono le nubi come conduttori che potevano essere carichi di elettricità positiva o negativa, e considerarono l'elettricità dell'atmosfera a cielo sereno come una carica, generalmente positiva, propria dell'aria, dalla quale poteva essere dedotta mediante conduttori terminati con una punta (Lemonnier, Beccaria), o con una fiammella (Volta), o che poteva essere posta in evidenza, traendo profitto dell'induzione elettrica (Cavallo, Saussure).
Nel 1803 Paolo Erman cominciò a riguardare i fenomeni elettrici che si osservano nell'atmosfera a cielo sereno come fenomeni d'influenza dovuti a una carica negativa del suolo; ma il suo concetto non venne accolto dai fisici del suo tempo. Lo sostenne, circa quarant'anni dopo, con nuovi argomenti, Atanasio Peltier; il quale adoperò, nella misura dell'elettricità atmosferica, l'elettrometro mobile, come già aveva fatto Tiberio Cavallo. Luigi Palmieri costruì nel 1850 il suo elettrometro a conduttore mobile, nel quale viene lasciato in posto l'elettrometro e si eleva fino a una data altezza nell'aria il solo conduttore ad esso collegato.
Nel 1859 W. Thomson (lord Kelvin) introdusse nello studio dei fenomeni elettrici dell'atmosfera il concetto fecondo di potenziale, adoperò nelle misure il suo squisito elettrometro a quadranti collegato a uno zampillo d'acqua, applicandovi la registrazione fotografica. E mentre l'uso degli strumenti registratori permetteva di seguire senza interruzione le variazioni del potenziale in un punto, con uno strumento semplicissimo (un elettroscopio a foglie d'alluminio, facilmente graduabile e munito di collettore a fiamma) si estendevano grandemente le osservazioni, facendole anche a grandi altezze sul livello del mare, per mezzo di ascensioni in pallone, specialmente per opera di Franz Exner e della sua scuola.
Intorno all'anno 1887 l'attenzione degli studiosi dell'elettricità atmosferica venne richiamata sopra un fenomeno che fino allora non si era giustamente considerato: l'aria possiede una conducibilità elettrica la quale non si può attribuire né al pulviscolo atmosferico, né al vapor acqueo in essa contenuti, ché anzi l'aria umida è un perfetto isolante dell'elettricità (Giovanni Luvini, 1884; W. Linss, 1887). Nel 1888 Andrea Naccari dimostrava che la scarica dei conduttori elettrizzati è resa più rapida dall'aria in uno stato particolare, come è quello determinato dalle scintille di un piccolo apparecchio d'induzione, e l'anno seguente riconosceva la stessa proprietà nell'aria attraversata dalle radiazioni che emette il fosforo. Nell'anno 1899 Elster e Geitel poterono poi dimostrare che la dispersione delle cariche elettriche dai conduttori posti nell'aria è dovuta alla conducibilità che essa possiede per effetto di corpuscoli elettrizzati, taluni positivamente altri negativamente, i quali vi sono contenuti in varia misura e hanno una loro particolare mobilità nel campo generato dalle cariche dei conduttori. A tale modificazione dell'aria, resa conduttrice dai corpuscoli elettrizzati in essa sospesi (ion, portatori di cariche, corpuscoli attivi) si diede il nome di ionizzazione.
Lo studio dei fenomeni elettrici dell'atmosfera comprende pertanto questi due argomenti fondamentali: 1. le proprietà del campo elettrico al disopra della superficie terrestre; 2. l'azione dei corpuscoli elettrizzati che si trovano nell'aria.
Il campo elettrico terrestre. - Le proprietà del campo elettrico nell'atmosfera si possono dedurre dai valori che assume il potenziale in prossimità del suolo e a diverse altezze sopra il medesimo. Infatti la diminuzione del potenziale, riferita all'unità di distanza, lungo la normale esterna alla superficie di livello passante per un punto, cioè la caduta di potenziale, misura l'intensità del campo in quel punto, e la direzione del campo è determinata dalla direzione di quella normale. Indicando con dV l'aumento infinitesimo del potenziale e con dn la lunghezza dell'elemento di normale, l'intensità F del campo viene espressa dalla relazione:
Il valore del potenziale in un punto qualsiasi dell'atmosfera si suole determinare mediante un elettrometro posto in comunicazione con una punta metallica, o con una fiammella, o con uno zampillo d'acqua, oppure con un frammento di sostanza radioattiva, che si collocano nel punto da esplorare. Uno qualunque di questi organi eollettori assume più o meno rapidamente il potenziale del punto in cui si trova, e il suo valore viene letto sull'elettrometro.
Se si colloca un conduttore di piccole dimensioni nel punto che si esplora e lo si pone per un istante in comunicazione con il suolo e poi lo si isola, esso prende un potenziale eguale e opposto a quello del punto occupato: misurando il potenziale assunto dal conduttore, se ne deduce, con cambiamento di segno, il potenziale cercato. Se invece si sposta normalmente alle superficie di livello un conduttore, il quale sia in comunicazione con un elettrometro fisso, si ottengono nell'elettrometro variazioni di potenziale dalle quali è possibile dedurre il valore del potenziale nello spazio esplorato.
Il primo metodo è più facile e permette anche la registrazione continua dei valori del potenziale in un punto dell'atmosfera; tuttavia anche gli altri due possono presentare, in taluni casi, particolari vantaggi.
La caduta di potenziale si misura ordinariamente in volt per metro, oppure in unità C. G. S., tenendo presente che l'unità pratica è 1 : 300 dell'unità assoluta di differenza di potenziale.
Dalle numerosissime osservazioni raccolte finora risulta che a cielo sereno il potenziale nell'atmosfaa è generalmente più elevato di quello del suolo e aumenta con l'altezza. Esso ha valori più alti alle latitudini medie e nell'interno dei continenti; vi sono luoghi infatti nei quali, a cielo sereno, la caduta di potenziale in prossimità del suolo raggiunge e anche supera 500 volt/m. e altri, verso le regioni polari e verso l'equatore. nei quali ha soltanto il valore di 50 volt/m. Sulla superficie degli oceani le differenze fra un punto e l'altro sono molto più piccole; e dalle determinazioni eseguite nelle crociere organizzate dall'istituzione Carnegie risulta che la media caduta di potenziale alla suoerficie del mare è di 113 volt/m. Come valore medio della caduta di potenziale alla superficie terrestre si può pertanto ritenere:
In un medesimo punto la caduta di potenziale è poi soggetta a notevoli variazioni accidentali e presenta pure variazioni periodiche e annue.
Le variazioni giornaliere possono essere di due sorta, cioè possono presentare un'oscillazione semplice, con il minimo intorno alle ore 5 di tempo locale e il massimo fra le 19 e le 20; oppure una doppia oscillazione diurna con il primo minimo intorno alle 5 e un altro nel pomeriggio, un primo massimo circa le 9 e il secondo verso le 20. In molti luoghi si osserva l'oscillazione doppia durante la stagione estiva e l'oscillazione semplice nell'inverno: in ogni caso l'ampiezza dell'oscillazione diurna è maggiore nell'inverno, potendo anche raggiungere il 40% del valore medio giornaliero.
A una certa altezza sul livello del mare, che varia secondo i luoghi, si modificano o svaniscono le oscillazioni osservate negli strati più bassi: così a Rocca di Papa (m. 700) si ha nell'inverno l'oscillazione doppia, e si ha invece l'oscillazione semplice a Roma. Ciò dimostra che sopra la caduta di potenziale influiscono, almeno in parte, cause le quali si trovano negli strati più bassi dell'atmosfera. Dalle osservazioni raccolte nelle crociere oceaniche dell'istituzione Carnegie sembra risultare che la caduta di potenziale alla superficie dei mari ha un'oscillazione giornaliera semplice, la quale, in tutti i punti, presenta il massimo intorno alle ore 17 1/2 di Greenwich; e ciò fa anche pensare a una causa cosmica della variazione diurna del campo elettrico terrestre. Nel corso di un anno la media giornaliera della caduta di potenziale presenta quasi sempre una oscillazione semplice con il massimo nell'inverno e il minimo nell'estate.
In ogni luogo con il crescere dell'altezza sul suolo cresce in generale la differenza di potenziale rispetto al medesimo, ma l'aumento riferito all'unità di lunghezza sulla normale alle superficie di livello si fa sempre più piccolo. Da ciò si deduce che l'intensità del campo elettrico della terra diminuisce con il crescere de] l'altezza sul livello del mare, e si può ritenere con sufficiente approssimazione che la caduta di potenziale, espressa in volt per metro, diminuisca di un'unità, quando l'altezza aumenta di 15 metri. Giova tuttavia osservare che secondo alcune recenti determinazioni fatte dall'Idrac nell'Osservatorio di meteorologia dinamica di Trappes, mediante apparecchi registratori portati da palloni sonda, vi sono, nell'alta atmosfera, superficie di discontinuità che separano zone nelle quali l'intensità del campo elettrico diminuisce con il crescere dell'altezza, da altre nelle quali l'intensità del campo aumenta.
Dall'intensità del campo in prossimità della superficie terrestre si può dedurre il valore della carica elettrica del suolo. È noto infatti che, se s'indica con σ la densità elettrica in un punto della superficie di un conduttore, l'intensità del campo nelle immediste vicinanze del punto viene espressa dalla relazione:
Assumendo pertanto come valore medio della caduta di potenziale in prossimità del suolo 115 volt/m., si ottiene:
anche la misura diretta della carica d'una porzione isolata della superficie terrestre conferma l'esistenza di questa carica negativa.
La carica totale della Terra considerata come una sfera di raggio 6,37 × 108 cm. sarà approssimativamente:
Conoscendo poi la legge secondo la quale decresce l'intensità del campo terrestre con il crescere dell'altezza sul livello del mare, se ne può dedurre il valore e il segno della carica elettrica cuntenuta nell'unità di volume dell'aria. Infatti, indicando con ρ questa carica, ossia la densità di volume, si ha:
E applicando questa formula alla variazione dell'intensità del campo, si ottiene per il valore medio ρm della densità elettrica di volume nell'aria:
Nell'atmosfera sono dunque distribuite in lieve eccesso cariche positive, la somma delle quali, a una certa altezza, farà equilibrio alla carica negativa del suolo.
I corpuscoli attivi dell'aria. - Elster e Geitel avevano già notato, nelle loro osservazioni sulla dispersione elettrica, che la velocità con la quale si scarica un corpo elettrizzato esposto all'aria risulta generalmente maggiore, se esso è carico di elettricità negativa; e il fatto si può considerare come una prova che i corpuscoli attivi elettrizzati positivamente si trovano in eccesso nell'aria esplorata. Tuttavia, poiché la perdita di carica non dipende soltanto dal numero dei corpuscoli attivi di segno contrario che si trovano presenti, l'argomento merita uno studio più particolareggiato.
Se nel mezzo in cui si trova un conduttore elettrizzato vi sono per ogni cmc. n corpuscoli attivi, ciascuno dei quali abbia una carica e di elettricità contraria, e si indica con k la loro mobilità, cioè la velocità con la quale i corpuscoli considerati si muovono in un campo d'intensità i il prodotto enk esprime la conducibilità del mezzo e si suole porre:
Indicando con Q la carica posseduta dal conduttore in un certo istante, la variazione dQ in un intervallo infinitesimo di tempo dt è espressa dalla relazione
e dopo il tempo t si avrà:
dove Q0 indica il valore della carica iniziale.
Se poi si considerano, invece delle cariche del conduttore, i potenziali che esso prende, si avrà:
Da questa formula sí può dedurre il valore di λ. Ma bisogna avvertire che la misura dei potenziali si fa per lo più con un elettrometro che non è soggetto all'azione conduttrice del mezzo; per conseguenza la diminuzione del potenziale si manifesta su tutto il sistema costituito dal conduttore che ha una capacità elettrica C e dall'elettrometro avente una capacità C′, mentre la compensazione delle cariche è limitata alla superficie del conduttore esposto all'aria. In queste condizioni l'equazione (5) deve essere così modificata:
e se ne deduce:
Con tale metodo e applicando la formula (8) si suole determinare la conducibilità elettrica dell'aria. Si fanno in generale coppie di osservazioni coniugate, l'una con il conduttore carico di elettricità negativa, che dà il valore della conducibilità dovuta ai corpuscoli positivi (λ+), e l'altra con il conduttore carico di elettricità positiva, che dà il valore della conducibilità dovuta ai corpuscoli negativi (λ-). Poi si determina anche la conducibilità totale (λ) mediante la relazione λ = λ+ + λ-; e il rapporto qλ = λ+/λ-, che è generalmente maggiore di 1, è l'indice della prevalenza dei corpuscoli carichi di elettricità positiva nell'atmosfera.
Il conduttore di capacità C, portato a un certo potenziale V, costituisce ordinariamente l'armatura interna di un condensatore cilindrico ed è collegato con l'elettrometro E, di capacità C′: un aspiratore serve a produrre fra le armature del condensatore una corrente d'aria avente una velocità opportuna. Bisogna regolare il potenziale del conduttore e la velocità della corrente d'aria in modo che la quantità di elettricità ceduta al conduttore dai corpuscoli attivi di segno contrario sia proporzionale al potenziale del conduttore per tutta la durata dell'esperienza; e quando tale condizione è soddisfatta si dice che il passaggio dell'elettricità avviene in regime di proporzionalità, o in regime ohmico.
La conducibilità dell'aria presenta grandi variazioni da un punto all'altro della superficie terrestre; ma come valori medi approssimati si possono ritenere i seguenti:
In ogni punto la conducibilità varia con le condizioni meteorologiche, ed è minima quando il tempo è umido e nebbioso. Essa presenta anche variazioni periodiche giornaliere e annue, le quali sono generalmente opposte a quelle che si osservano nella caduta di potenziale: i valori minimi e massimi della caduta di potenziale corrispondono rispettivamente ai valori massimi e minimi della conducibilità elettrica. La medesima cresce poi rapidamente con il crescere dell'altezza: a 6000 m. è circa 20 volte maggiore di quella che si ha al livello del mare; a 9000 m. si raddoppia ancora. E a un'altezza fra 84 e 100 km. deve esservi uno strato interamente costituito da corpuscoli attivi (strato di Heaviside), il quale possiede un elevato potere riflettente per le onde elettromagnetiche usate in T. S. F.
Lo strumento indicato si può anche adoperare in altre condizioni di funzionamento, cioè regolando l'intensità del campo fra le armature e la velocità della corrente d'aria in modo che tutti i corpuscoli elettrizzati con un certo segno vengano catturati dal conduttore C avente la carica opposta. Il passaggio dei corpuscoli si dice allora avvenire in regime di saturazione; e dalla diminuzione del potenziale del conduttore in siffatte condizioni si può dedurre il numero dei corpuscoli elettrizzati dei due segni che si trovano presenti nell'aria. Operando al limite fra il regime ohmico e il regime di saturazione si determina la mobilità k dei corpuscoli.
Si è così riconosciuto che la conducibilità dell'aria è dovuta a quei corpuscoli elettrizzati positivamente o negativamente, i quali (sotto la pressione atmosferica e in un campo di 1 volt/cm.) hanno le seguenti mobilità medie:
Nuove ricerche proverebbero che nell'aria vi sono gruppi di corpuscoli attivi dotati di mobilità differenti, cioè: 2, 1,2, 0,7, e forse 0,4 cm./sec.; donde risulterebbe che la mobilità di un corpuscolo, la quale evidentemente dipende anche dalla sua massa, diventa ognora più piccola, quando sopra un nucleo elettrizzato si addossano altre molecole gassose.
La mobilità dei corpuscoli attivi cresce notevolmente con l'altezza sul livello del mare: a 3000 m. si è trovato:
Il numero dei corpuscoli attivi contenuti in un centimetro cubo d'aria nelle condizioni ordinarie è poi risultato in media:
Ma, oltre ai corpuscoli elettrizzati che determinano la conducibilità elettrica dell'aria e sono costituiti da piccoli raggruppamenti di molecole gassose sopra nuclei aventi una carica elementare di elettricità, ve ne sono altri, e in numero assai maggiore, che son dovuti al fatto che sopra i nuclei elettrizzati aderiscono pure gli elementi del pulviscolo atmosferico e anche goccioline minutissime d'acqua. Questi si chiamano comunemente grossi ioni, o grossi corpuscoli, o anche corpuscoli del Langevin; e avendo essi una mobilità che è approssimativamente un millesimo di quella propria dei corpuscoli attivi, non producono effetto sensibile sulla conducibilità dell'aria, sebbene possano modificare la caduta del potenziale nell'atmosfera e quella che si suole chiamare la densità elettrica di volume. Sembra poi che vi siano ancora, nell'aria, corpuscoli elettrizzati che possiedono una mobilità intermedia tra quelle dei piccoli e dei grossi ioni.
Notevole è il fatto che, mentre tra i piccoli portatori di cariche prevalgono quelli elettrizzati positivamente, tra i grossi sono invece in prevalenza quelli elettrizzati negativamente. Tuttavia, vi è generalmente una leggiera eccedenza di corpuscoli positivi, che dà ragione della densità di volume positiva, come risulta dalla diminuzione dell'intensità del campo terrestre con il crescere dell'altezza e anche da misure dirette.
Corrente verticale: conservazione della carica negativa del suolo. - Per effetto della conducibilità dell'aria e del campo elettrico terrestre, con le linee di forza dirette verso il suolo, nell'atmosfera vi è normalmente una corrente continua diretta dall'alto in basso, la quale, se si considera la sola azione dei corpuscoli positivi, ha in media un'intensità i espressa dalla relazione seguente:
ed è anche stato possibile misurare direttamente questa corrente verticale che scende al suolo.
La densità elettrica superficiale della Terra è dell'ordine di grandezza di − 3,05 × 10-9 U.E.S./cm., per conseguenza in meno di 10 minuti la carica negativa della terra dovrebbe essere compensata dall'elettricità positiva che vi giunge dall'atmosfera. Poiché questa carica negativa si mantiene invece sensibilmente costante, deve intervenire qualche azione continua la quale sottrae alla Terra la carica trasportata dalla corrente atmosferica.
A produrre tale effetto contribuiscono le cause seguenti:
a) L'aria che penetra tutti i meati degli strati superficiali della terra e poi, per un naturale processo di diffusione, aiutato dalle variazioni della pressione esterna, invade l'atmosfera, porta con sé notevoli quantità di elettricità positiva perché i corpuscoli negativi rimangono più facilmente assorbiti nei capillari del suolo (Ebert).
b) L'acqua del mare che si frange sulle spiagge, o spumeggia sulla cresta delle onde in finissime goccioline, si elettrizza negativamente, mentre le cariche positive vengono trasportate nell'aria (effetto Lenard).
c) I finissimi aghi di ghiaccio diffusi nelle regioni superiori della troposfera, sotto l'azione dei raggi solari più rifrangibili, si elettrizzano positivamente, liberando elettroni (effetto Righi); e questi diventano nuclei di corpuscoli elettrizzati negativamente, che a poco a poco ingrossano, aderendo ad altre particelle materiali, e possono cadere sino al suolo.
d) Le radiazioni cosmiche staccano elettroni i quali si propagano quasi nella stessa direzione delle radiazioni eccitatrici, e, giungendo fino al suolo, vi recano le loro cariche di elettricità negativa.
e) Le scariche elettriche temporalesche, in cui il movimento dell'elettricità positiva avviene prevalentemente dal suolo alle nubi, sono pure un mezzo per conservare la carica negativa della superficie terrestre.
Elettricità delle precipitazioni ed elettricità temporalesca. - I fenomeni elettrici che accompagnano la condensazione del vapore acqueo contenuto nell'atmosfera, e quelli che sono dovuti ai movimenti delle precipitazioni nella medesima, modificano il campo terrestre normale e dànno anche una carica propria alle precipitazioni che giungono al suolo.
Quando il cielo è soltanto nuvoloso si vede generalmente attenuato il campo terrestre, senza che ne sia alterato il segno; ma quando cade la pioggia, o la neve, o la grandine, le modificazioni del campo risultano più profonde. Per semplicità consideriamo separatamente i fenomeni elettrici che accompagnano le piogge e le nevicate tranquille, gli acquazzoni e le piogge temporalesche.
Durante le piogge tranquille il campo terrestre è per lo più negativo, cioè le linee di forza del campo sono dirette dal suolo alle nubi, e l'intensità di esso può raggiungere valori compresi fra 1000 e 2000 volt/m. Se il campo si mantiene positivo, il che succede più spesso cadendo la neve, l'intensità rimane notevolmente inferiore. Sulle gocce d'acqua la frequenza delle cariche elettriche positive supera quella delle cariche negative, press' a poco nel rapporto 2:1; ma la quantità di elettricità positiva che si raccoglie supera la quantità dell'elettricità negativa soltanto nel rapporto 1,5 : 1. La carica media delle gocce elettrizzate risulta circa 0,4 U.E.S./cmc. e tale valore medio scende a 0,2 U.E.S./cmc. se si considerano anche le piogge che non presentano cariche elettriche sensibili.
Negli acquazzoni e nei temporali i fenomeni elettrici diventano più difficili a seguirsi, perché allora si hanno rapide e talora rapidissime alternative nel segno e nell'intensità del campo terrestre. La caduta di potenziale può raggiungere valori compresi fra 4000 e 6000 volt/m. durante gli acquazzoni e valori di oltre 10.000 volt/m. nei temporali in cui non cadono fulmini. In relazione con i cambiamenti di segno nel campo si hanno anche corrispondenti alternative nel segno dell'elettricità trasportata dalle precipitazioni. Perciò riesce assai difficile misurare la carica elettrica di un complesso di gocce, quando sulle medesime sopravvengono quasi immediatamente altre gocce cariche di elettricità contraria. Misurando le cariche di qualche gruppo di gocce, le quali si poterono isolare con opportune disposizioni sperimentali, si è trovato che le gocce del peso fra 10 e 20 mg. hanno cariche comprese fra 5 e 100 × 10-3 U.E.S. Pare che durante gli acquazzoni e i temporali siano più frequenti le cariche negative delle gocce d'acqua, specie quando si tratta di gocce voluminose. Come valore medio del potenziale delle gocce isolate si è trovato ± 37 volt, e sopra gocce molto grandi − 300 volt. Le massime quantità di elettricità misurate sopra grandi gocce isolate furono + 130 e − 205 U.E.S. per cmc.
Durante i temporali violenti si producono nell'aria differenze di potenziale dell'ordine di 108 volt, quando fra le nubi guizzano i lampi; e possono prodursi, in vicinanza della superficie terrestre, campi elettrici variabili con grande frequenza nei quali la caduta di potenziale è dell'ordine di 300.000 volt/m., quando fra la terra e le nubi scoppia il fulmine.
Le cause di fenomeni così grandiosi sono tuttora avvolte nel mistero; e fra le numerose ipotesi fatte per darne la spiegazione merita di essere ricordata quella proposta da G. C. Simpson, la quale ha per fondamento la cosiddetta elettricità delle cascate, scoperta dal Tralles nel 1786 e studiata anche dal Volta, e che il Lenard ha fatto oggetto di indagini assai accurate. Quando una goccia d'acqua si frange contro un ostacolo, si staccano da essa goccioline elettrizzate negativamente, lasciando alla goccia una carica positiva; e il fenomeno non avviene soltanto nelle cascate d'acqua, e, con inversione dei segni dell'elettrizzazione, nelle varie condizioni in cui si frangono le gocce dell'acqua del mare, ma avviene anche nell'atmosfera, sotto l'azione delle correnti d'aria che trasportano gocce d'acqua. Il Lenard ha appunto dimostrato che, se una goccia d'acqua si trova esposta a una corrente verticale, la quale abbia una velocità sufficiente, essa non cade per effetto della gravità, ma resta sospesa nell'aria e dalla sua superficie vengono strappate minutissime goccioline cariche di elettricità negativa, mentre la goccia primitiva rimane elettrizzata positivamente. Le cose procedono come se alla superficie di ogni goccia d'acqua vi fosse un doppio strato di cariche elettriche elementari con le cariche negative all'esterno e quelle positive verso l'interno della goccia: quando un'azione meccanica, come può essere l'urto sopra una roccia o un'energica corrente d'aria, stacca repentinamente dalla superficie liquida una gocciolina, questa porta via con sé un eccesso di elettricità negativa, e la massa residua rimane carica di elettricità positiva. Infatti, misurando la carica elettrica d'un certo numero di gocce d'acqua sottoposte all'azione di una corrente d'aria verticale; si trovò in media una carica positiva di 5,2 × 10-1 U.E.S. sopra ogni goccia, che corrispondeva a + 23 U.E.S./mc.
Le goccioline piccole, elettrizzate negativamente, riunendosi fra loro, oppure ad altre che siano allo stato naturale, possono dare origine a gocce grandi aventi notevoli cariche di elettricità negativa; e possono poi trovarsi raccolte, in determinate regioni di una nube, masse elettrizzate positivamente o negativamente.
In queste azioni, che certamente sono anche influenzate dai caratteri del campo in cui si esercitano, e alla loro volta influiscono sul campo, si può trovare, secondo il Simpson, la spiegazione delle cariche elettriche possedute dalle precipitazioni e la spiegazione dei fenomeni che accompagnano i temporali, sebbene per ora a noi sfugga il modo preciso in cui le azioni stesse si svolgono.
Bibl.: G. Hellmann, Neudrucke von Schriften und Karten über Meteorologie u. Erdmagnetismus, n. 11, Über Luftelektrizität, Berlino 1898 (vi sono riprodotte, fra l'altro, la lettera di B. Franklin a P. Collinson e le pubblicazioni fatte dal D'Alibard e dal Lemonnier); G. B. Beccaria, Dell'elettricismo artificiale e naturale, Torino 1753; id., Elettricismo atmosferico (lettere), Bologna 1758; id., Della elettricità terrestre atmosferica a cielo sereno, Torino 1775; T. Cavallo, A complete Treatise on Electricity, Londra 1777; id., An Account on some new experiments in Electricity, in Phil. Trans., LXX (1780), p. 15; H. B. De Saussure, Voyages dans les Alpes, Neuchâtel 1786, XI, cap. 28; A. Volta, Lettere sulla meteorologia elettrica (1787-1790), in Opere di A. Volta, ed. naz., V, Milano 1928; A. Peltier, Recherches sur la cause des phénomènes électriques de l'atmosphère et sur les moyens d'en recueillir les manifestations, in Ann. de Ch. et de Phys., IV (1842), n. 3, p. 385; L. Palmieri, Sperienze ed osservazioni di meteorologia elettrica, Napoli 1850; id., in Annali dell'Osservatorio vesuviano, Napoli 1859-1873; id., Lezioni elementari di fisica sperimentale e di meteorologia, III, Napoli 1855; id., Leggi ed origine dell'elettricità atmosferica, in Mem. d. Soc. it. d. sc. (detta dei XL), s. 3ª, IV (1882), n. 9; W. Thomson, Atmospheric Electricity, in Nichol's Cyclopaedia, 1859; id., On the necessity for incessant Recording ecc., in Rep. B. A. Aberdeen, 1859; J. Elster e H. Geitel, Über die Existenz elektrischer Ionen in der Atmosphäre, in Terr. Magn. Atm. Electr, IV (1899), p. 213; id., Beiträge zur Kenntniss der atmosphärischen Elektrizität, in Physik. Zeitschr., I (1900), p. 245; H. Ebert, Absorptionsapparat zur Bestimmung des Ionengehaltes der Atmosphäre, in Physik. Zeitschr., II (1901), p. 662; Über die Ursache des normalen atmosphärischen Potentialgefälles und der negativen Erdladung, ibid., V (1904), p. 135; P. Lenard, Über die Elektrizität der Wasserfälle, in Wied. Ann., XLVI (1892), p. 584; id., Über Wasserfallelektrizität u. über die Oberflächenbeschaffenheit der Flüssigkeiten, in Ann. d. Phys., XLVII (1915), n. 4, p. 463; id., Zur Wasserfalltheorie der Gewitter, ibid., LXV (1921), n. 4, p. 629; P. Langevin, Sur les ions de l'atmosphère, in C. R., 1905, p. 232; G. C. Simpson, On the Electricity of rain and its origin in Thunderstorms, in Phil. Trans., s. A 209 (1909), p. 379; id., The Electricity of atmospheric Precipitations, in Phil. Mag., XXX (1915), n. 6, p. 1; id., The Mechanism of a Thunderstorm, in Proc. Roy. Soc., s. A 114 (1927), p. 376; L. A. Bauer e W. F. Swann, Results of Atmospheric-electric Observations, Carnegie Institution of Washington, publ. n. 175, CXI, Washington 1917, p. 361; S. J. Maughly, On the diurnal variation of the potential gradient of atmospheric Electricity, in Terr. Magn. Atm. Electr., XXVII (1923), p. 61; B. Chaveau, Électricité atmosphérique, Parigi 1922-1925; E. Mathias, Traité d'électricité atmosphérique et tellurique, Parigi 1924; C. Negro, Elettricità atmosferica, Milano 1926; K. Kaehler, Einführung in die atmosphärische Elektrizität, Berlino 1929; W. J. Humphreys, Physics of the Air, 2ª ed., New York 1929.