Elettrochimica e fotoelettrochimica: aspetti energetici
Elettrochimica e
fotoelettrochimica: aspetti
energetici
di Marina Mastragostino
SOMMARIO: 1. Introduzione. ▭ 2. Celle elettrochimiche: a) principî e aspetti energetici; b) tipi di batterie e loro funzionamento; c) celle a combustibile. ▭ 3. Celle fotoelettrochimiche: a) principî e aspetti energetici; b) evoluzione delle celle fotoelettrochimiche. ▭ Bibliografia.
1. Introduzione.
Gli studi sulla conversione fra le diverse forme d'energia sono sempre stati fondamentali per lo sviluppo della scienza e l'avanzamento della tecnologia. I famosi esperimenti di Galvani e Volta hanno favorito la nascita e lo sviluppo dell'elettrochimica, disciplina che studia la conversione di energia chimica in energia elettrica, e viceversa, il cui elemento base è la cella, costituita da due elettrodi metallici in contatto con almeno una soluzione elettrolitica. Tale cella può funzionare da cella galvanica, e in questo caso trasforma spontaneamente energia chimica in energia elettrica, oppure da cella elettrolitica, e allora trasforma energia elettrica in energia chimica a spese di una sorgente esterna (v. elettrochimica, vol. VIII).
Le pile (o batterie) quando forniscono energia funzionano da celle galvaniche, convertendo direttamente in energia elettrica l'energia chimica di una reazione spontanea di ossidoriduzione:
RI + OII → OI + RII, (1)
dove RI e OI sono le forme ridotta e ossidata di una specie chimica I, mentre RII e OII quelle di una specie chimica II. In una cella elettrochimica il procedere della reazione (1) è il risultato delle due semireazioni di trasferimento di carica agli elettrodi, del flusso di elettroni nel circuito esterno e del flusso ionico in soluzione. A un elettrodo avviene l'ossidazione RI → OI + e-; gli elettroni (e-) fluiscono poi attraverso il circuito esterno e raggiungono l'altro elettrodo, dove avviene la reazione di riduzione OII + e- → RII, con il flusso ionico che chiude il circuito. La corrente elettrica continua a fluire fino a che la reazione (1) può procedere spontaneamente, cioè fintanto che la variazione di energia libera (ΔG) della reazione (1) è negativa (ΔG 〈 0, criterio di spontaneità di una reazione chimica). Con il procedere della reazione (1) la variazione di energia libera diminuisce fino a diventare uguale a zero (ΔG = 0) quando viene raggiunto l'equilibrio chimico: in questa situazione non vi è più passaggio di corrente elettrica, i reagenti sono esauriti e la batteria è scarica. Per ricaricare la batteria è necessario ripristinare i reagenti; a tal fine bisogna far avvenire la reazione (1) in direzione opposta, cioè in una direzione non spontanea (ΔG 〉 0) e questo può essere fatto solo utilizzando energia elettrica esterna. Durante la fase di carica si ha la conversione di energia elettrica in energia chimica e quindi la cella funziona da cella elettrolitica.
Gli studi sulla conversione dell'energia solare in energia chimica e in energia elettrica hanno portato allo sviluppo di due nuove discipline, la fotochimica e la fotoelettrochimica. L'energia solare è largamente utilizzata in natura per un importante processo fotosintetico: la luce assorbita dalle piante a opera della clorofilla rende possibile, attraverso un complesso meccanismo, una reazione chimica non spontanea (ΔG 〉 0) fra anidride carbonica e acqua, con formazione di ossigeno e di carboidrati a elevato contenuto d'energia. Ci si è così posti l'ambizioso obiettivo di realizzare sistemi fotosintetici artificiali che convertano in modo efficiente l'energia solare, così come avviene in natura, nell'energia chimica di combustibili ad alto contenuto energetico, come ad esempio l'idrogeno, partendo da una specie chimica abbondante come l'acqua.
La radiazione solare, visibile e ultravioletta, quando viene assorbita da una specie chimica S, funziona da pompa intramolecolare di elettroni: l'energia del fotone (hν) assorbito promuove un elettrone da un livello a più bassa energia a uno a energia più alta, con produzione di una coppia buca-elettrone (h+ e-), cioè di uno stato eccitato S*, con caratteristiche ossidanti e riducenti maggiori di quelle della specie S allo stato fondamentale. Se si riuscisse a separare la coppia fotogenerata, h+ e-, l'elettrone potrebbe essere ceduto per trasferimento elettronico intermolecolare a una specie chimica OI (con riduzione di OI a RI) e la buca potrebbe accettare elettroni da una specie chimica RII (con ossidazione di RII a OII); allora, per azione della radiazione luminosa avverrebbe la reazione OI + RII → RI + OII, una reazione che al buio non potrebbe avvenire in quanto non spontanea (ΔG 〉 0). L'energia luminosa sarebbe quindi convertita nell'energia chimica delle specie RI e OII, in grado poi di reagire spontaneamente per dare OI e RII. Quindi, mentre in una cella elettrochimica per promuovere una reazione non spontanea si utilizza energia elettrica fornita dall'esterno, in questo sistema fotochimico si utilizzerebbe l'energia solare assorbita dalla specie S.
D'altra parte, gli stati eccitati hanno vita molto breve (in fase liquida dai nanosecondi ai millisecondi); le buche e gli elettroni si ricombinano con emissione di calore (qualche volta con emissione di luce, come nel caso della fosforescenza) prima che possano avvenire i processi di trasferimento elettronico intermolecolare e quindi l'energia luminosa non è convertita in energia chimica, ma degradata a calore. Per riuscire a utilizzare la radiazione solare in una forma diversa dal calore bisogna riuscire a separare la coppia fotogenerata h+ e- prima che si ricombini.
La separazione buca-elettrone, che costituisce il maggior problema in un sistema fotochimico, avviene invece in modo efficace a opera del campo elettrico che spontaneamente si forma all'interfase fra un semiconduttore e una soluzione liquida. A causa della diversa tendenza del semiconduttore e della soluzione contenente una coppia redox O/R ad acquistare o cedere elettroni (cioè del diverso valore del livello di Fermi o del potenziale elettrochimico nelle due fasi), quando le due fasi sono messe in contatto si forma all'interfase un doppio strato elettrico. Però, mentre in un elettrodo metallico posto in soluzione l'eccesso di carica risiede sulla superficie del metallo, in un elettrodo semiconduttore l'eccesso di carica si distribuisce in una regione - detta regione di carica spaziale - sottostante la superficie del semiconduttore, nella quale si genera un forte campo elettrico che consente l'allontanamento della buca dall'elettrone per le coppie fotogenerate. Ad esempio, alla giunzione fra un semiconduttore di tipo n e una soluzione con un'opportuna coppia redox, la direzione del campo elettrico è tale che ogni eccesso di buche e di elettroni creati nella regione di carica spaziale si muove, rispettivamente, verso la superficie e verso l'interno del semiconduttore. Lo studio dell'effetto della radiazione luminosa in celle elettrochimiche con elettrodi semiconduttori, a partire dagli anni cinquanta del Novecento, segna la nascita e lo sviluppo della fotoelettrochimica.
Una cella fotoelettrochimica, con uno o entrambi gli elettrodi semiconduttori, è un sistema idoneo a convertire l'energia luminosa in energia elettrica o in energia chimica. La fotosensibilità di questi sistemi è generalmente legata alla transizione di interbanda del semiconduttore; l'energia della coppia buca-elettrone fotogenerata nella regione di carica spaziale, e separata dal campo elettrico, è utilizzata per promuovere reazioni elettrodiche che non avvengono al buio. Se a entrambi gli elettrodi della cella avviene la stessa reazione in direzioni opposte, la composizione della soluzione non varia e quindi il risultato netto del fotoprocesso è un flusso di corrente elettrica nel circuito esterno. Una cella di questo tipo è detta cella fotoelettrochimica rigenerativa o anche cella solare a giunzione liquida. Essa può avere, ad esempio, un elettrodo semiconduttore di tipo n (fotoanodo) e il controelettrodo di metallo (catodo) immersi in una soluzione contenente la coppia redox O/R. Le buche fotogenerate nella banda di valenza arrivano alla superficie del semiconduttore e possono ossidare la specie R a O, mentre gli elettroni fotogenerati nella banda di conduzione si muovono verso l'interno del semiconduttore e attraverso il collegamento esterno raggiungono il controelettrodo riducendo la specie O a R. Dato che la stessa reazione avviene in direzioni opposte ai due elettrodi, la composizione della soluzione rimane invariata e l'energia luminosa viene convertita in energia elettrica. Invece, quando ai due elettrodi della cella fotoelettrochimica avvengono reazioni differenti, la composizione cambia e il fotoprocesso totale comporta la conversione dell'energia luminosa in energia chimica; l'energia luminosa è quindi utilizzata per fare avvenire una reazione non spontanea (ΔG 〉 0), e tale tipo di cella fotoelettrochimica è detta cella fotoelettrolitica.
Nei due capitoli seguenti, dedicati il primo alle celle elettrochimiche e il secondo alle celle fotoelettrochimiche, verranno anzitutto discussi alcuni aspetti di base relativi al funzionamento di queste celle, con particolare riguardo agli aspetti energetici. Quindi, nel cap. 2, dopo un rapido esame di alcuni tipi di batterie commerciali, l'attenzione verrà focalizzata sulle batterie al litio, che rappresentano il sistema più avanzato di batterie ricaricabili oggi disponibile, frutto dell'attività di ricerca degli ultimi dieci anni nel campo dei nuovi materiali. Si parlerà brevemente anche delle celle a combustibile, in particolare di quelle a membrana polimerica, per il grande interesse oggi rivolto a questi sistemi di conversione dell'energia chimica in energia elettrica. Nel cap. 3 verranno descritte in particolare le celle rigenerative con fotoanodo di biossido di titanio nanocristallino e sensibilizzante molecolare. Queste celle, note come celle di Grätzel, sono oggi in grado di operare con efficienza di fotoconversione confrontabile a quella delle celle fotovoltaiche convenzionali (celle solari a stato solido con giunzione p-n); dato che esse richiedono una tecnologia più semplice (e quindi meno costosa), sono di grande interesse applicativo e hanno già raggiunto un livello di sviluppo preindustriale.
2. Celle elettrochimiche.
a) Principî e aspetti energetici.
Una reazione di trasferimento elettronico fra due specie RI e OII - come la reazione (1), in cui RI cede elettroni a OII - avviene spontaneamente fino a che tale processo comporta una diminuzione di energia libera di tutto il sistema (ΔG 〈 0). Questa reazione può avvenire non solo chimicamente, per trasferimento elettronico diretto fra le specie RI e OII, ma anche elettrochimicamente (come detto precedentemente), in una cella elettrochimica costituita da due elettrodi metallici immersi in due soluzioni poste in contatto elettrico e contenenti rispettivamente le coppie OI/RI e OII/RII, come risultato dei due processi di trasferimento di carica fra metallo e rispettiva specie in soluzione (RI → OI + e- a un elettrodo, e OII + e- → RII all'altro), del flusso di elettroni attraverso il circuito esterno che collega i due elettrodi e del flusso ionico all'interno della soluzione. La quantità delle specie chimiche OI e RII prodotte è in relazione alla quantità di carica trasferita attraverso le interfasi metallo/soluzione, in accordo con le leggi di Faraday. Pertanto, quando una reazione spontanea di ossidoriduzione avviene in una cella elettrochimica il passaggio di corrente elettrica nel circuito esterno è compreso nel processo: questo è il modo in cui opera una batteria durante la scarica, quando trasforma energia chimica in energia elettrica. Durante la carica di una batteria per il ripristino dei reagenti, la reazione di ossidoriduzione avviene invece in direzione non spontanea (ΔG 〉 0) a spese dell'energia elettrica di una sorgente esterna che fa fluire gli elettroni in direzione opposta a quella della scarica.
Le batterie si dividono in batterie primarie, in cui la reazione di cella non è reversibile, e batterie secondarie o ricaricabili, con reazione di cella reversibile. Le batterie primarie possono quindi operare solo la conversione dell'energia chimica in energia elettrica e funzionano fino a che i reagenti sono esauriti; invece le batterie ricaricabili, essendo in grado di convertire non solo l'energia chimica in energia elettrica, ma anche l'energia elettrica in energia chimica con il ripristino dei reagenti, sono dispositivi sia di conversione che di accumulo d'energia. Durante il processo di scarica di una batteria, all'elettrodo negativo avviene l'ossidazione, mentre all'elettrodo positivo avviene la riduzione; nel circuito esterno gli elettroni fluiscono dall'elettrodo negativo al positivo (per convenzione il verso della corrente è opposto), cioè dall'anodo al catodo, in quanto l'elettrodo dove avviene l'ossidazione è convenzionalmente chiamato anodo, mentre quello dove avviene la riduzione è chiamato catodo. Durante il processo di carica, invece, la corrente fluisce in direzione opposta: all'elettrodo negativo avviene la riduzione e al positivo l'ossidazione, e quindi l'elettrodo negativo in questo caso è il catodo e quello positivo l'anodo.
Data una cella elettrochimica (due elettrodi metallici immersi nelle rispettive soluzioni contenenti le coppie OI/RI e OII/RII, o due elettrodi metallici immersi nelle rispettive soluzioni contenenti un sale del metallo) in uno stato carico (ΔG 〈 0), la differenza di potenziale elettrico misurabile fra i due terminali degli elettrodi è data dalla somma delle cadute di potenziale alle due interfasi metallo/soluzione, trascurando la piccola differenza di potenziale alla giunzione liquida fra le due soluzioni. Se i due elettrodi non sono collegati fra loro dalla resistenza del circuito esterno, non vi è passaggio di corrente e le differenze di potenziale alle due interfasi sono quelle di equilibrio. Infatti, quando un metallo viene posto in contatto con una soluzione contenente una coppia redox O/R, a seguito di uno scambio elettronico fra metallo e coppia redox in soluzione che persiste fino a che diventano uguali i valori del potenziale elettrochimico dell'elettrone nelle due fasi, si forma un doppio strato elettrico, con un eccesso di carica di un segno localizzata sulla superficie del metallo e un'uguale quantità di carica di segno opposto diffusa dalla parte della soluzione, responsabile della differenza di potenziale di equilibrio all'interfase elettrodo/soluzione.
La differenza di potenziale all'interfase metallo/soluzione non può però essere misurata singolarmente: solo la differenza di potenziale elettrico fra i due terminali degli elettrodi di una cella elettrochimica è una grandezza misurabile. Quando nella batteria non passa corrente o la corrente che passa tende a zero (i → 0), la differenza di potenziale misurabile è detta voltaggio a circuito aperto (o forza elettromotrice), Voc, e questo voltaggio rappresenta la massima differenza di potenziale che la batteria, in un dato stato di carica, può fornire. Infatti, secondo le leggi della termodinamica, a temperatura (T), pressione (P) e composizione costanti, la diminuzione di energia libera della reazione di cella rappresenta il massimo lavoro elettrico (massima energia elettrica) ottenibile, essendo - ΔG ≥Welettr, dove il segno di uguaglianza vale per una trasformazione condotta in modo reversibile (passaggio di corrente tendente a zero, i → 0), e il segno di disuguaglianza vale per una conversione irreversibile (passaggio di corrente finita, i ≠ 0). Pertanto, Welettr = nFVoc = - ΔG (dove n è il numero di elettroni scambiati per mole di reazione e F è la costante di Faraday) è il massimo lavoro elettrico e Voc = + - ΔG/nF il massimo voltaggio che la batteria può fornire. Durante la conversione reversibile (i → 0) di energia chimica in energia elettrica vi è anche uno scambio di calore con l'esterno pari a TΔS, dove ΔS è la variazione di entropia della reazione. D'altra parte, poiché a temperatura costante ΔG = ΔH - TΔS, dove ΔH è la variazione di entalpia della reazione, un ΔS positivo (calore assorbito dall'esterno) comporta che - ΔG sia maggiore di - ΔH e quindi, in questo caso, la massima energia elettrica che la batteria è in grado di fornire è maggiore dell'energia che la reazione sviluppa sotto forma di calore (Q) quando avviene chimicamente a P costante, dove Q = ΔH.
Quando una quantità finita di corrente elettrica fluisce in una cella, una parte dell'energia termodinamicamente disponibile come energia elettrica viene dissipata come calore, a causa delle diverse 'resistenze' incontrate nelle diverse parti della cella per il trasporto di carica (flusso di elettroni nei conduttori elettronici, flusso di ioni in soluzione e trasferimenti di carica alle interfasi elettrodo/soluzione). Durante la scarica di una batteria con passaggio di una corrente finita (i ≠ 0) la differenza di potenziale fra i due terminali degli elettrodi, Vi, è minore di Voc, ed è tanto minore quanto più elevato è il valore della corrente; quindi, la parte di energia termodinamicamente disponibile utilizzata per produrre energia elettrica è W = nFVi e la parte dissipata come calore è Q = TΔS - nF(Voc - Vi).
Per soddisfare il requisito i → 0, le misure di Voc vengono fatte mediante voltmetri elettronici ad alta resistenza (〉 107 ohm). Inoltre, dato che la reazione di cella è la somma delle due semireazioni agli elettrodi, il valore di Voc può essere calcolato come differenza dei potenziali elettrodici di equilibrio, Ve,eq dell'elettrodo positivo e di quello negativo, Voc = V+ e,eq - V-e,eq, dove il valore di Ve,eq correlato alla reazione O + ne- → R, è dato dall'equazione di Nernst: Ve,eq = Voe - (RT/nF) ln(CR/CO), dove Voe è il potenziale elettrodico standard e CR e CO sono le concentrazioni della forma ridotta e ossidata (in realtà, per una trattazione rigorosa dovrebbero essere usate le attività al posto delle concentrazioni). Si sottolinea che il potenziale elettrodico di equilibrio Ve,eq non è una differenza di potenziale all'interfase metallo/soluzione, ma è una quantità fisicamente misurata, cioè la differenza di potenziale Voc fra gli elettrodi di una cella in cui uno è l'elettrodo in esame e l'altro è l'elettrodo standard a idrogeno (Standard Hydrogen Electrode, SHE) al quale viene assegnato arbitrariamente un potenziale di 0 volt.
Al potenziale elettrodico di equilibrio l'elettrodo si trova in uno stato di equilibrio dinamico: poiché la velocità con cui la forma ossidata O all'interfase accetta elettroni dal metallo è uguale alla velocità con cui la forma ridotta R li cede, la componente catodica della corrente ic (che è la misura della velocità con cui O si riduce a R) è uguale in valore assoluto alla componente anodica, ia (che è la misura della velocità con cui R si ossida a O), così che la corrente netta i = |ic| - ia è 0; il valore di |ic| = ia è detto corrente di scambio, io.
Il passaggio attraverso una cella di una corrente netta diversa da zero (i ≠ 0) determina alcuni cambiamenti alle interfasi rispetto alla situazione di equilibrio, indicati genericamente con il termine 'polarizzazioni'. La differenza fra il potenziale elettrodico sotto passaggio di corrente, Ve,i, e quello di equilibrio, Ve,eq, è detta 'sovratensione elettrodica', ηe = Ve,i - Ve,eq. Come detto precedentemente, durante il passaggio di una corrente finita il voltaggio fornito dalla cella (batteria durante la scarica) è minore rispetto al valore di Voc, il potenziale del catodo è meno positivo e quello dell'anodo è meno negativo dei rispettivi valori dei potenziali elettrodici di equilibrio. Quando invece bisogna caricare una batteria, è necessario applicare alla cella un voltaggio maggiore rispetto al valore di Voc; il potenziale del catodo deve essere più negativo e quello dell'anodo più positivo dei rispettivi valori dei potenziali elettrodici di equilibrio. Ai fini di una valutazione delle prestazioni di una batteria, quindi, è importante conoscere in che misura il voltaggio della cella sotto passaggio di corrente Vi si discosti dal valore di Voc, ossia valutare la sovratensione della cella, η = Vi - Voc, responsabile della dissipazione di energia.
Le due principali cause di sovratensione sono le perdite elettrodiche (le sovratensioni elettrodiche, ηe) che includono la sovratensione di attivazione, ηattiv, relativa allo stadio del trasferimento di carica all'interfase elettrodo/soluzione e la sovratensione di concentrazione, ηconc, connessa con l'impoverimento o con l'accumulo di materiale elettroattivo alla superficie elettrodica, e la caduta ohmica iR in soluzione. Perciò durante il processo di carica di una batteria deve essere applicato un voltaggio Vi, che è la somma del voltaggio a circuito aperto Voc, della sovratensione catodica ηe,cat, della sovratensione anodica ηe,anod e della caduta ohmica in soluzione: Vi = Voc + |ηe,cat| + ηe,anod + iR; durante il processo di scarica, invece, le sovratensioni e la caduta ohmica in soluzione devono essere sottratte da Voc per ottenere il voltaggio fornito dalla batteria: Vi = Voc - |ηe,cat| - ηe,anod - iR (v. fig. 1). Senza riportare le equazioni che esplicitano le sovratensioni, ci limitiamo a osservare che le sovratensioni di attivazione sono minori quando i processi elettrodici sono caratterizzati da elevate correnti di scambio, e che le sovratensioni di concentrazione sono minori a elevate concentrazioni delle specie redox. Pertanto si può affermare che una bassa resistenza delle soluzioni, processi elettrodici con elevate correnti di scambio e alte concentrazioni delle specie elettroattive sono le prerogative per una efficiente conversione di energia chimica in energia elettrica.
Prima di concludere la prima parte di questo capitolo è opportuno sottolineare che la conversione diretta di energia chimica in energia elettrica con una cella elettrochimica è un metodo di utilizzo dell'energia chimica, per esempio dei combustibili, molto più efficiente di quello indiretto della produzione di calore per via chimica e della sua successiva conversione in lavoro mediante una macchina termica (come avviene nei veicoli con motori a combustione interna). Infatti, per le intrinseche limitazioni di Carnot, con una 'macchina termica ideale' si possono raggiungere al massimo valori di efficienza di conversione di calore in lavoro, ε = W/(-ΔH), del 30 ÷ 50°, che si riducono nella pratica al 20 ÷ 30°. Con una cella elettrochimica, non essendovi limitazioni intrinseche, si può idealmente produrre un lavoro elettrico uguale a -ΔG; inoltre, il valore di ΔG a temperatura ambiente non è generalmente molto diverso da quello di ΔH, e il massimo valore di efficienza per la conversione diretta con una cella elettrochimica εmax = - nFVoc/ΔH non si discosta molto dal 100°. Nella pratica, anche nella conversione elettrochimica l'efficienza diminuisce in quanto parte dell'energia, come visto precedentemente, viene spesa per far procedere la reazione, e i valori di efficienza dipendono dal valore di corrente che fluisce nella cella, εpratica = - (nF/ΔH)(Voc - |ηe,cat| - ηe,anod + - iR). In ogni caso questi valori restano significativamente superiori a quelli del metodo indiretto. Celle a combustibile idrogeno/ossigeno possono operare con valori di efficienza pratica di conversione del 60 ÷ 70°, e sebbene l'idrogeno debba essere prodotto da un idrocarburo naturale, ad esempio dal metano, mediante un processo di reforming (CH4 + 2H2O → CO2 + 4H2) e in certi casi debba anche essere purificato per non 'avvelenare' i catalizzatori delle celle, il metodo elettrochimico consente un'efficienza globale di conversione sempre significativamente superiore a quella del metodo indiretto. Per questa ragione la diffusione di veicoli elettrici alimentati da celle a combustibile contribuirebbe a un significativo risparmio delle risorse energetiche naturali e a una diminuzione dell'inquinamento ambientale, in quanto a parità di energia prodotta sarebbe inferiore il consumo di combustibile, e quindi anche l'emissione di CO2.
b) Tipi di batterie e loro funzionamento.
L'energia elettrica massima che una batteria è in grado di fornire per unità di peso (energia specifica, Wh/kg) o di volume (densità di energia, Wh/l) dipende dal voltaggio a circuito aperto della cella e dalla sua capacità specifica di carica (Ah/kg), grandezze entrambe funzioni della chimica del sistema. Molte sono le reazioni che potrebbero essere alla base del funzionamento di una batteria, e anche se è difficile stabilire a priori quale sia la 'migliore chimica' da utilizzare, a guidare la scelta sono innanzitutto i valori di energia specifica massima della cella; saranno poi i valori dei parametri di merito in condizioni operative - quali voltaggio, energia specifica, densità di energia, potenza specifica (W/kg), densità di potenza (W/l) e vita di ciclo per le batterie ricaricabili (numero di cicli di carica-scarica sostenibili), oltre che il grado di affidabilità e il costo del sistema (anche se la loro incidenza può essere diversa a seconda delle applicazioni) - a determinare la selezione del sistema per lo sviluppo di una batteria.
I valori di energia totale che le batterie possono fornire (Wh) dipendono dalla loro dimensione e coprono un intervallo molto ampio, dai 0,1 mWh ÷ 2 Wh delle minibatterie per applicazioni nella microelettronica (orologi, calcolatori tascabili, stimolatori cardiaci, ecc.), ai 2 ÷ 100 Wh per l'elettronica portatile (telefoni cellulari, computer portatile, radio, televisioni, ecc.), ai 100 MWh di sistemi a più celle, collegate in serie e in parallelo, per il livellamento di carico delle centrali elettriche.
Con il progresso della scienza, le applicazioni delle batterie hanno conosciuto una significativa evoluzione e la richiesta di sistemi con prestazioni sempre maggiori è stata determinante per lo sviluppo di nuove batterie. La scoperta del transistor, avvenuta alla fine degli anni cinquanta, ha esteso all'elettronica e alla biomedicina il campo di applicazione delle batterie, dando un notevole impulso alla loro ricerca e al loro sviluppo. Anche la 'corsa' allo spazio ha contribuito significativamente allo sviluppo di nuovi sistemi di conversione di energia chimica in elettrica, in particolare di celle a combustibile. Inoltre a partire dagli anni ottanta si è assistito alla miniaturizzazione dei circuiti elettronici e al proliferare di prodotti di tutti i tipi funzionanti con batterie sia primarie che ricaricabili. Infine, nell'ultimo decennio vi è stata una straordinaria diffusione di telefoni cellulari e computer portatili, sempre più leggeri e di ridotte dimensioni, che hanno richiesto batterie ricaricabili con prestazioni, in termini di energia e di potenza specifica, di livello in precedenza impensabile. Questo fatto, unito alla pressante necessità di trovare una soluzione al problema dell'inquinamento delle aree urbane mediante lo sviluppo di veicoli elettrici a 'emissione zero' (così sono chiamati i veicoli elettrici alimentati dalle batterie), ha fortemente incrementato la ricerca sulle batterie ricaricabili, spostando l'interesse da quelle a nichel/cadmio (Ni/Cd) a quelle a nichel/metallo idruro (Ni/MH) e al litio. Le batterie litio-ione, significativamente superiori alle altre batterie ricaricabili oggi esistenti in termini di energia specifica e di potenza specifica, rappresentano lo stato più avanzato della tecnologia dei sistemi ricaricabili. Con una produzione di parecchi milioni di unità al mese, esse coprono il 63° del mercato mondiale delle batterie per l'elettronica portatile e stanno rapidamente rimpiazzando le Ni/Cd e le Ni/MH (23° e 16° del mercato con riferimento all'anno 2000). Esteso rimane ancora l'impiego delle 'pesanti' batterie piombo-acido, principalmente per l'avviamento-illuminazione-ignizione nelle automobili. La tab. I mostra, per un confronto fra le diverse tecnologie, i valori pratici di voltaggio, di energia specifica (incluso il peso del contenitore) e di densità di energia delle batterie piombo-acido, Ni/Cd, Ni/MH e litio-ione oggi in commercio.
La tecnologia delle batterie piombo-acido e di quelle al nichel risale al XIX secolo e ha continuato a evolversi nel tempo con un miglioramento della qualità del prodotto, mentre quella delle batterie al litio è il risultato di una recente e intensa attività di ricerca interdisciplinare nel campo dei materiali avanzati. La scelta di sviluppare una tecnologia basata sul litio come elettrodo negativo si deve al fatto che il litio è il metallo più elettropositivo (VoLi + /Li = - 3,03 V vs. SHE), più leggero (6,94 g/mol) e meno denso (0,53 g/cm3), e quindi di elevata capacità specifica (3,86 Ah/g), caratteristiche che facilitano la realizzazione di una grande varietà di batterie ad alta energia specifica. Questi vantaggi però sono controbilanciati da una elevata reattività nei confronti dell'acqua, che impedisce l'uso del litio in elettroliti acquosi.
Il litio metallico fu utilizzato inizialmente nelle batterie primarie, commercializzate in diversi formati agli inizi degli anni settanta. Nel 1972 venne impiantato il primo pace-maker cardiaco alimentato da una batteria litio-iodio, e questo tipo di cella, per l'elevata energia specifica e affidabilità, ha soppiantato l'uso di tutte le altre negli oltre 5 milioni di pace-makers prodotti negli ultimi 30 anni.
Agli anni settanta risale anche la scoperta dei materiali a inserzione, o intercalazione, che ha aperto la strada alle batterie al litio ricaricabili. I composti a inserzione di litio sono dei solidi inorganici aventi una struttura aperta in grado di inserire e disinserire reversibilmente un numero x di ioni litio per molecola di composto. Fra questi, i più utilizzati come elettrodi positivi nelle batterie ricaricabili al litio sono stati vari ossidi di vanadio, di manganese e di cobalto. In fig. 2A è schematizzata una batteria ricaricabile a litio metallico con un materiale a inserzione di litio come elettrodo positivo, indicato genericamente con AyBz, durante il processo di scarica: all'elettrodo negativo si ha la dissoluzione di x ioni litio, la loro migrazione attraverso l'elettrolita e la loro inserzione dentro la struttura cristallina del composto a intercalazione, mentre gli elettroni fluiscono attraverso il circuito di carico esterno. La reazione di cella è:
durante la carica i processi avvengono in direzione opposta.
Nonostante l'ottimo funzionamento dei composti a intercalazione come elettrodi positivi, una batteria ricaricabile a litio metallico con elettrolita organico liquido è risultata subito improponibile per una serie di problemi all'interfase litio/elettrolita liquido, che comportavano una deposizione di litio sotto forma di dendriti, causa di pericolosi cortocircuiti. Per superare questo grave inconveniente sono stati seguiti due diversi approcci. Il primo, che prevede il mantenimento del litio metallico e la sostituzione dell'elettrolita organico liquido con un elettrolita polimerico, ha portato allo sviluppo delle cosiddette batterie Li-SPE, cioè batterie al litio con elettrolita polimerico solido. Gli elettroliti polimerici sono costituiti da sali di litio e macromolecole con eteroatomi di ossigeno, generalmente polietilenossido (PEO) ad alto peso molecolare, in cui gli eteroatomi sono in grado di coordinare gli ioni litio e quindi di disciogliere i sali. Questi elettroliti, pur presentando il grande vantaggio di poter essere prodotti sotto forma di film sottili (alcune decine di µm), permettendo così la realizzazione di celle flessibili dello spessore totale di 100 ÷ 200 µm, raggiungono però valori di conducibilità accettabili per un utilizzo in batterie solo a 80 ÷ 90 °C. Per questa ragione le batterie Li-SPE si prestano a essere utilizzate solamente nei veicoli elettrici, dove un trattamento termico a 80 ÷ 90 °C è particolarmente semplice da realizzare, ma risultano inadatte per i dispositivi portatili. Nel tentativo di estendere l'impiego delle batterie ricaricabili al litio al mercato dell'elettronica, sono stati condotti numerosi studi per aumentare la conducibilità degli elettroliti polimerici; sono stati così sviluppati elettroliti polimerici ibridi addizionando al PEO-sale vari tipi di plasticizzante, liquido o solido. L'aumento di conducibilità con l'aggiunta di plasticizzanti solidi non era però tale da consentire l'uso di questi elettroliti ibridi in batterie che dovevano operare a temperatura ambiente o inferiore. Con gli elettroliti ibridi con plasticizzante liquido sono stati sviluppati prototipi preindustriali di batterie Li-HPE (batterie litio metallico-elettrolita polimerico ibrido), che però non sono mai state messe sul mercato per motivi di sicurezza, in quanto persisteva ancora, anche se in misura minore, il problema delle dendriti.
L'altro approccio è stato quello di sostituire il litio metallico con un secondo materiale a intercalazione di litio con potenziale elettrodico significativamente inferiore a quello dei materiali a intercalazione usati come elettrodi positivi. Fra i vari materiali proposti come elettrodi negativi, i materiali carboniosi (grafiti o carboni) - che intercalano litio a potenziali molto negativi (vicini al valore del potenziale elettrodico della coppia Li+ /Li), fino a un massimo di 1 atomo di litio ogni 6 atomi di carbone - hanno portato allo sviluppo delle cosiddette batterie litio-ione, commercializzate a partire dal 1991, nelle quali l'elettrodo positivo è un ossido litiato di cobalto (cobaltite) e l'elettrolita è un liquido organico (generalmente miscele di alchilcarbonati e LiPF6). Ovviamente, la sostituzione del litio metallico con LixC6 penalizza l'energia specifica della cella per la più bassa capacità specifica di questi materiali rispetto al litio (0,186 Ah/g per il carbone coke (dove x = 0,5) e 0,372 Ah/g per la grafite (dove x = 1) rispetto a 3,86 Ah/g del litio metallico, dove però i problemi di interfase richiedono un quantitativo di litio circa quadruplo rispetto al valore stechiometrico). Tuttavia, grazie agli alti potenziali di queste celle (〉 3,6 V) le batterie litio-ione sono in grado di fornire un'energia specifica maggiore di 120 Wh/kg (che è circa il triplo dell'energia fornita dalle batterie nichel-cadmio convenzionali) e sono oggi usate in molti dispositivi portatili. Il funzionamento in fase di scarica delle batterie litio-ione è schematizzato in fig. 2B. All'elettrodo negativo si ha la deintercalazione degli ioni litio, la loro migrazione attraverso la soluzione e l'intercalazione all'elettrodo positivo, cosicché la reazione globale è:
durante la carica il processo procede in direzione opposta. Infine, nell'intento di combinare il successo commerciale delle batterie litio-ione a elettrolita liquido con i vantaggi offerti dalla tecnologia delle batterie polimeriche, è stata sviluppata una batteria litio-ione plastica, detta PLion, commercializzata a partire dal 1999. Di questo tipo sono le batterie ultrasottili utilizzate oggi nella maggior parte dei telefoni cellulari e che, per la flessibilità del sistema, sono di particolare interesse anche in vista di ulteriori miniaturizzazioni dell'elettronica portatile.
Sebbene le batterie litio-ione siano ormai una realtà commerciale ben consolidata, esse sono ancora oggetto di una intensa attività di ricerca, in campo sia accademico che industriale, per un ulteriore miglioramento di questa tecnologia. Ad esempio, sono in fase di studio anodi alternativi alle grafiti: la ricerca è orientata verso materiali che presentino potenziali redox più positivi rispetto alla coppia Li+ /Li di quelli delle grafiti, per evitare i rischi legati alla deposizione del litio durante le ricariche sempre più veloci richieste a queste batterie, uniti a capacità specifiche più elevate, per compensare i più bassi voltaggi di cella, senza penalizzare l'energia specifica di queste batterie a favore di una loro maggiore affidabilità. Una strategia promettente sembra quella dei compositi intermetallici nanostrutturati. È allo studio anche la possibilità di sostituire la cobaltite, materiale comunemente utilizzato per l'elettrodo positivo, con altri materiali a intercalazione meno costosi e di minor impatto ambientale, in considerazione di una possibile massiccia applicazione di questa tecnologia nei veicoli elettrici. Numerose ricerche sono focalizzate su un ossido di manganese e litio, di tipo spinello, un materiale di basso costo per l'abbondanza naturale dei derivati del manganese e definito materiale 'verde' per il suo basso impatto ambientale.
c) Celle a combustibile.
Un particolare tipo di cella elettrochimica è quella a combustibile (fuel cell), che come una batteria converte direttamente energia chimica in energia elettrica ma, a differenza di una batteria, ha la riserva dei reagenti esterna alla cella e continua a funzionare fino a che è rifornita di combustibile (idrogeno o altro) e comburente (ossigeno o aria). In una cella a combustibile ad acido, con idrogeno come combustibile, l'idrogeno fluisce all'anodo e l'ossigeno al catodo; le due semireazioni di trasferimento elettrodico sono: H2 → 2H+ + 2e- (all'anodo) e 1/2O2 + 2H+ + 2e- → H2O (al catodo), con H2 + 1/2O2 → H2O come reazione globale; H+ migra dall'anodo al catodo e gli elettroni fluiscono attraverso il circuito esterno con produzione di energia elettrica.
L'idea di produrre energia elettrica da idrogeno e ossigeno senza passare attraverso le limitazioni di Carnot e con l'acqua come sottoprodotto risale al XIX secolo; la prima cella a combustibile venne realizzata nel 1840 da William R. Grove. Gli studi che hanno portato alle attuali celle a combustibile furono ripresi solo 100 anni dopo da Francis T. Bacon ed ebbero un notevole impulso negli anni cinquanta con l'avvio dei programmi spaziali, in quanto queste celle, per la loro affidabilità e per l'elevata energia specifica, furono selezionate come sistema di produzione di energia e di acqua per gli astronauti. Nonostante i successi in questo campo (le celle a combustibile continuano a essere usate anche oggi negli space shuttles) i programmi di ricerca su di esse per applicazioni civili sono progrediti più lentamente a causa del loro costo elevato.
Sono stati sviluppati sino a oggi diversi tipi di celle a combustibile, che differiscono principalmente per il tipo di elettrolita: carbonati fusi (celle che operano ad alte temperature, circa 1.000 °C), soluzioni a base di acido fosforico o basi alcaline (celle che operano a medie temperature, 200 ÷ 100 °C) e membrane polimeriche (celle che operano a circa 100 °C). Le diverse temperature di esercizio si riflettono poi sul tipo di applicazione (solo stazionarie per quelle che operano ad alte temperature e anche per il trasporto per quelle a basse temperature) e comportano alcuni vantaggi e svantaggi. Per esempio, nelle celle che operano ad alte temperature i processi di trasferimento di carica agli elettrodi hanno velocità elevate, e quindi basse sovratensioni elettrodiche, mentre in quelle che operano a basse temperature sono necessari catalizzatori per diminuire le sovratensioni. D'altra parte, alle alte temperature i problemi di corrosione impongono requisiti più severi per i materiali. Alcuni sistemi prevedono l'alimentazione con idrogeno proveniente direttamente dal processo di reforming; quindi 'l'ingegneria' di tutto l'impianto, incluso il sistema di purificazione dell'idrogeno, è di fondamentale importanza per ottenere un'alta efficienza di conversione dell'energia. Il primo impianto (celle a combustibile ad acido) per applicazioni stazionarie, da 200 kW, è del 1992 e da allora altri 200 impianti della stessa potenza sono stati installati, principalmente negli Stati Uniti, nell'Europa settentrionale e in Asia.
Le celle a combustibile a membrana polimerica sono il risultato delle ricerche degli ultimi dieci anni e gli studi - fortemente incentivati da numerosi programmi lanciati dal Department of Energy degli Stati Uniti e dalla Comunità Europea - sono stati indirizzati principalmente allo sviluppo di celle per applicazioni nel campo del trasporto. Sono in fase di sviluppo due tipi di celle a membrana polimerica, uno alimentato con idrogeno e ossigeno (o aria) e l'altro con metanolo e ossigeno (o aria). In quest'ultimo tipo di cella si ha la diretta ossidazione del metanolo all'anodo, la semireazione anodica è CH3OH + H2O → CO2 + 6H+ 6e-, quella catodica è 3/2O_2 6H+ + 6e- → 3H2O e la reazione globale è CH3OH + 3/202 → CO2 + 2H2O. I due tipi di celle hanno circa lo stesso valore di V° (1,23 V la cella H2/O2 e 1,21 V la cella CH3OH/O2), entrambe operano con lo stesso tipo di membrana polimerica (il NafionTM, che è un conduttore di H+ ) ed entrambe richiedono l'uso di catalizzatori, dispersi su elettrodi porosi di carbone, per diminuire le sovratensioni dei due elettrodi. La reazione catodica, essendo la stessa per entrambi i tipi di cella, richiede lo stesso tipo di catalizzatore, generalmente platino. La reazione anodica, invece, nella cella a metanolo è più complessa che nella cella a idrogeno e la natura del catalizzatore è di primaria importanza per una efficiente conversione: i migliori risultati sono stati ottenuti con catalizzatori a base di platino e rutenio al 50°. Inoltre, la cella a metanolo presenta il problema della diffusione del metanolo dal comparto anodico a quello catodico, con conseguenti perdite di efficienza. Nonostante ciò, molti studi sono concentrati su queste celle in quanto, rispetto a quelle a idrogeno, presentano il vantaggio di non richiedere un impianto di reforming o lo stoccaggio dell'idrogeno e quindi sono di particolare interesse per applicazioni nel campo del trasporto.
3. Celle fotoelettrochimiche.
Come abbiamo già riportato nell'introduzione, le eterogiunzioni semiconduttore-elettrolita sono alla base del funzionamento delle celle fotoelettrochimiche per la conversione di energia solare in energia elettrica (celle fotoelettrochimiche rigenerative) o in energia chimica (celle fotoelettrolitiche).
Dopo il grande entusiasmo per le celle fotoelettrolitiche, stimolato dalla prima pubblicazione di Akira Fujishima e Kenji Honda nel 1971 sulle celle solari con TiO2-n, con cui i due studiosi ottennero una limitata fotoelettrolisi dell'acqua, nell'ultimo decennio gran parte dell'attività di ricerca è stata dedicata alle celle fotoelettrochimiche rigenerative, in particolare a quelle con sensibilizzatore molecolare, che in una versione avanzata con fotoanodi nanostrutturati sono già a un livello di sviluppo preindustriale. Nel seguito verranno prima discussi i principî di base delle celle fotoelettrochimiche rigenerative, partendo dalle proprietà della giunzione semiconduttore-elettrolita, con riferimento a semiconduttori di tipo n, che sono i più utilizzati in quanto più stabili, nei vari dispositivi studiati. Quindi verranno affrontati gli aspetti energetici e l'evoluzione di queste celle, che ha portato a un significativo aumento della loro efficienza di conversione d'energia solare in energia elettrica.
a) Principî e aspetti energetici.
Prima di passare alla descrizione delle proprietà delle giunzioni, va premesso che, noto il valore del potenziale elettrodico standard di una coppia redox O/R in soluzione (Voredox O/R) riferito all'SHE, il valore del potenziale elettrochimico dell'elettrone in soluzione, che dipende dalla coppia redox presente, o del livello di Fermi in soluzione (EF redox O/R) può essere riportato nella scala di energia il cui 0 è l'energia di un elettrone nel vuoto (scala generalmente usata per i livelli di Fermi dei semiconduttori, EF, determinati dalle funzioni lavoro), utilizzando la relazione EF redox O/R = - (4,6 + eVoredox O/R) eV. Infatti, il livello di Fermi nell'elettrodo standard a idrogeno è localizzato a 4,6 eV sotto il livello dell'elettrone nel vuoto; inoltre, mentre le funzioni lavoro sono energie di ionizzazione, la scala dei potenziali elettrodici rappresenta una scala di affinità elettroniche.
Consideriamo ora un semiconduttore di tipo n e una soluzione contenente una coppia redox O/R, aventi diverso valore del livello di Fermi, in cui quello del semiconduttore (EF), quando le due fasi sono separate, è a più alta energia di quello della coppia redox (EF,redox O/R), come mostrato in fig. 3A. Quando le due fasi vengono messe a contatto, vi sarà un trasferimento di elettroni dal semiconduttore alla specie O della coppia redox che renderà il semiconduttore carico positivamente rispetto alla soluzione, fino a che i livelli di Fermi delle due fasi diventano uguali (questo stato equivale all'uguaglianza dei potenziali elettrochimici dell'elettrone in entrambe le fasi). Questa carica positiva, a causa della bassa densità dei portatori di carica che caratterizza i semiconduttori, come abbiamo visto è distribuita in una regione di spazio sottostante la superficie del semiconduttore, la regione di carica spaziale (in questo caso detta anche regione di esaurimento di carica), con spessori che possono variare da 10 a 200 nm. In questa regione, completamente priva di cariche libere e caratterizzata da cariche fisse, si crea un forte campo elettrico, rappresentato dal piegamento delle bande del semiconduttore verso l'alto rispetto al corpo del semiconduttore, come schematizzato in fig. 3B. La direzione del campo è tale che ogni eccesso di elettroni creato in questa regione si muove verso il corpo del semiconduttore e ogni eccesso di buche verso la superficie. È appunto a questo campo elettrico che si deve l'efficiente separazione della coppia fotogenerata buca-elettrone nelle celle fotoelettrochimiche, come schematizzato in fig. 3C, con riferimento a una cella rigenerativa sotto illuminazione. La radiazione luminosa di energia superiore alla differenza di energia fra il limite inferiore della banda di conduzione (BC) e quello superiore della banda di valenza (BV) del semiconduttore, E0, viene da questo assorbita, si generano le coppie buca-elettrone e quelle generate nella regione di carica spaziale vengono separate dal campo elettrico. Le buche si muovono nella banda di valenza, arrivano alla superficie del semiconduttore e sono in grado, avendo un potenziale corrispondente all'energia del limite della banda di valenza EBV, di ossidare la specie R a O. Gli elettroni che si muovono nella banda di conduzione verso l'interno del semiconduttore raggiungono attraverso il circuito esterno il controelettrodo metallico, e sono in grado di ridurre la specie O a R. Ai due elettrodi avviene la stessa reazione in direzioni opposte, e di conseguenza la composizione della soluzione non varia. Quando le celle sono illuminate, la separazione delle coppie buca-elettrone a opera del campo elettrico porta a una diminuzione del piegamento delle bande, che può essere rilevata dalla misura del fotovoltaggio Vfoto. Il valore più elevato si ha in condizioni di circuito aperto, Vocfoto, con il massimo valore quando la banda diventa piatta: Vocfoto, max ≈ (EBC - EF redox O/R)/e. Quando la resistenza del carico esterno è 0 si ha la massima fotocorrente, detta 'fotocorrente di corto circuito' (Ifoto,cc), proporzionale alla resa quantica dell'ossidazione al fotoanodo. In tali tipi di celle, in cui si ha la diretta conversione di energia luminosa in energia elettrica, il fotovoltaggio può essere immediatamente utilizzato, oppure l'energia elettrica può essere immagazzinata ricaricando una batteria esterna, come nel caso delle celle fotovoltaiche allo stato solido.
Una larga parte dell'energia oggi consumata deriva dalla combustione delle riserve fossili, con i relativi problemi di esaurimento delle risorse e di inquinamento ambientale. Diventa quindi necessario non solo razionalizzare lo sfruttamento dei combustibili mediante lo sviluppo di celle a combustibile per l'alta efficienza di conversione, ma anche potenziare lo sfruttamento dell'energia solare mediante lo sviluppo di celle fotoelettrochimiche. Queste richiedono una tecnologia potenzialmente più semplice rispetto a quella delle celle solari commerciali a stato solido (celle fotovoltaiche al silicio a giunzione p-n), consentendo un notevole abbassamento dei costi di impianto che incentiverebbe l'utilizzo di questa fonte di energia ecologicamente pulita e praticamente inesauribile. A causa delle forti fluttuazioni della luce nell'arco della giornata, inoltre, gli impianti di conversione dell'energia solare, indipendentemente dalla tecnologia utilizzata, richiedono sistemi di accumulo dell'energia, come le batterie, abbinati alle fotocelle.
La radiazione solare ai confini dell'atmosfera terrestre ha una potenza massima di 1.350 W per m2 di superficie; per gli effetti legati alla presenza della massa d'aria, dopo il passaggio della radiazione attraverso l'atmosfera la quantità di energia che arriva al suolo è minore, e cambia anche la sua distribuzione spettrale, quindi la potenza dell'irraggiamento globale risulta al massimo di 1.000 W/m2 (v. fig. 4). L'efficienza di conversione dell'energia solare delle fotocelle che producono energia elettrica, data dal rapporto fra la massima potenza erogata e l'irradianza solare integrata su tutto lo spettro solare, ha valori che si discostano abbastanza dall'unità (ad esempio, nelle celle fotovoltaiche commerciali al silicio l'efficienza non supera il 25°). Vari fattori spiegano questi bassi valori dell'efficienza di fotoconversione. Innanzitutto fattori termodinamici, che per il vincolo di Carnot e per le componenti entropiche della radiazione solare al livello del suolo terrestre riducono l'efficienza a un massimo del 70°. Inoltre, il fatto che i processi di fotoconversione richiedano una soglia di energia per promuovere la transizione elettronica - che nel caso delle celle rigenerative a semiconduttore è uguale al valore di Eg del semiconduttore - e che anche parte della radiazione con energia superiore a Eg venga dissipata come calore introduce un ulteriore motivo di riduzione dell'efficienza della conversione. L'incidenza di questo secondo fattore è strettamente correlata al valore di Eg del semiconduttore, e quindi da questo punto di vista sono preferibili i semiconduttori con bassi valori di Eg (come il silicio). Oltre a questi due fattori - termodinamico e di energia di soglia (che nel caso delle celle a stato solido a silicio riducono l'efficienza di conversione a un valore massimo del 32%) - vi sono altri fattori responsabili di ulteriori perdite di efficienza. Questi dipendono dall'efficienza dello stoccaggio dell'energia (che si manifesta nel valore del fotovoltaggio a circuito aperto), dalla resa quantica della conversione, strettamente correlata ai processi di spegnimento delle coppie fotogenerate (che si manifesta con il valore della corrente di cortocircuito) e dalle cadute ohmiche nella cella, ben evidenziate dal valore del fill factor ( ff = (Ifoto • Vfoto)max/ Ifoto,cc • Vocfoto), che viene valutato dalle curve sperimentali fotocorrente/fotovoltaggio.
b) Evoluzione delle celle fotoelettrochimiche.
Con queste premesse, l'uso pratico delle celle fotoelettrochimiche a giunzione liquida inizialmente sembrava precluso, in quanto la maggior parte dei semiconduttori a basso valore di Eg si fotocorrode e solo quelli ad alti valori di Eg, come ad esempio il TiO2 (Eg = 3,2 eV), sono stabili. Questi però non assorbono la porzione visibile della radiazione solare, ma solo quella ultravioletta, che costituisce meno del 3° dell'energia solare disponibile. La soluzione a tale problema è stata cercata nella separazione della funzione dell'assorbimento della radiazione da quella del trasporto dei portatori di carica, utilizzando una specie chimica colorata, adsorbita sulla superficie del semiconduttore di tipo n, detta sensibilizzatore, che assorbisse la radiazione visibile e quindi dallo stato eccitato iniettasse l'elettrone nella banda di conduzione del semiconduttore. Il sensibilizzatore avrebbe dovuto poi essere rigenerato mediante un processo di trasferimento elettronico intermolecolare con la forma ridotta di una opportuna coppia redox (O/R) presente in soluzione. La forma ossidata della coppia redox si sarebbe quindi dovuta ridurre a un controelettrodo metallico, in modo che il circuito fosse chiuso, senza variazione della composizione della soluzione.
Tuttavia, anche l'applicazione pratica di questo tipo di cella fotoelettrochimica rigenerativa con sensibilizzatore molecolare colorato sembrava remota, in quanto solo il primo monostrato molecolare adsorbito era attivo ai fini della fotoconversione; inoltre, con fotoanodi convenzionali l'assorbimento della radiazione da parte di un monostrato molecolare è troppo bassa (meno dell'1° della luce incidente) e non permette quindi di realizzare una cella con efficienza di conversione dell'energia solare di interesse applicativo. La situazione è radicalmente cambiata quando la ricerca sui nuovi materiali ha portato allo sviluppo dei nanomateriali. Il significativo miglioramento nelle prestazioni di queste celle si deve principalmente al lavoro di Michael Grätzel, che nel 1991 realizzò al Politecnico di Losanna una cella con fotoanodo di TiO2-n nanocristallino e un opportuno sensibilizzatore molecolare adsorbito in grado di raccogliere il 46° della luce solare incidente, con un'efficienza di conversione della radiazione in energia elettrica del 7 ÷ 8° in luce solare simulata. Il grande successo di questa cella è dovuto al fatto che il TiO2 è sotto forma di materiale nanometrico (particelle di dimensioni di 10 ÷ 80 nm), depositato per trattamento termico su un vetro conduttore come film sottile (tipicamente 10 µm e con porosità del 50°), e quindi è caratterizzato da un'elevata area superficiale specifica capace di supportare una grande quantità di sensibilizzatore nel primo monostrato molecolare, così da assicurare un elevato assorbimento della radiazione luminosa utile per la conversione. Importante è anche la chimica del sensibilizzatore utilizzato, un complesso a trasferimento di carica del rutenio, opportunamente disegnato, che per la presenza di sostituenti carbossilici sui leganti è ben ancorato alla superficie del TiO2, presumibilmente per l'instaurarsi di legami esterei (chemiadsorbimento).
La fig. 5 mostra schematicamente il principio operativo di una cella di Grätzel - così sono infatti chiamate le celle con fotoanodo di TiO2-n nanocristallino e sensibilizzatore molecolare chemiadsorbito - indicando il livello energetico degli elettroni nelle varie fasi. Il voltaggio generato dalla cella sotto illuminazione, Vfoto, corrisponde alla differenza fra il potenziale corrispondente al livello di Fermi del semiconduttore sotto illuminazione e quello della coppia redox O/R presente in soluzione che consente il trasferimento di carica fra i due elettrodi (detta mediatore).
Molti studi sono stati condotti per rendere massima l'efficienza di conversione di questo tipo di cella, dove il ruolo del semiconduttore non è quello di assorbire la radiazione, ma di agire da supporto alla molecola del sensibilizzatore, raccogliere gli elettroni dallo stato eccitato del sensibilizzatore e trasferirli al circuito esterno della cella, mentre il ruolo del colorante è quello di assorbire la radiazione visibile, iniettare dallo stato eccitato un elettrone nella banda di conduzione del semiconduttore e quindi ossidare un riducente presente in soluzione. Da notare come in questo tipo di cella rigenerativa con sensibilizzatore molecolare i portatori di carica minoritari del semiconduttore, le buche, non siano implicati nel meccanismo di conversione. Inoltre, la nanostruttura del semiconduttore comporta dei cambiamenti nelle proprietà fotoelettrochimiche di queste celle, come lo scarso piegamento delle bande, cioè il non significativo campo elettrico all'interfase; l'efficiente separazione della coppia fotogenerata, nelle celle con fotoanodo di TiO2 nanocristallino e con opportuni sensibilizzatori e mediatori, è assicurata dall'alta velocità di iniezione degli elettroni nella banda di conduzione del semiconduttore e dall'alta velocità di rigenerazione del sensibilizzatore, dovute alla forma ridotta del mediatore.
Un fotosensibilizzatore ideale deve assorbire tutta la radiazione solare almeno fino a 900 nm, deve essere ancorato al semiconduttore e iniettare gli elettroni nella banda di conduzione del semiconduttore con una resa quantica unitaria. Il suo potenziale redox (S+ /S) deve essere sufficientemente elevato da poter essere facilmente rigenerato dalla specie presente in soluzione, e deve essere stabile alla luce in modo da poter sostenere sotto illuminazione almeno 108 rigenerazioni, che corrispondono approssimativamente a 20 anni di funzionamento sotto luce naturale (giorno-notte). I criteri sopra elencati sono sufficientemente soddisfatti da alcune classi di complessi del rutenio (II), opportunamente sviluppati per un utilizzo in tale tipo di cella, dove la coppia redox generalmente impiegata come mediatore è triioduro/ioduro (I3-/I-) per l'alta velocità con cui rigenera il sensibilizzatore.
Con il migliore fra i sensibilizzatori fino a ora sviluppati, con soglia di assorbimento della radiazione a 900 nm, e con la coppia I3-/I- è stata ottenuta un'efficienza di conversione dell'energia solare del 10,4°, in condizioni di potenza della radiazione solare incidente di circa 1 kW/m2, valore che regge il confronto con quelli delle celle fotovoltaiche al silicio. L'efficienza del 10,4° è stata valutata sulla base della seguente equazione:
εfoto = (Ifoto,cc • Vocfoto • ff)/ Pr
dove Pr, la potenza della radiazione solare incidente, era 964 W/m2, Ifoto,cc 18,3 mA/cm2, Vocfoto 0,72 V e ff 0,73; quindi, sotto queste condizioni di illuminazione, la potenza massima (Ifoto • Vfoto)max erogabile da questa cella è di 0,1 kW/m2.
L'efficienza di conversione dell'energia solare in energia elettrica con un tale tipo di sensibilizzatore non può teoricamente superare, per motivi termodinamici e di soglia, il 27%, e l'aver ottenuto il 10,4%, sebbene sia un risultato molto positivo, indica che vi sono perdite pari al 63% dell'energia teoricamente disponibile; d'altra parte, questo risultato indica anche la possibilità, agendo su alcuni componenti della cella, di ottimizzare l'efficienza di conversione.
Le celle fotoelettrochimiche rigenerative con sensibilizzatori molecolari e semiconduttori nanocristallini, sebbene siano ancora oggetto di studi di base per la piena comprensione delle proprietà dei materiali di dimensioni nanometriche e per lo sviluppo di nuovi sensibilizzatori e mediatori, sono già a un livello tecnologico molto avanzato. Sono stati realizzati prototipi preindustriali di celle prodotte con una tecnologia semplice e consolidata che prevede la deposizione di un film sottile di TiO2 su vetro conduttore per trattamento termico da dispersioni colloidali, l'adsorbimento del colorante da una sua soluzione diluita, l'interfacciamento con un secondo vetro conduttore su cui è depositato un sottile strato di Pt e il riempimento con un sottile strato di soluzione contenente la coppia redox I3-/I-.
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