Elettricità
Energy and persistence conquer all things
(Benjamin Franklin)
Proposte per l’energia elettrica italiana
di
10 gennaio
La Commissione Europea vara un piano per la nuova politica energetica degli Stati membri che, in conformità a quanto previsto dal protocollo di Kyoto, mira a ridurre del 20% le emissioni di gas serra entro il 2020. Per l’Italia ciò corrisponde all’impegno di sostituire la prevalenza della produzione elettrica da fonti fossili con tecnologie prive di emissioni.
Lo scenario italiano
Di tutta l’energia annualmente utilizzata in Italia, una notevole frazione è trasformata in elettricità per un ammontare complessivo al consumo finale, nel 2005, di circa 310 TWh/anno (1 TWh (terawattora) =1 miliardo di kWh). I consumi elettrici crescono piuttosto regolarmente al ritmo di circa 5 TWh/anno. Se si pensa che una centrale da 1000 MWe produce in un anno qualcosa come 7 TWh, è come dire che, più o meno ogni anno e mezzo, alle risorse disponibili occorre aggiungere l’equivalente di una nuova grossa centrale. Per fare una nuova centrale si impiegano tempi dell’ordine di sette anni. Il che implica che orientamenti e decisioni sul futuro energetico vanno elaborati con notevole anticipo. La domanda di energia elettrica è crescente in ogni parte del mondo, a ritmi più o meno elevati a seconda del livello di forza espansiva delle varie economie. Valutazioni piuttosto serie prevedono che, nel giro dei prossimi 30-40 anni, si arriverà al raddoppio dei consumi elettrici nel mondo. Si tratta di una linea di tendenza generale, alla quale appare pericolosamente velleitario che una singola nazione industrializzata possa sottrarsi.
Per quanto riguarda l’Italia, è ben noto che il sistema di approvvigionamento elettrico risulta particolarmente costoso, vulnerabile e inquinante, in una situazione di aumento della domanda, di scarsità di fonti primarie, di rinuncia al nucleare interno, di difficoltà ambientali per l’uso del carbone e degli idrocarburi e di dipendenza esagerata dal difficile mercato del gas e del petrolio. Sul fronte del risparmio energetico, di recente fortemente sollecitato anche dall’Unione Europea e comunque da perseguire in ogni possibile modo, va ricordato che il consumo elettrico italiano pro capite non è alto rispetto a quello degli altri paesi industrializzati, per cui contributi risolutivi non sono da aspettarsi da questo lato.
Tra le risorse primarie da trasformare in energia elettrica, la prima a dover essere gradualmente ridotta sarà quella del petrolio e del gas. Questo perché le durate delle riserve di idrocarburi sono quelle più brevi, per cui, di fronte alla crescita di domanda e agli inevitabili incrementi dei costi, il petrolio dovrà necessariamente essere riservato al trasporto su gomma e all’industria petrolchimica, mentre il gas sarà più propriamente da destinare alla combustione nei grandi agglomerati urbani.
Sul fronte delle energie rinnovabili, quella di tipo idroelettrico è vicina alla saturazione e, pur con opportuni interventi per migliorare la capacità produttiva degli impianti, il suo contributo al progressivo aumento della domanda è destinato a rappresentare percentuali decrescenti nel fabbisogno complessivo. L’eolico, pur sostenuto nel suo sviluppo, presenta dei limiti quantitativi realisticamente non superabili. Contributi crescenti si aspettano dall’utilizzo di biomasse e rifiuti e auspicabilmente da un geotermico evoluto. Sul solare, fotovoltaico e a concentrazione, occorre certamente puntare in termini di forte sostegno a ricerca e sviluppo ma, essenzialmente a causa della bassa densità superficiale di potenza della radiazione solare, non sono ipotizzabili contributi risolutivi alla produzione del totale dell’energia ‘in grande’, cioè di quella relativa al fabbisogno dell’industria, del trasporto su ferro, del terziario ecc. Per soddisfare tale tipo di fabbisogno, realisticamente ci sono per ora soltanto le fonti del carbone e del nucleare da fissione: rinnovabili, combustibili fossili e nucleare servono tutti e convivono con mercati ‘dedicati’ diversi.
Lo scenario energetico italiano, al di là di questioni di convenienza nazionale, è per di più condizionato dai recenti vincoli internazionali che, entro il 2020, impongono di arrivare a un contributo delle fonti rinnovabili di almeno il 20% del fabbisogno complessivo e inoltre di ridurre le emissioni di gas serra del 20% rispetto alle emissioni del 1990. Il mancato adeguamento alle suddette norme comporterà sanzioni economiche a carico dello Stato inadempiente. In base a queste considerazioni, per i consumi elettrici italiani occorrerà inevitabilmente modificare la strategia complessiva del ricorso alle fonti primarie (mix energetico). A grandi linee il mix italiano relativo all’anno 2005 è riportato nella tab. 1, dalla quale si vede come sul totale di 310 TWh/anno di consumi finali l’energia elettrica prodotta da fonti che rilasciano CO2 in atmosfera (idrocarburi e combustibili solidi) rappresenti attualmente la parte ampiamente prevalente. Per quanto riguarda tali emissioni, è opportuno ricordare che, a parità di energia elettrica prodotta, nel luogo della combustione il carbone rilascia CO2 in misura quasi doppia rispetto al gas naturale e che la produzione di energia elettrica da combustibili fossili è responsabile di circa un terzo delle emissioni complessive di gas serra in Italia.
Anticipare il futuro
Le modifiche del mix energetico italiano, accompagnate da una serie di vincoli di varia natura (economica, tecnica, politica e ambientale), dovranno necessariamente realizzarsi con gradualità. Ma è possibile fin da ora delineare alcuni elementi guida per le scelte riguardanti almeno i prossimi due decenni, fissando le idee, per esempio, sullo scenario degli anni intorno al 2030, quando ragionevoli stime indicano in circa 450 TWh/anno l’ammontare di energia elettrica richiesta al consumo finale. Per allora dovrà essere stata realizzata, a livello di Unione Europea, una consistente riduzione della quantità di gas serra immesso in atmosfera. Sul fronte della produzione di energia elettrica,
tale riduzione dovrà essere perseguita agendo sia sulla quantità complessiva di combustibili bruciati (forte riduzione di idrocarburi e aumento limitato di carbone), sia sul miglioramento delle prestazioni delle centrali termoelettriche, sia sugli sviluppi di centrali di nuova concezione, sia su processi di cattura e sequestro di CO2. Per avere un’idea di come la situazione attuale vada cambiata basti ricordare che una centrale a carbone convenzionale da 1000 MWe produce in un anno circa 5 milioni di tonnellate di CO2 che vanno in atmosfera.
In Italia, per compensare la riduzione in assoluto del contributo delle fonti che producono gas serra e nello stesso tempo fronteggiare l’aumento del fabbisogno da 310 a 450 TWh/anno occorre dunque attrezzarsi tempestivamente per un crescente ricorso alle altre fonti. Dovrà crescere il contributo delle fonti rinnovabili con sostanziosi incrementi dei contributi da biomasse e rifiuti, da geotermico, da eolico e da solare; dovrà aumentare necessariamente anche l’importazione su cavo, per cui serviranno altri elettrodotti, e il nucleare da fissione dovrà essere recuperato a livelli significativi. Su quanto ci si può ragionevolmente aspettare dal solare è opportuno ribadire che l’energia solare è tanta in assoluto, ma distribuita con bassa densità superficiale di potenza. Per questo, sia che si usino specchi concentratori, sia che si ricorra a sistemi di celle fotovoltaiche, per avere alla fine l’equivalente di una centrale convenzionale da 1000 MWe servono aree coperte da pannelli o specchi di decine di km2. Quindi il ricorso all’energia solare sarà certamente da sostenere e sviluppare, ma il contributo complessivo avrà inevitabilmente dei limiti. Come accennato all’inizio, l’elaborazione di una valida strategia sul futuro dell’energia deve guardare verso orizzonti non troppo vicini nel tempo. Per esempio, gli anni intorno al 2030 sono un futuro più prossimo di quanto possa a prima vista apparire. Questo perché le decisioni relative alla situazione di quel periodo vanno prese con molto anticipo, cioè praticamente oggi. Le considerazioni alla base di uno scenario energetico plausibile per gli anni intorno al 2030 si basano su alcuni punti principali, che vale la pena di evidenziare con chiarezza. Come sempre quando si immagina il futuro, si è costretti a fare ipotesi, ovviamente suscettibili di modifiche anche significative, ma è opportuno vedere se si può comunque trarre qualche conclusione generale poco sensibile alle ipotesi stesse. Tali ipotesi sono sostanzialmente le seguenti: a) l’energia elettrica richiesta al consumo nel 2030 si aggira intorno ai 450 TWh/anno; b) il contributo dell’olio combustibile si azzera, quello del gas naturale si riduce, mentre si amplia il mercato dei fornitori, da cui la necessità di costruire gassificatori; c) il contributo del carbone cresce sia pure con vincoli sulle emissioni di gas serra (peraltro riguardanti anche il gas naturale); tali vincoli potrebbero essere rimossi se si riuscisse a mettere a punto adeguati processi industriali di cattura di anidride carbonica in centrale, il che implica notevoli sforzi di ricerca e sviluppo;
d) le fonti rinnovabili devono coprire almeno il 20% del fabbisogno, arrivando pertanto a non meno di 90 TWh/anno; questo obiettivo comporta un notevole impegno in ricerca e sviluppo; e) l’importazione su cavo deve crescere e portarsi a livelli intorno a 100 TWh/anno, rendendo necessaria la costruzione di diversi elettrodotti transalpini;
f) il nucleare da fissione interno deve ripartire in modo importante con reattori di terza generazione avanzata e forte impegno per ricerca e sviluppo anche in vista della prossima quarta generazione; il suo contributo dovrà avvicinarsi ai 100 TWh/anno;
g) il nucleare da fusione prosegue l’impegnativa fase di ricerca e sviluppo, portandosi più vicino agli obiettivi di utilizzabilità a livello commerciale. Da una prima analisi del problema emergono due conclusioni generali: in primo luogo le fonti primarie servono tutte, con mix adeguato a rispettare molti vincoli; in secondo luogo ci sono enormi spazi per ricerca e sviluppo che una nazione come l’Italia deve assolutamente riempire in modo mirato e a cominciare da subito.
Nuovo nucleare per l’Italia
L’uso dei reattori nucleari per produrre energia elettrica è un tema controverso su cui si discute da tempo, ma molte delle posizioni in campo nascono purtroppo da preconcetti in cui l’ideologia prende il sopravvento sulla competenza. Vale la pena di ricordare che circa il 15% del fabbisogno italiano è coperto da energia elettrica importata su cavo da paesi confinanti e che questa energia è prevalentemente prodotta con reattori nucleari dislocati a poca distanza dalle nostre frontiere. Per fornire tale energia, è come se otto centrali nucleari da 1000 MWe lavorassero a tempo pieno per l’Italia. In quello che segue si indica una possibile strategia per far ripartire in Italia un nucleare sicuro, venti anni dopo il bando deciso sull’onda dell’incidente della centrale di Cernobyl. L’attuazione di un realistico rientro dell’Italia nel settore nucleare implica una serie di decisioni all’interno di un quadro generale organicamente congegnato. In questa strategia di ampio respiro non si potrà fare a meno di coinvolgere, in modo sinergico, stimolato e adeguatamente sostenuto, tutte le notevoli competenze specifiche ancora esistenti nelle strutture pubbliche e private presenti in Italia (università, enti di ricerca, industria).
Alla base di tale strategia si pongono alcune considerazioni di carattere generale, alle quali se ne possono aggiungere altre di contorno. La prima considerazione è che l’Italia, dopo tanti anni di mancanza, non può più fare a meno di un Piano energetico nazionale equilibrato e lungimirante. La stesura di tale cruciale strumento programmatico richiede il coinvolgimento di un arco di forze politiche molto ampio, anche perché i tempi di realizzazione di centrali ed elettrodotti superano abbondantemente la durata di una legislatura. Siccome si tratta di questioni di interesse nazionale che, almeno in linea di principio, non si prestano ad avere colori politici troppo marcati, il Parlamento, al di sopra degli opposti schieramenti, deve poter maturare decisioni con ampio e ben pubblicizzato consenso, che renda trascurabile il rischio di ripensamenti localistici o di pronunciamenti popolari orchestrati a posteriori. Di decisioni sicure e di certezze normative e autorizzative ha assoluto bisogno chi, pubblico o privato, è chiamato a consistenti investimenti a redditività differita. In particolare, su questioni di superiore interesse nazionale, non sembra rinviabile la revisione delle norme relative alla gerarchia tra potere statale e prerogative regionali o comunali. Una volta arrivati a stabilire che l’Italia debba reinserirsi a pieno titolo nel foltissimo gruppo di paesi industrializzati che producono energia elettrica da fonte nucleare, è fondamentale chiarire i punti principali su cui basare la scelta dei nuovi impianti nucleari in Italia. Questi punti sono essenzialmente quattro, e cioè: a) massima sicurezza intrinseca e alto livello di standardizzazione internazionale; b) eliminazione dei problemi connessi alla gestione locale delle scorie radioattive; c) importante inserimento dell’industria italiana già a partire dalla fase di progettazione; d) coinvolgimento delle strutture nazionali di ricerca in possesso di adeguate competenze scientifiche e tecniche.
Ogni attività di produzione e gestione di energia nucleare richiede l’esistenza di adeguati organi istituzionali di certificazione e controllo. In Italia tali organi, una volta esistenti e funzionanti, si sono andati progressivamente indebolendo, così che ora le competenze necessarie sono restate in possesso di un numero troppo ridotto di esperti. È dunque necessario attuare un tempestivo processo di formazione di esperti per gli organi di controllo indirizzato a fisici, ingegneri e tecnici, con corsi ufficiali di adeguata durata da erogare e certificare da strutture pubbliche come l’università, in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità e con l’ENEA. In pratica, occorre pensare a una struttura finale composta da molte decine di unità di personale ad alta qualificazione. Nell’ambito di un più vasto processo formativo, andrebbe anche considerata una non trascurabile attività indirizzata, a vari livelli, ai problemi energetici in generale.
Ipotizzando un non lontano rientro dell’Italia nel nucleare, l’analisi della situazione attuale relativamente allo stato di evoluzione delle tecnologie indica che ci troviamo nel pieno di una terza generazione avanzata di reattori di tipo ‘termico’, caratterizzata da altissimi livelli di sicurezza e affidabilità e da un ciclo di combustibile ‘aperto’, nel quale cioè l’uranio viene bruciato una sola volta nel reattore per poi essere inviato al riprocessamento con scorie finali destinate al deposito geologico. L’utilizzo di reattori di terza generazione può avvenire già in un prossimo futuro (2010-15). Esempi di questi reattori di grossa potenza (maggiore di 1000 MWe) sono l’EPR franco-tedesco e l’americano AP1000 della Westinghouse (alla cui progettazione partecipa l’Ansaldo italiana). Oltre a un’iniziativa italiana da tempo sviluppata sotto la guida di docenti dell’Università di Roma ‘La Sapienza’, che ha prodotto il progetto di reattore modulare intrinsecamente sicuro denominato MARS, si trova anche in avanzata fase di sviluppo un reattore innovativo di bassa potenza, modulare, denominato IRIS, realizzato da un consorzio internazionale di 21 istituzioni di 10 paesi (USA, Regno Unito, Giappone, Russia, Italia, Spagna ecc.), sotto la leadership della Westinghouse. Le strutture italiane attive nel progetto sono i Politecnici di Milano e di Torino, l’Università di Pisa, l’ENEA, l’Ansaldo, la Camozzi, la SIET. Questo reattore entrerà nel mercato mondiale nel 2015. Caratteristica molto interessante di IRIS è che il sistema è modulare, con il modulo unitario (335 MWe) che viene sostituito integralmente ogni 4-5 anni. Il venditore ritira il vecchio, installa il nuovo e si fa carico della gestione delle scorie nella sede di produzione. Il problema dei siti in cui installare i nuovi reattori è legato alla prevedibile reazione negativa delle popolazioni locali. Tale reazione dovrebbe essere affrontata con argomenti di tipo razionale, non dissimili da quelli accettati come convincenti, per esempio, da molte regioni francesi. Una volta chiarito che non si tratta di ospitare un mostro nucleare, il problema si riduce a quello di compensare adeguatamente una servitù non pericolosa. Nel caso della Francia i vantaggi per la regione ospitante si concretizzano in nuove infrastrutture, in bollette elettriche ridottissime, in facilitazioni per nuovi investimenti industriali, in conseguente incremento dell’occupazione locale. Anche se la soluzione offerta dal reattore IRIS solleva il compratore dall’onere della gestione nel proprio paese delle scorie radioattive prodotte nell’esercizio della centrale, resta pur sempre il vincolo che un ampio sviluppo dell’energia nucleare richiede la soluzione del problema della sua generale sostenibilità in termini ambientali e sociali, in particolare per quanto riguarda la gestione delle scorie radioattive di lungo tempo di decadimento. Tali scorie, essenzialmente costituite da elementi transuranici come plutonio e attinidi minori (tra cui americio, nettunio, curio ecc.), hanno radiotossicità che, decadendo, scende al di sotto di quella dell’uranio naturale in tempi che possono arrivare al milione di anni. Per avere un’idea delle grandezze in gioco, basti ricordare che un reattore termico del tipo attuale da 1000 MWe operante a ciclo aperto, nell’arco di un anno, immette nella rete 6-7 miliardi di kWh e produce circa 21 tonnellate di combustibile irraggiato (20 t di U-238, 200 kg di isotopi di plutonio, 750 kg di prodotti di fissione a breve vita media e 20 kg di attinidi minori che costituiscono la componente a vita lunga). Il punto cruciale è di arrivare a disporre di una tecnica di trattamento industriale delle scorie capace di ottenere un drastico contenimento sia dei volumi da collocare in depositi definitivi, sia del tempo necessario a raggiungere il livello iniziale di radioattività del combustibile usato per produrre energia. Un ordine di grandezza ritenuto accettabile per tale tempo è di qualche centinaio di anni. Tempi di questo tipo vengono ritenuti gestibili con strutture e tecniche già esistenti. L’approccio già da anni individuato, sul quale si sta da tempo sviluppando un robusto sforzo di ricerca e sviluppo su scala mondiale, si basa sulla separazione e trasmutazione. La fase di separazione, con processi chimico-fisici già disponibili, ha il compito di separare plutonio e uranio, in gran parte riutilizzabili come combustibili, e inoltre isolare tra le scorie i materiali più pericolosi. La successiva fase di trasmutazione serve invece a convertire tali materiali in prodotti stabili o a vita media breve, tramite un adeguato bombardamento con neutroni prodotti in sistemi di trasmutazione dedicati (‘reattori veloci bruciatori di scorie’ di tipo critico oppure sotto-critico sostenuto da acceleratore). La parte relativa al processo di trasmutazione è quella su cui nel mondo si sta concentrando un rilevante sforzo di ricerca e sviluppo verso soluzioni industriali economicamente convenienti. Per quanto riguarda le considerazioni generali di contorno, non è vero che, in tema di energia nucleare, in Italia si siano esaurite le notevoli competenze a suo tempo ben presenti in enti di ricerca, università e industria. Certamente, negli ultimi venti anni, non sono state aiutate ad ampliarsi e a trasmettersi adeguatamente alle nuove generazioni. Ma la significativa presenza italiana in progetti avanzati, peraltro condotti in contesti internazionali, indica che c’è ancora una notevole base su cui ripartire senza grandi difficoltà. È ovvio che diventa urgente inserire elementi giovani a fianco degli esperti senior ancora in attività, affinché sia possibile la necessaria trasmissione di saperi tra generazioni.
Né è vero, altresì, che un rientro nel nucleare, dopo un così lungo periodo di blocco, avrebbe costi enormi per la necessità di ricostruire tutto da zero. L’approccio non è più quello di dar vita, in sede nazionale, a grandi strutture progettuali capaci di seguire tutti i passi realizzativi che vanno dal disegno concettuale al progetto esecutivo, dalle certificazioni alla costruzione materiale della centrale. Oggi i progetti vengono prodotti e certificati in collaborazioni internazionali e successivamente concessi ai paesi interessati per la realizzazione. In questo modo, se la nazione che intende costruire un nuovo reattore dispone al suo interno di una struttura industriale capace di costruire tutto o parte dell’impianto, buona parte dell’investimento finale resta all’interno della nazione stessa. Ancora, non è vero che bisogna aspettare la soluzione finale del problema della gestione delle scorie radioattive prima di ricominciare a pensare al nucleare in Italia. Non va infatti dimenticato che i tempi tipici dei processi necessari per tali gestioni sono molto lunghi e che comunque passano decine di anni, tra raffreddamenti e trattamenti, prima che si arrivi al passo finale dello stoccaggio nel deposito geologico definitivo. L’approccio attuale è che, in attesa della realizzazione del sistema di trasmutazione più conveniente, le scorie vanno trattate senza processi irreversibili e tenute in immagazzinamento temporaneo in siti industriali sicuri (v. anche il tema Nucleare, p. 371).
È invece vero che, sul fronte dell’opinione pubblica, esiste in Italia, più che in altri paesi, un problema di diffusa diffidenza o di aperta ostilità verso ogni cosa che abbia a che fare con la tecnologia (impianti nucleari, elettrodotti, grandi ponti, gallerie, autostrade, treni veloci, rigassificatori, antenne telefoniche, inceneritori, termovalorizzatori, centrali elettriche ecc.). È opinione molto condivisa in Italia che esistano gravi carenze nel sistema infrastrutturale del paese e che questo contribuisca non poco alla minore capacità di crescita rispetto agli altri paesi industrializzati. Quando però ci si avvicina a qualche decisione in merito, l’elenco dei no si allunga e pone serissime difficoltà a chiunque, pubblico o privato, voglia mettere mano alla costruzione di infrastrutture. Per ricondurre questo fenomeno a limiti fisiologici e contenere il diffondersi della psicosi del no, è necessario recuperare al più presto un panorama informativo serio ed equilibrato. Questo obiettivo non è facile da raggiungere, dal momento che i mezzi di informazione, per lo più inclini al sensazionalismo e al catastrofismo di cassetta, non mostrano attualmente di voler puntare a seri approfondimenti diretti a maturare nuove consapevolezze e a impegnarsi a diffonderle adeguatamente. Ma sarebbe riduttivo addossare ai mezzi di informazione tutta la colpa dell’esistenza e della visibilità del ‘popolo del no’. Purtroppo alla base del fenomeno c’è anche una preoccupante gracilità scientifica della maggioranza degli italiani. Non tanto e non solo perché mancano cognizioni scientifiche diffuse, ma piuttosto perché, nella gran parte delle nostre scuole, non viene adeguatamente curata un’impostazione sistematica di approcci mentali in cui il rigore logico sia l’elemento prevalente. In via generale, perciò, serve operare per ricostruire un rapporto di fiducia tra sistema ricerca, addetti all’informazione e scuola. Sarà una bella sfida per tutte le istituzioni culturali italiane.
repertorio
Lo sviluppo degli studi sull’elettricità
La proprietà di alcuni materiali, come per es. l’ambra, di attirare minuscoli corpi leggeri quando siano strofinati era già nota agli antichi (Talete, Teofrasto, Plinio), ma fu solo sul finire del 16° secolo che l’inglese W. Gilbert formulò in maniera più precisa il concetto di stato elettrico (o elettrizzazione), chiamando effetti elettrici i fenomeni attrattivi determinati dall’ambra, ma anche da vetro, resine, zolfo ecc. La prima applicazione ‘di consumo’ di elettricità risale alla metà del 18° secolo, quando B. Franklin identificò il fulmine in una scintilla elettrica e inventò il parafulmine. Da quel 1752, grazie alla ricerca e alle sperimentazioni di numerosi studiosi e inventori, il campo legato alla produzione, alla trasformazione, al trasporto e alla distribuzione dell’energia elettrica ha avuto sviluppi allora certamente inimmaginabili, con una crescita e una ricaduta in ambiti anche molto diversi tra loro, quali la teoria dei circuiti, lo studio delle macchine elettriche, gli impianti elettrici, i circuiti elettronici di potenza. Nel 1785-87, C.-A. Coulomb pose le basi della teoria delle azioni elettriche a distanza con l’enunciazione della legge per l’attrazione o la repulsione reciproca di cariche elettriche. Su queste basi, accettando l’ipotesi dei due fluidi elettrici, S.-D. Poisson costruì (1811) una prima teoria matematica delle azioni elettriche, e poi quella analoga delle azioni magnetiche. A questi sviluppi contribuì molto l’introduzione di una nozione, di cui si trovano i primi accenni nelle opere di J.-L. Lagrange (1777) e di P.-S. Laplace (1784), e che si precisò poi in quella che G. Green (1828) chiamò funzione potenziale e K.F. Gauss (1840) potenziale. Ai progressi dell’elettrologia delle cariche statiche (elettrostatica) s’intrecciano, sin dalla fine del 18° secolo, i primi sviluppi della dinamica elettrica, in conseguenza della fondamentale scoperta di una elettricità ‘dinamica’, dovuta ad A. Volta, che sul finire del 1799 costruì la prima pila. La legge di Ohm, le leggi di Kirchhoff, le ricerche sperimentali sulla conducibilità elettrica, la legge di Joule, che seguirono nel successivo cinquantennio, costituiscono l’intelaiatura, tuttora valida, a parte eventuali diverse interpretazioni, della teoria delle correnti elettriche. Nel frattempo la constatazione, nel 1820, da parte del danese H.C. Oersted, che l’ago di una bussola devia in prossimità di un conduttore percorso da corrente elettrica, aveva segnato l’atto di nascita dell’elettromagnetismo. I primi essenziali contributi arrivarono da P.-S. Laplace e A.-M. Ampère con le loro leggi sulle azioni meccaniche che si esercitano tra correnti e magneti (Laplace) e su quelle che si sviluppano tra due elementi di corrente (Ampère). Nel 1830-31 M. Faraday scoprì, con i suoi classici esperimenti, il fenomeno dell’induzione elettromagnetica (l’insorgere di correnti indotte nei circuiti posti sotto l’influenza di magneti mobili o di correnti variabili). Dalle contrastanti interpretazioni di questi risultati ebbero vita, tra il 1840 e il 1866, a opera di F.E. Neumann, H. Grassmann, H. Helmholtz, G.R. Kirchhoff, C.G. Neumann, W.E. Weber, R. Clausius ecc., varie teorie sull’elettromagnetismo, mentre altri fisici, come G. Wiedemann, C. Felici, C. Wheatstone, G. Matteucci, con nuove esperienze confermavano l’identità sostanziale fra l’elettricità statica e quella dinamica e preparavano la via alle applicazioni, iniziatesi con la telegrafia (è del 1866 la posa del primo cavo transatlantico). Questo complesso di ricerche teoriche e sperimentali, sviluppatesi durante oltre 150 anni, aprì la strada sia allo sviluppo dell’elettrotecnica (a partire dalla macchina di C. Pacinotti, 1860), sia alla nuova scienza dell’elettricità fondata da J.C. Maxwell. La sua idea più geniale, che diede immensa portata fisica alla sua teoria, è forse quella che la corrente di induzione sia capace degli stessi effetti magnetici prodotti dalle correnti ordinarie, le correnti di conduzione.
Nel 1892 H. Hertz annunciava di aver ottenuto in laboratorio le onde elettromagnetiche previste da Maxwell, con risultati perfettamente coerenti. Dopo tali esperimenti la teoria di Maxwell divenne oggetto di generale discussione e ne seguirono importanti sviluppi in molti altri capitoli della elettrofisica. Infine, si giunse al concetto dell’intrinseca costituzione granulare dell’elettricità in genere: essa sarebbe costituita da granuli elementari, positivi o negativi, ma aventi lo stesso valore assoluto della carica. A tali ipotetici corpuscoli fu dato genericamente il nome di elettroni (G.J. Stoney, 1891), ma in seguito tale denominazione fu riservata alle sole particelle negative, di cui numerose esperienze (scarica nei gas rarefatti, emissione radioattiva ecc.) non solo dimostrarono la esistenza, ma permisero di determinare le proprietà: carica elettrica negativa invariabile e uguale per tutte (carica elementare) e una massa estremamente piccola. La carica elettrica positiva o negativa di un corpo elettrizzato fu spiegata rispettivamente con un difetto o un eccesso di elettroni rispetto alle cariche positive nel corpo stesso; le correnti elettriche nei solidi furono attribuite al movimento di elettroni (elettroni di conduzione) nei conduttori sotto l’azione di forze elettriche, o in qualche caso anche meccaniche. Con l’assetto definitivo di questa teoria, dovuto a H.A. Lorentz (1892) e ai suoi continuatori, pareva che nulla vi fosse più da investigare in fatto di leggi fondamentali. Si dovette però ben presto constatare che la teoria rivelava, nel confronto con l’esperienza, contraddizioni essenziali che furono in seguito sanate applicando la statistica corretta di Fermi-Dirac (1926), per giungere infine alla moderna teoria elettronica che dà conto dei fenomeni di conduzione trattando gli elettroni in termini di meccanica quantistica.
repertorio
La distribuzione di energia elettrica in Italia
Dai primordi agli anni 1950
Il primo servizio di distribuzione pubblica di energia elettrica in Europa entrò in funzione il 28 giugno 1883 a Milano, come risultato dei lavori svolti dal Comitato per le applicazioni dell’elettricità in Italia, che l’anno prima era stato fondato sotto la guida di G. Colombo appunto con lo scopo di realizzare una centrale elettrica per la città. Il progetto della centrale fu approvato direttamente da T.A. Edison che, responsabile di notevoli perfezionamenti apportati alla dinamo (1879) e grazie alle applicazioni che ne derivarono, aveva realizzato a New York la prima centrale elettrica del mondo. Colombo, che ebbe modo di incontrare lo scienziato americano in occasione di un viaggio compiuto negli USA per studiare da vicino quel progetto pionieristico, aveva stabilito che la centrale milanese di Santa Redegonda utilizzasse il sistema Edison e fosse concettualmente molto simile a quella di New York. Il 6 gennaio 1884 si costituì la società Edison (con ragione sociale Società generale di elettricità sistema Edison), diretta derivazione del Comitato per le applicazioni dell’elettricità in Italia. Verso la fine degli anni 1880, la rapida evoluzione dell’elettrotecnica suggeriva concretamente la possibilità del trasporto dell’energia elettrica a grandi distanze e, in considerazione degli alti costi di gestione delle centrali termoelettriche dovuti soprattutto al prezzo del carbone, suggeriva anche l’utilizzo delle risorse idriche per la produzione di energia elettrica. La Edison iniziò nel 1890 il progetto di una centrale idroelettrica, che entrò in funzione solo sei anni dopo a causa della recessione che aveva coinvolto l’economia italiana. L’impianto di Paterno d’Adda, ancora in funzione con il nome di Centrale Bertini, rendeva l’elettricità molto più accessibile e la sua primaria applicazione divenne la forza motrice. La quantità di energia elettrica richiesta sul mercato era diventata otto volte superiore a quella disponibile sino a poco tempo prima e, per soddisfare tale esigenza, la Edison costruì una nuova rete di distribuzione trifase, che nel 1900 si estendeva per 180 km, di cui 80 ad alta tensione, coprendo l’intera città di Milano. L’espandersi della domanda di elettricità spinse la Edison ad associarsi ad altre aziende e, in questa ottica, nacquero nel 1901 le collaborazioni con la Società Conti e C., che costruì un impianto sul fiume Brembo, e con la Trezzo d’Adda, che avrebbe costruito un impianto sull’Adda. Nonostante ciò, la politica tariffaria della Edison (1 lira al kWh contro 0,6 lire al kWh in altre città) fece maturare, soprattutto nell’ambiente dei gruppi tessili, grandi consumatori di energia, l’idea di un’alternativa alla Edison, alla quale nel 1903 non vennero rinnovati i contratti di fornitura di energia, e di costruzione di una centrale termoelettrica comunale. La Edison dovette abbassare le tariffe per fronteggiare la concorrenza e tra il 1904 e il 1906 il prezzo dell’energia elettrica si portò a 0,65 lire al kWh. Ma ormai la concorrenza tra il Comune e la Edison era aperta e, fra il 1907 e il 1910, fu costruito l’impianto idroelettrico comunale di Grosotto, il primo mai realizzato, che raccoglieva le acque dell’alto corso dell’Adda con un canale derivatore di 12 km e inviava a Milano l’energia prodotta, con un elettrodotto trifase a 65.000 volt, lungo ben 150 km. L’impianto ebbe una importante azione calmieratrice sul costo dell’energia elettrica che nel 1910 a Milano era pari a 0,4 lire/kWh. In quell’anno, con un referendum popolare, si costituì un’Azienda Elettrica Municipale (AEM) per la gestione di tutti gli impianti elettrici comunali nonché per il servizio della illuminazione pubblica.
Analoghe aziende nacquero nelle varie regioni d’Italia. A Roma, nel 1909 fu fondata l’AEM di Roma per l’illuminazione pubblica e privata e nel 1912 fu inaugurata la Centrale Montemartini, che fino al 1945 sarebbe rimasta l’unica a gestire il fabbisogno energetico della capitale. Nel 1937, incaricata di costruire e gestire gli acquedotti e le reti idriche di distribuzione per la città, l’AEM prese il nome di AGEA (Azienda Governatoriale Elettricità e Acque), che nel 1945 sarebbe diventata l’ACEA (Azienda Comunale Elettricità e Acque). Intorno al 1910, quando ormai l’elettricità era considerata come una risorsa energetica fondamentale per lo sviluppo industriale, lo stabilirsi di zone di influenza gestite da società per la distribuzione dell’energia elettrica diede alla fisionomia dell’industria elettrica italiana un aspetto ‘definitivo’. Le aziende capofila, oltre la Edison che operava in Lombardia, Emilia e Liguria, erano la SADE che si occupava del Veneto e di parte dell’Emilia, la SIP per il Piemonte, la Centrale per Toscana, Lazio e Sardegna e la SME in Sicilia e in alcune regioni del Sud. Il secondo decennio del Novecento fu caratterizzato da una domanda sempre maggiore di energia elettrica con una crescita parallela dei consumi industriali legati soprattutto alle produzioni belliche. Dal primo dopoguerra la Edison, ormai radicata nella sua posizione di azienda leader nel campo, iniziò una rapida e notevole espansione, assorbendo altre industrie elettriche minori. Concentrò quindi il proprio impegno nella realizzazione di impianti idroelettrici che prevedevano investimenti di una certa entità, ma erano caratterizzati da un basso costo di esercizio. La Edison riuscì presto a estendere la propria potenza industriale su buona parte dell’Italia settentrionale, pur condividendo la scena elettrica milanese con la AEM, che verso la fine degli anni Venti assunse una certa importanza. Tra il 1928 e il 1932 fu l’AEM a provvedere alla costruzione in Valtellina di due nuove linee di trasporto di elettricità (130.000 volt), che sostanzialmente raddoppiavano la potenza delle precedenti quattro linee del 1910, con una lunghezza complessiva della rete di 500 km circa.
La nazionalizzazione e il ruolo dell’ENEL
Alla fine degli anni 1950 la gestione dell’elettricità in Italia era a cura di aziende medio-piccole, situate in varie regioni del paese, con una sorta di controllo centralizzato a opera di poche aziende principali. Il boom economico, incrementando enormemente i consumi, rese palese l’insufficienza del sistema elettrico e della sua struttura alla quale si pensò di sopperire con la l. 6 dicembre 1962, nr. 1643, che disponeva la nazionalizzazione dell’industria elettrica e il relativo trasferimento all’ENEL (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica) delle oltre 1200 imprese esercenti attività elettriche, fatta eccezione per le aziende municipalizzate e le imprese autoproduttrici (che potevano generare elettricità unicamente per i propri consumi). Un certo peso nella decisione politica di spingere verso una nazionalizzazione della energia elettrica, già realizzata in Francia e in Inghilterra, ebbe la volontà di spezzare il meccanismo per il quale le grandi aziende del settore reinvestivano gli utili in acquisizioni e partecipazioni in altri settori, con possibili conseguenti ricadute e discutibili influenze negli ambienti industriale, politico e della ricerca scientifica.
Nei primi anni della sua attività l’ENEL svolse soprattutto un ruolo di coordinamento degli impianti di produzione, di trasporto e di trasformazione, attraverso un attento studio del diagramma di carico nazionale e di quelli locali e una programmazione dell’erogazione, centrale per centrale. Si trattò di una impegnativa e costosa riorganizzazione, sia tecnica sia gestionale, volta a superare la frammentazione che aveva caratterizzato il sistema precedente in favore di una centralizzazione che prevedeva un controllo da parte del governo su tutti i servizi primari. Tra i risultati importanti di questa razionalizzazione, negli anni 1970 si ebbe una notevole diminuzione del percorso medio dell’energia dalla produzione all’erogazione, nonché il potenziamento della rete di distribuzione, in particolare l’elettrificazione rurale con la realizzazione di infrastrutture adeguate anche nelle zone geograficamente più aspre e di più difficile raggiungimento. Intanto, già dalla metà degli anni 1960, la produzione di energia elettrica si era sempre più orientata verso il maggiore utilizzo delle fonti fossili (soprattutto l’olio combustibile); la fonte idroelettrica aveva visto ridurre la propria quota di produzione, mentre quella geotermica continuava a fornire un apporto costante seppure marginale. Infine l’indisponibilità della fonte nucleare, che nel 1987 fu definitivamente annullata da un referendum popolare, rafforzò ulteriormente la necessità di un più razionale utilizzo degli impianti già esistenti con interventi di innovazione tecnologica, e di diversificare da una parte le aree di provenienza dei combustibili e dall’altra il ricorso alle varie fonti primarie, privilegiando l’utilizzo delle fonti rinnovabili.
La liberalizzazione del mercato elettrico
Se la nazionalizzazione del 1963 aveva concesso all’ENEL e alle aziende municipalizzate il diritto esclusivo di produrre e vendere elettricità, lasciando agli altri operatori la possibilità di generarne un quantitativo limitato solo ai propri consumi, nei primi anni 1990 ha avuto inizio un processo di progressiva liberalizzazione, accompagnato dalla privatizzazione dell’ente elettrico (divenuto nel 1992 Enel SpA).
La l. 9 gennaio 1991, nr. 9, liberalizzò la produzione dell’elettricità vincolandola, secondo parametri e percentuali stabiliti, a impianti di cogenerazione (per la produzione combinata di elettricità e calore tramite un unico impianto con un rendimento complessivo superiore alla generazione separata dei due vettori energetici), alle fonti rinnovabili (sole, vento, risorse idriche, risorse geotermiche ecc.) e all’utilizzo di rifiuti, con la facoltà di autoconsumare o cedere alla rete nazionale. Nel 1994 l’area relativa alla determinazione delle tariffe elettriche passò al Ministero dell’Industria, artigianato e commercio, ma l’anno dopo (l. 14 novembre 1995, nr. 481) fu costituita l’Autorità per l’energia elettrica e per il gas, con l’incarico di regolamentare il settore secondo le indicazioni del governo, ovverosia fissare le condizioni tecnico-economiche di accesso alla rete di trasmissione, garantire a tutti gli utenti della rete un’assoluta parità di trattamenti e una imparzialità del servizio di trasmissione, stabilire la composizione delle tariffe elettriche, rispetto sia alle aziende produttrici, per l’uso della rete elettrica (e del gas), sia ai ‘clienti finali’, cioè gli utenti che stipulano un contratto di fornitura con il distributore operante nella loro area di residenza. Una tappa fondamentale nel percorso di liberalizzazione del mercato elettrico è stato segnato dal ‘decreto Bersani’ (d.l. 79, 16 marzo 1999), separando le attività di generazione, importazione, acquisto e vendita di energia elettrica da quelle di trasmissione e distribuzione, e definendo inoltre le attività e i ruoli dei diversi operatori nel nuovo assetto di mercato, con una delega delle funzioni, precedentemente ripartite tra lo Stato e l’Enel, a nuovi organismi. Tra questi, ha un ruolo fondamentale il GRTN (Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale), un organismo indipendente con funzioni relative al dispacciamento dell’energia elettrica (serie di attività che servono a disporre, organizzare e coordinare il sistema di utilizzazione e l’esercizio degli impianti di produzione, della rete di trasmissione e dei servizi ausiliari) e all’accesso alla rete di trasmissione nazionale. Il GRTN, a sua volta, ha costituito due società indipendenti: l’Acquirente Unico e il Gestore del Mercato. Il primo, operativo dal 1° aprile 2004, ha un ruolo di ‘protezione’ nei confronti del cliente finale, garantendo fornitura e condizioni identiche per tutti i clienti che si riferiscono allo stesso distributore. Il Gestore del Mercato, ugualmente operativo dal 1° aprile 2004, regola il mercato allo scopo di garantire il dispacciamento dell’energia elettrica prodotta sulla base del suo valore economico, a partire da quella con costi minori e privilegiando l’energia da fonti rinnovabili. Nell’organizzazione del mercato ha un ruolo importante la ‘Borsa dell’energia’, una sorta di vendita all’ingrosso basata su un meccanismo di asta, i cui operatori possono scambiare energia anche all’esterno, siglando contratti bilaterali dove prezzi e quantità scaturiscono da un accordo negoziale privato. Lo scopo è mantenere un efficace equilibrio tra la domanda e l’offerta di energia elettrica, favorendo la competizione.
Il decreto Bersani, inoltre, stabilendo che la distribuzione dell’energia elettrica dovesse essere espletata da un’unica impresa in ogni Comune, ha incoraggiato fortemente le aziende (ex municipalizzate) che erano attive nelle singole città ad acquistare dall’Enel reti di distribuzione metropolitane. Infine, stabilendo che dal 1° gennaio 2003 nessun soggetto potesse produrre o importare, direttamente o indirettamente, più del 50% del totale dell’energia elettrica prodotta e importata in Italia, si è venuto a rompere il predominio dell’Enel che ha conseguentemente venduto numerose centrali elettriche. Nel novembre 2005 il ramo di azienda del GRTN è stato acquistato da TERNA (Trasmissione Elettricità Rete Nazionale), la società responsabile della trasmissione e del dispacciamento dell’energia elettrica sulla rete ad alta e altissima tensione su tutto il territorio nazionale. In ottemperanza alla Direttiva comunitaria 2003/54, per la quale gli Stati membri dell’Unione Europea a partire dal 1° luglio 2007 devono mettere in campo misure adeguate per rendere i clienti domestici del mercato elettrico liberi di scegliere il proprio fornitore, il 9 giugno 2006 il governo italiano ha varato un disegno di legge per completare la liberalizzazione dei settori dell’energia elettrica e del gas naturale e per il rilancio del risparmio energetico e delle fonti rinnovabili. In attesa del completamento dell’iter parlamentare del provvedimento, il 15 giugno 2007 il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge che introduce la libera scelta del fornitore di energia elettrica per i privati cittadini e le imprese con meno di 50 dipendenti e un fatturato inferiore a 10 milioni di euro. Il compito di determinare le condizioni di erogazione e le tariffe di riferimento per le forniture spetta all’Autorità per l’energia elettrica e per il gas.