ELEZIONI
di Domenico Fisichella
L'azione del votare ricorre in almeno tre fattispecie fondamentali. Si può votare, e si vota, per assumere decisioni all'interno di un organismo collegiale, sia esso elettivo oppure no. Si può votare, e si vota, per eleggere un organismo collegiale. Infine si può votare, e si vota, per eleggere una carica monocratica, cioè monopersonale: il priore di un ordine religioso, il segretario generale di un'associazione, il sindaco, il leader di un partito, il presidente della repubblica. Quando si fa riferimento alla problematica dei sistemi elettorali, il richiamo va alle due ultime fattispecie, con particolare riguardo all'elezione dell'organismo collegiale, in genere una qualche assemblea rappresentativa operante a vario livello, locale, regionale, centrale.
Nel caso delle cariche monopersonali l'elezione può essere diretta, se vi è chiamato l'elettorato popolare in prima persona, oppure può essere indiretta, se gli elettori popolari designano dei 'grandi elettori' che a loro volta scelgono una persona per la carica in palio, ad esempio la presidenza della repubblica (altro è il caso se il presidente è eletto dal parlamento nazionale, eventualmente integrato nella sua composizione, come in Italia). Nell'evenienza di elezione diretta è ipotizzabile un solo turno di elezione, e allora la carica è attribuita a maggioranza relativa. Se viceversa è prevista la maggioranza assoluta e nessun candidato la consegue, si fa ricorso a un secondo turno che decide a maggioranza relativa. Non è necessario soffermarsi oltre sui criteri di elezione degli organi monocratici. Assai più importante invece, come accennato sopra, è il discorso per quanto riguarda l'elezione di assemblee e camere rappresentative. E d'ora in avanti si farà riferimento solo a questo versante analitico.
Il sistema elettorale è un meccanismo per la traduzione dei voti in seggi. Il dibattito su tale strumento istituzionale è molto antico. Per limitarci ad alcuni cenni relativi al mondo moderno, ove esso ha assunto uno speciale rilievo per l'emergenza e poi l'affermazione delle democrazie rappresentative, ricorderemo anzitutto che Montesquieu diceva che la legge del voto è per le democrazie ciò che la legge della successione ereditaria è per le monarchie, così sottolineando l'importanza focale di tale elemento per la vita e il funzionamento di quei sistemi politici. In epoca successiva si colloca il dibattito tra John Stuart Mill e Walter Bagehot. Il primo nella sua opera sul governo rappresentativo (1861) prende posizione a favore del progetto di riforma elettorale presentato due anni avanti da Thomas Hare, e mirante a modificare il sistema elettorale britannico mediante una tecnica proporzionalista di voto singolo trasferibile. Il secondo nel suo saggio sulla costituzione inglese (1867) polemizza con la linea milliana e si dichiara a sostegno del criterio maggioritario.
La controversia tra Mill e Bagehot suggerisce chiaramente che la traduzione dei voti in seggi può avvenire secondo modalità assai diverse, che vanno da un massimo a un minimo di proporzionalità. In questo senso si distingue di solito tra formule elettorali proporzionali, maggioritarie e miste. Ma si deve subito avvertire che il genus proporzionale conosce numerose species, e altrettanto vale per il genus maggioritario. Così, ad esempio, secondo Ferdinand Hermens già prima della guerra 1914-1918 era possibile contare qualcosa come trecento varietà di sistemi elettorali a rappresentanza proporzionale (v. Hermens, 1951). Anche senza rifare i conteggi, è certo che il numero dei sistemi elettorali, proporzionali o maggioritari, è rilevante: qui basterà richiamare i tipi più consueti, e comunque tecnicamente o storicamente degni di menzione. Si avverte preliminarmente che il riferimento va sempre a sistemi elettorali competitivi, precisando che in un sistema di partiti una formula elettorale è competitiva allorché non impedisce a un partito già minoritario quanto a voti di conquistare la maggioranza dei voti, e inoltre allorché non impedisce la traduzione di tale maggioranza di voti in una maggioranza di seggi. In termini più generali, è competitiva ogni formula la quale non predetermina l'impossibilità che una minoranza diventi maggioranza (v. Fisichella, 1970 e 1982).
Il plurality system è il sistema adottato per l'elezione dei Comuni in Gran Bretagna, della Camera dei rappresentanti negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda, della Camera dei Comuni in Canada e dell'Assemblea rappresentativa nel Sudafrica. La sua meccanica si riassume nella formula first-past-the-post. Esso, cioè, è un sistema maggioritario a collegio uninominale, per il quale è sufficiente la maggioranza relativa dei voti validi perché il candidato sia eletto. In termini generali, vale ricordare che si parla di maggioranza relativa allorché un candidato o una lista superano ciascun altro candidato o lista di almeno un voto. Ad esempio, se ipotizziamo tre candidati e cento voti, per parlare di maggioranza relativa è sufficiente che il candidato A ottenga 34 voti, contro i 33 di ciascuno dei candidati B e C. Si parla invece di maggioranza assoluta allorché un candidato o una lista ottengono la metà più uno dei voti. Dati cento voti, il numero di consensi necessario e sufficiente per configurare la situazione di maggioranza assoluta è 51. Infine, si parla di maggioranza qualificata allorché la maggioranza assoluta dei voti deve configurare altresì un qualche ulteriore requisito: ad esempio, allorché si richiede non soltanto la maggioranza assoluta dei voti espressi, ma che tale cifra rappresenti altresì la maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto.
In Australia la Camera dei rappresentanti è eletta con un sistema di voto alternativo in collegi uninominali e a maggioranza assoluta. Ma il voto alternativo è applicabile anche a circoscrizioni plurinominali (plurinominale è il collegio che elegge più rappresentanti, uninominale è il collegio che elegge un solo rappresentante), e quello plurinominale è stato il metodo di elezione del Senato australiano dal 1919 al 1949 (si avverte che, salva diversa indicazione espressa, il riferimento è sempre ai sistemi elettorali per le Camere basse dei vari paesi: ovviamente, in caso di rappresentanza monocamerale, la normativa è quella relativa all'unica Camera). Il voto alternativo o preferenziale è una modalità di scrutinio maggioritario che combina in un solo turno di votazione gli effetti dei due turni: oltre che in Australia, è stato utilizzato per qualche tempo in Canada. "Ogni elettore vota per un candidato, ma in pari tempo indica gli altri candidati che hanno la sua seconda preferenza, terza preferenza, e così via, fino all'esaurimento del numero dei candidati presenti. Se un candidato ottiene la maggioranza assoluta dei voti in prima preferenza, è proclamato eletto. In caso contrario si elimina il candidato che ha il minor numero di prime preferenze, tenendo tuttavia conto delle seconde preferenze indicate sulle sue schede. Tali seconde preferenze sono riportate sugli altri candidati. Se nessun candidato ha ottenuto la maggioranza richiesta, si passa alle terze preferenze, e via di seguito.
Esempio: si abbiano un collegio uninominale, quattro candidati e 50.000 suffragi espressi. La maggioranza assoluta è di 25.001 preferenze. Si immagini che lo spoglio delle prime preferenze dia il seguente risultato: Brown, 20.000; Black, 14.000; White, 10.000; Green, 6.000. Si ripartiscono ora le seimila schede di Green tenendo conto delle seconde preferenze indicate, in ipotesi: Brown, 5.500; Black, 400; White, 100. Si aggiungono tali voti alle prime preferenze e Brown è eletto con 25.500 voti contro 14.400 di Black e 10.100 di White" (v. Cotteret ed Émeri, 1978).
Per l'ampiezza dell'arco storico abbracciato, l'esperienza più rilevante di doppio turno è quella compiuta dalla Francia, la quale ha fruito di tale sistema durante il Secondo Impero, poi dal 1873 al 1936 (salve le elezioni del 1919 e del 1924 che si tennero con un sistema misto il quale tenta di conciliare scrutinio di lista e formula maggioritaria assoluta), e ne fruisce attualmente (1993) avendolo la V Repubblica riadottato a partire dalle elezioni per l'Assemblea nazionale del 23-30 novembre 1958. Si tenga peraltro presente che con la legge 10 luglio 1985, n. 85-690, è stato introdotto per l'elezione dei deputati un sistema a scrutinio di lista e rappresentanza proporzionale alla più forte media, senza panachage né voto preferenziale, nonché con una clausola di esclusione che ammette alla ripartizione dei seggi solo le liste che abbiano ottenuto almeno il 5% dei suffragi espressi, nell'ambito di circoscrizioni corrispondenti ai dipartimenti. Sulla base di tale legge si sono svolte le elezioni dell'Assemblea nazionale in data 16 marzo 1986. Il sistema maggioritario a doppio turno è stato reintrodotto con due successive leggi (rispettivamente in data 11 luglio e 24 novembre 1986), mantenendo fermo il numero dei deputati, elevato nel 1985 da 491 a 577, e provvedendo a un nuovo ritaglio territoriale dei collegi. Col doppio turno si sono così svolte le elezioni politiche del 5-12 giugno 1988. Si precisa che per panachage s'intende un metodo di votazione secondo il quale l'elettore può inserire in una data lista elettorale uno o più nomi di un'altra lista: in altre parole, se è previsto il panachage l'elettore può votare per la lista A inserendovi uno o più nomi di candidati inclusi nella lista B.
Oltre che in Francia, il doppio turno è stato utilizzato in Austria, Belgio, Germania, Italia, Norvegia, Olanda, Spagna, Svizzera, solitamente in periodi precedenti l'introduzione di formule di rappresentanza proporzionale. Nel sistema a doppio turno l'elezione può avere luogo sia in collegi uninominali, sia in collegi plurinominali. Complessivamente, sul piano storico questa seconda evenienza è la meno consueta. È sufficiente illustrare perciò la meccanica del sistema nei collegi uninominali. L'elezione al primo turno richiede di solito la maggioranza assoluta dei voti validi espressi nel collegio. Talvolta, peraltro, si può esigere un quorum minore: così, agli esordi del sistema a doppio turno sulla scena francese, per essere promossi al primo turno bastava il conseguimento di un suffragio pari a un ottavo del numero degli iscritti a votare. D'altra parte, talora si richiede che la maggioranza assoluta dei voti espressi rappresenti altresì un certo quorum di iscritti a votare. È così nella V Repubblica, la quale esige per l'elezione al primo turno, oltre alla maggioranza assoluta dei voti espressi, che tale maggioranza costituisca un quorum non inferiore a un quarto degli iscritti.
Se nessun candidato ottiene la prescritta maggioranza, si procede a una seconda votazione, di solito una o due settimane dopo. L'ammissione al secondo turno può essere variamente regolata. È possibile che essa sia consentita soltanto ai due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti al primo turno, e si avrà allora il ballottaggio propriamente detto. Oppure può esserne riconosciuto il diritto a tutti i candidati che hanno conseguito al primo turno una certa percentuale di suffragi: ad esempio, come prevede l'attuale legislazione francese, pari al 12,5% degli aventi diritto al voto. Talvolta non è neppure esclusa la possibilità d'inserire candidati non presentati al primo turno, al posto di altri ritiratisi. Infine, può venire ammessa la ripresentazione di tutte le candidature proposte al primo turno, senza esclusioni.
Per ottenere il seggio al secondo turno è sufficiente la maggioranza relativa dei voti validi.Il voto singolo trasferibile, o quota system, in vigore tra l'altro dal 1922 nella Repubblica d'Irlanda, costituisce una variante del sistema elaborato da Hare: la differenza principale rispetto a esso è che mentre per la versione proposta da Hare l'intero territorio nazionale doveva costituire un'unica circoscrizione, l'Irlanda è invece divisa in numerose circoscrizioni plurinominali di piccole dimensioni (tre-cinque seggi). La formula adottata nel caso irlandese assume che per essere eletto ciascun candidato debba conseguire una quota di voti data dalla divisione della somma dei voti validi espressi nel collegio per il numero dei seggi da attribuire aumentato di uno, nonché dall'aggiunta di un'ulteriore unità alla cifra così ottenuta. Ad esempio, se i seggi del collegio sono cinque e i voti validi sono 6.000, la quota si ha dividendo 6.000 per cinque più uno, ottenendo perciò 1.000, e aggiungendo ulteriormente a questa cifra un'unità: il quoziente è perciò 1.001.
Appena un candidato raggiunge la quota minima, i suoi voti eccedenti vengono attribuiti sulla base delle "successive preferenze segnate sulla scheda dall'elettore" (v. Lanchester, 1981).Il sistema del voto multiplo - impropriamente detto block vote - prevede l'attribuzione a ciascun elettore di un numero di voti pari al numero dei seggi da assegnare nel collegio. Tali voti vanno distribuiti tra candidati diversi, la cui elezione avviene a maggioranza relativa.
Usato ancora in Gran Bretagna fino al 1945 nei collegi binominali, il voto multiplo ha trovato altresì applicazione in Grecia per designare la Camera dei deputati in vari periodi, e in Turchia per l'elezione dell'Assemblea nazionale. A differenza del voto multiplo, il sistema del voto limitato - impiegato in Gran Bretagna dal 1868 al 1880 per l'elezione ai Comuni di quaranta rappresentanti in tredici circoscrizioni (dodici trinominali e una, la City of London, quadrinominale) e agli inizi del XX secolo in Portogallo e Spagna - attribuisce a ciascun elettore un numero di voti minore, solitamente di una unità, del numero dei deputati da eleggere nella circoscrizione: ad esempio, in una circoscrizione quadrinominale ciascun elettore dispone di tre voti, da attribuire a candidati diversi. Anche qui la promozione dei candidati avviene a maggioranza relativa. Quanto al voto cumulativo, adottato per l'elezione della Camera dei rappresentanti nello Stato americano dell'Illinois, esso costituisce un'altra variante del voto multiplo: qui ogni elettore dispone di tanti voti quanti sono i seggi da distribuire nel collegio, e può cumulare anche tutti questi voti su un unico candidato, per la cui vittoria, di nuovo, sarà sufficiente una maggioranza relativa. La ratio di molte di queste formule di voto è quella di assicurare o almeno agevolare una rappresentanza delle minoranze pur in costanza di una attribuzione dei seggi su base maggioritaria.
Largamente adottato è ormai il sistema proporzionale a scrutinio di lista, ovviamente in circoscrizioni plurinominali che possono essere anche molto ampie, fino al punto che talvolta (Israele, Olanda) l'intero territorio nazionale costituisce un'unica circoscrizione. Formule proporzionali usano ormai Austria e Belgio, Finlandia e Islanda, Norvegia e Portogallo, Spagna e Grecia, Svizzera e Danimarca, Svezia e Italia (fino al 1993). Esistono più versioni di tali formule (d'Hondt, Hagenbach-Bischoff, SainteLaguë, per citare le più diffuse), talvolta con l'aggiunta di una clausola di sbarramento (tra gli altri paesi, in Danimarca, Spagna, Svezia) che esclude dal riparto dei seggi le liste che a livello nazionale, o meno frequentemente a livello circoscrizionale, non raggiungono una certa soglia di voti, in genere tra il 2 e il 5%: ma la clausola di sbarramento può accompagnare anche formule elettorali maggioritarie, come abbiamo visto nel caso francese per il passaggio dal primo al secondo turno, limitato ai candidati che ottengono il consenso del 12,5% degli aventi diritto.
Il sistema proporzionale più elementare consiste nel distribuire i seggi determinando il cosiddetto 'quoziente naturale', ottenuto dividendo il numero dei voti conseguiti complessivamente dalle varie liste nella circoscrizione per il numero dei seggi da attribuire nella circoscrizione stessa. Se, ad esempio, il totale dei voti conseguiti dalle liste in una circoscrizione è 300.000 e i seggi da attribuire sono quattro, il quoziente naturale è 75.000.
Per attribuire i seggi alle singole liste, si vede quante volte 75.000 sta nel voto di ciascuna lista. Se la lista A ottiene 160.000 voti, la lista B raccoglie 78.000 voti e la lista C ne ha 62.000, due seggi vanno alla lista A (75.000 per due, con un resto di 10.000 voti), un seggio va alla lista B (con un resto di 3.000 voti), il quarto seggio non viene attribuito a livello circoscrizionale, e la lista C ha un resto di 62.000 voti. Ma il quoziente può essere anche determinato dividendo i voti per il numero dei seggi della circoscrizione aumentato convenzionalmente di una o più unità: ad esempio, n + 1 (metodo Hagenbach-Bischoff, dal nome del professor Eduard Hagenbach-Bischoff, che lo ha proposto), oppure n + 2, come nella normativa italiana. I seggi non attribuiti a livello circoscrizionale (in caso di molteplicità di circoscrizioni) possono venire distribuiti ricalcolando a livello nazionale, o sulla base dei voti totali delle liste o in base ai resti, un nuovo quoziente, con modalità analoghe o diverse rispetto al quoziente circoscrizionale: è possibile, infatti, che si usi n + 2 a livello circoscrizionale e invece n + 3 a livello centrale. Ma il riparto di tutti i seggi a livello circoscrizionale può anche essere ottenuto integrando, in una logica di forme miste (del resto frequenti), un metodo con un altro.
Senza ricorrere a un quoziente calcolato a livello nazionale e senza altresì ricorrere a forme miste, si può anche pervenire all'attribuzione di tutti i seggi a livello circoscrizionale con molti metodi. Illustriamone alcuni. Il metodo d'Hondt (dal nome del professor Victor d'Hondt) consiste nella divisione delle singole cifre elettorali dei partiti per la serie di numeri successivi 1, 2, 3, 4, 5, e così avanti, finché necessario. Anche il metodo Sainte-Laguë (dal nome di André Sainte-Laguë) consiste in una divisione del genere, ma la successione è del tipo 1, 3, 5, 7, 9. Facciamo il caso di tre liste, la A con 200.002 voti, la lista B con 100.000 e la C con 99.000 voti, e tre seggi da attribuire.
Con il metodo d'Hondt si avrebbe la distribuzione della tab. I, ove i numeri tra parentesi indicano i seggi attribuiti e la sequenza nell'attribuzione (il primo seggio ad A, il secondo seggio ancora ad A, il terzo seggio a B).Con il metodo Sainte-Laguë si avrebbe, invece, la distribuzione della tab. II. In questo caso il primo seggio andrebbe ad A, il secondo a B, il terzo alla lista C.Per un ulteriore approfondimento, vediamo adesso un esempio più complesso, ipotizzando sei liste concorrenti (lista I con 250.000 voti; II con 100.000 voti; III con 85.000 voti; IV con 130.000 voti; V con 12.000 voti e VI con 31.000 voti) e dodici seggi da ripartire (v. Schepis, 1955). Vediamo adesso nella tab. III il riparto col metodo d'Hondt (i numeri in corsivo sono le cifre elettorali che non ottengono seggi, i numeri tra parentesi indicano la sequenza dei seggi attribuiti).Passiamo adesso nella tab. IV al riparto con il metodo Sainte-Laguë, considerando sempre lo stesso numero di liste e la stessa distribuzione dei voti.
Altri due metodi che merita ricordare sono quello della media più forte (o più alta), e quello del resto più forte. Il sistema della media più forte, applicato nella consultazione elettorale francese del 16 marzo 1986, funziona in questo modo: una volta ottenuto per ciascuna circoscrizione il rispettivo quoziente naturale (dividendo il numero totale dei voti espressi nella circoscrizione per quello dei seggi), si ha una prima distribuzione dei seggi alle liste in ragione dei voti ottenuti da ciascuna. Per l'attribuzione dei seggi residui si aggiunge a ogni lista una unità al numero dei seggi fin qui conseguiti (se la lista non ha finora conseguito alcun seggio si ha 0 + 1), e si divide nuovamente il totale dei voti di ciascuna lista per il numero così ottenuto. La lista che ha la media più forte ottiene il seggio residuo, e poi così di nuovo, finché tutti i seggi residui non siano stati assegnati.
Esempio. Si abbia una circoscrizione con cinque seggi e un totale di 200.000 voti espressi. Si abbiano quattro liste: la A con 86.000 voti, la B con 56.000, la C con 38.000, la D con 20.000. Il quoziente elettorale (naturale) è di 40.000 (200.000 : 5). Sulla base di tale quoziente alla lista A vanno due seggi, con un resto di 6.000 voti, alla lista B un seggio con un resto di 16.000 voti, alla lista C nessun seggio e 38.000 voti di resto, alla lista D nessun seggio e 20.000 voti di resto. Rimangono dunque da attribuire due seggi. Adesso si ripete l'operazione aumentando di una unità il numero dei seggi riferiti a ciascuna lista (A, 2 + 1; B, 1+ 1; C, 0 + 1; D, 0 + 1) e si dividono i voti di ciascuna lista per il numero dei seggi riferiti alla stessa lista. Si ha così per la lista A, 86.000 : 2 + 1, pari a una media di 28.666; per la lista B, 56.000 : 1 + 1, pari a una media di 28.000; per la lista C, 38.000 : 0 + 1, pari a 38.000; per la lista D, 20.000 : 0 + 1, pari a 20.000. Il quarto seggio è assegnato alla lista C. Rimane il quinto e ultimo seggio. Si ricomincia l'operazione, tenendo conto della già avvenuta attribuzione del quarto seggio. Lista A, 86.000 : 2 + 1 = 28.666; lista B, 56.000 : 1 + 1 = 28.000; lista C, 38.000 : 1 + 1 = 19.000; lista D, 20.000 : 0 + 1 = 20.000. Il quinto seggio è ottenuto dalla lista A, che ha la media più forte.Quanto al metodo del resto più forte, esso procede attribuendo in una fase iniziale i seggi in base al quoziente naturale. Nell'esempio numerico già utilizzato, la lista A prende i soliti due seggi, con un resto di 6.000 voti, la lista B un seggio, con un resto di 16.000, la lista C nessun seggio e un resto di 38.000 voti, la lista D nessun seggio e un resto di 20.000 voti. Rimangono da attribuire appunto due seggi, che vanno alle liste con i resti più forti: rispettivamente, un seggio alla lista C e uno alla lista D. Basta una rapida comparazione tra questi due esempi per cogliere la ratio politica che sta alla base della scelta dell'uno o dell'altro metodo. A parità di ogni altra condizione, constatiamo che con il metodo della media più forte la lista relativamente più votata, cioè la lista A, ottiene tre seggi su cinque, mentre con il metodo del resto più forte la lista A ottiene due seggi. Nel primo caso, cioè, si ha una minore 'frazionalizzazione' del sistema partitico e una maggiore gratificazione rappresentativa del partito relativamente più votato. Si avverte che per frazionalizzazione si intende la misura di dispersione della forza competitiva, elettorale e/o parlamentare, fra tutti i partiti in contesa.
L'idea di frazionalizzazione si compone di due concetti base: il numero delle quote partitiche e l'uguaglianza relativa di queste quote (a livello elettorale e/o parlamentare: lo scarto eventuale tra dimensione elettorale e dimensione parlamentare rinvia al ruolo, più o meno distorsivo, delle formule di voto nella traduzione dei consensi popolari in seggi rappresentativi). Un sistema 'non frazionalizzato' ha una sola quota, che esaurisce l'intero ammontare del potere competitivo: abbiamo qui il sistema a partito unico, il quale non comporta relazioni competitive. All'estremo opposto, un sistema altamente frazionalizzato ha un gran numero di quote di grandezza all'incirca uguale, talché nessuna di esse configura una quota rilevante dell'intero ammontare della forza (cioè dei voti e/o dei seggi). Stavolta siamo in presenza di un caso estremo di 'multipartitismo', qualcosa come dieci partiti ciascuno dei quali consegue circa un decimo del voto totale. E vale ribadire che la frazionalizzazione non va identificata con il numero dei partiti. L'uguaglianza relativa delle quote partitiche, qualunque sia il loro numero, è altresì parte integrante del concetto. Si considerino ad esempio due sistemi con tre partiti ciascuno. Il sistema 1 vede il partito A con l'80% dei voti, il partito B con il 12%, il C con l'8%. Nel sistema 2, invece, il partito A consegue il 34% dei voti, il B il 33 e il C anch'esso il 33. Entrambi i sistemi comprendono tre partiti o, più esattamente, tre quote del voto totale. Ma il sistema 2 è molto più frazionalizzato: le tre quote sono pressoché uguali, per cui nessuna di esse si avvicina al voto totale (v. Rae, 1967).
L'elezione del Bundestag della Repubblica Federale di Germania è disciplinata dalla legge del 7 maggio 1956 (la quale si rifà in parte a normative del 1949 e del 1953). Tale legge prevede che il territorio elettorale sia diviso in un numero di collegi uninominali pari alla metà dei seggi che compongono il Bundestag, e che a ciascun elettore siano affidate due specie di voto nella stessa scheda. In ogni collegio uninominale ciascun partito presenta il proprio candidato; risulta vincente chi consegue la maggioranza relativa dei voti validi espressi nel collegio. Per assegnare l'altra metà dei seggi l'elettore utilizza il secondo voto, che sarà dato questa volta a liste di partito presentate in ciascun Land; ma poiché è ammesso il collegamento delle liste di uno stesso partito presenti in più Länder, si avranno in pratica liste nazionali per ciascun partito. In questa seconda parte del procedimento l'assegnazione dei mandati per ogni partito, eseguita su basi proporzionali con il metodo d'Hondt, poi dal 1985 con la formula Hare-Niemeyer, che combina quoziente naturale e metodo del resto più alto, viene fatta con riferimento al numero totale dei seggi che compongono il Bundestag, non perciò solo con riferimento alla metà. Questo significa che, se un partito ottiene nei collegi uninominali un numero di seggi minore di quanti gliene assegna globalmente il calcolo proporzionale, viene reintegrato di tanti seggi quanti ne occorrono a ricondurre il rapporto tra voti e seggi su un piano di proporzionalità.
Tuttavia, se un partito ottiene nello scrutinio uninominale un numero di seggi non minore, ma maggiore di quanti gliene consentirebbe una distribuzione proporzionale, non perde ma conserva tali 'mandati in eccedenza', per cui il numero finale dei deputati al Bundestag può talvolta essere alquanto più alto del doppio del numero dei collegi uninominali. Per fare un esempio, il Bundestag eletto nel 1961 si componeva di 499 membri, invece dei 494 che costituivano allora il totale 'normale', senza contare i 22 deputati di Berlino occidentale senza diritto al voto. Altra particolarità della legge elettorale tedesca è la presenza della Sperrklausel, clausola di esclusione (o di sbarramento), per la quale non sono ammessi al riparto dei seggi su base proporzionale quei partiti che ottengono un suffragio su scala nazionale inferiore al 5% (solo nell'elezione del 1990 fu sufficiente il 5% in uno dei territori dei due vecchi Stati ora unificati), ovvero i cui candidati non sono riusciti a conquistare la maggioranza in almeno tre collegi uninominali. La clausola di esclusione non si applica a liste di partiti che rappresentano minoranze nazionali.
Se il sistema elettorale è un meccanismo per la traduzione dei voti in seggi, risulta agevole constatare, da quanto si è visto nel capitolo precedente, che i modi di tale traduzione sono assai differenti: una cosa è il comportamento del plurality system, altra cosa è il comportamento delle formule di tipo proporzionale. Ciò pone il problema delle conseguenze, degli effetti (e correlativamente dei fini) che l'influenza dei sistemi elettorali ha sul processo politico, a vario livello.
In altri termini, esiste un ruolo di 'ingegneria' politica delle diverse formule elettorali. E per meglio penetrare tale ruolo ingegneristico, cioè l'attitudine dei sistemi elettorali a produrre certi effetti, occorre avere presente che tre sono le possibili operazioni riferibili ai sistemi elettorali: 1) manipolazione delle scelte dell'elettore; 2) sotto- o sovrarappresentazione dei partiti; 3) influenza sul numero dei partiti. In considerazione di ciò, i quesiti relativi al ruolo ingegneristico del sistema elettorale verteranno su cosa fa in questi tre settori il sistema elettorale. Più specificamente, ci si chiederà: 1) se e quanto il sistema elettorale manipola le scelte dell'elettore; 2) se e quanto il sistema elettorale sotto- o sovrarappresenta i partiti; 3) se e quanto il sistema elettorale incide sul numero dei partiti (v. Fisichella, 1970 e 1982).
Prima di entrare nel merito, un'avvertenza lessicale. Per sovrarappresentazione s'intende che un partito ottiene una percentuale di seggi superiore alla percentuale dei voti conseguiti. Per sottorappresentazione s'intende, ovviamente, il contrario. Per dis-rappresentazione s'intende la distorsione complessiva nel rapporto voti/seggi, indipendentemente dalla precisazione su quale partito sia sottorappresentato e quale sovrarappresentato. Veniamo adesso al dunque. Qui occorre distinguere tra influenza dei sistemi elettorali a livello di circoscrizione o collegio o distretto (le tre parole rinviano agli usi linguistici dei vari paesi) e influenza a livello di sistema politico generale. La distinzione va sempre tenuta presente, anche se i nessi tra i due livelli sono continui.Prima di approfondire questo argomento, merita peraltro richiamare due pratiche operanti a livello di collegio e che, pur non investendo le formule elettorali in quanto tali, sono tuttavia in grado di produrre effetti significativi in sede politica.
La prima pratica, detta del gerry-mandering (dal nome del governatore del Massachusetts, Elbridge Gerry, che la adottò nel 1812), consiste nel ritagliare i collegi secondo linee territoriali tali da far trovare i sostenitori del partito che promuove il ritaglio - evidentemente si tratta di un partito in grado di farlo, in quanto al potere - in quei collegi dove il loro apporto vale a spostare la maggioranza nel senso desiderato. Tale pratica esige la contiguità di un collegio sicuro per il partito che vuole porla in atto (cioè di un collegio che sia tradizionalmente appannaggio di questo con largo scarto di voti) con un collegio marginale, vale a dire nel quale la differenza con i suffragi del partito avversario sia numericamente modesta.
Esempio. Dati i partiti A e B nei collegi uninominali x e y, supponiamo che nel collegio x il partito A ottenga 8.000 voti e 2.000 ne raccolga il partito B, mentre nel collegio y la distribuzione sia, rispettivamente, di 4.500 e 5.500 voti. Il collegio y, dunque, è un collegio marginale. Orbene, se il partito A è nelle condizioni politiche di poter operare il ritaglio dei collegi, qui gli si offre un'occasione propizia per sbaragliare l'avversario B. Infatti, se il ritaglio territoriale è fatto in modo da trasferire, per indicare una cifra, 4.000 elettori per collegio, poiché l'elettorato originariamente nel collegio x è diviso secondo un rapporto di otto a due a favore del partito A, nel collegio y saranno immessi 3.200 elettori del partito A e 800 del partito B. Viceversa, siccome l'elettorato originario del collegio y è distribuito secondo una proporzione di 4,5 a 5,5 a favore del partito B, il gerry-mandering trasferirà nel collegio x un numero di elettori del partito A pari a 1.800 e 2.200 del partito B. La nuova distribuzione sarà, perciò, nel collegio x di 6.600 voti al partito A e 3.400 al partito B, nel collegio y di 5.900 voti al partito A e di 4.100 al partito B, con la conseguenza che entrambi i seggi vengono vinti dal primo partito.Come è evidente, il gerry-mandering opera nel senso della sotto- e sovrarappresentazione dei partiti.
Ma esiste un'altra strada, in un certo modo uguale e contraria alla prima, per arrivare al medesimo risultato. Mentre il gerry-mandering consiste nel modificare i confini dei collegi, questa seconda via consiste invece nel non modificare, nel tempo, la distribuzione territoriale dei collegi. Perché tale indirizzo dia i suoi frutti è necessaria una condizione: che si verifichi un'espansione demografica in quei collegi nei quali è più forte la presenza del partito che si vuole sottorappresentare, rispetto ai collegi compresi nelle roccaforti dei partiti che intendono conservare la preminenza parlamentare. Un esempio clamoroso di tattica dello status quo si è avuto nell'Impero germanico contro il Partito Socialdemocratico. La legge elettorale dell'Impero, ove si votava con un sistema a doppio turno in collegi uninominali, prevedeva l'elezione di un deputato ogni 100.000 abitanti o frazione superiore a 50.000. "L'aumento del numero dei deputati in seguito all'incremento della popolazione dovrà essere determinato per legge" (art. 5, legge 1869). E il fatto è che non solo dal 1874 al 1912 il numero dei deputati al Reichstag rimase invariato a quota 397, ma - quel che più conta ai fini della sottorappresentazione - invariata rimase la distribuzione territoriale dei collegi. Così, nelle elezioni del 1912 solo 97 dei 397 collegi comprendevano una popolazione rispondente numericamente alle disposizioni di legge. Negli altri 300 lo scarto andava, per ricordare due soli casi, dai 46.650 abitanti del collegio di Schaumburg-Lippe al 1.282.000 abitanti del collegio di Teltow-Charlottenburg di Berlino.
Ma quale fattore ha determinato questa situazione di squilibrio demografico dei collegi elettorali? La crescente industrializzazione del paese, con la conseguente concentrazione di grandi masse nei centri urbani e il progressivo deflusso di manodopera dalle campagne. Orbene, una redistribuzione dei collegi secondo il movimento della popolazione avrebbe comportato l'attribuzione di un maggior numero di seggi alle città e alle zone industriali, ove più massiccia era la presenza del Partito Socialdemocratico, a tutto danno degli altri partiti - soprattutto conservatori e cattolici - largamente votati nelle campagne. Ciò spiega perché i partiti avvantaggiati dallo status quo si siano ben guardati dal modificarlo, lasciando sussistere una sottorappresentazione della socialdemocrazia di portata tale che - per citare un caso macroscopico - nel 1907 questo partito con il 29% dei voti, pari alla maggioranza relativa nella consultazione, otteneva solo il 10,8% dei seggi (la sottorappresentazione socialdemocratica derivava però anche dal sistema elettorale di doppio turno).
Dopo aver riferito delle due predette pratiche, una regolarità che va messa in evidenza riguarda l'ampiezza circoscrizionale, cioè il numero dei rappresentanti da eleggere in ciascun collegio, circoscrizione o distretto. Se il collegio è uninominale non ci sono problemi. Se però il collegio è plurinominale, si deve constatare che, a parità di condizioni, più cresce l'ampiezza circoscrizionale, più si accentua l'elemento della proporzionalità nella distribuzione dei seggi e più diminuisce l'attitudine dis-rappresentativa del sistema elettorale.
Ad esempio, se il sistema politico A vota con una certa formula di rappresentanza proporzionale in circoscrizioni che mediamente eleggono tre deputati e il sistema politico B vota con la medesima formula in circoscrizioni che mediamente eleggono dieci rappresentanti, a parità delle altre condizioni il sistema politico B avrà una distribuzione dei seggi più proporzionale del sistema politico A. Ancora, se il medesimo sistema politico B abbassa a sette l'ampiezza circoscrizionale media, di altrettanto ridurrà il suo tasso di proporzionalità rappresentativa, se lo eleva a quindici accentuerà il suo tasso di proporzionalità. L'incidenza dell'ampiezza circoscrizionale va dunque tenuta sempre in conto quando si affronta la questione del rapporto tra sistemi elettorali e sistemi partitici.
Venendo adesso specificamente alle tre operazioni dell'ingegneria elettorale, per quanto riguarda manipolazione e dis-rappresentazione l'influenza specifica del sistema elettorale è riscontrabile e misurabile sia a livello circoscrizionale sia a livello nazionale. Si consideri, nell'ambito del collegio, il plurality system e lo si raffronti con la formula maggioritaria assoluta.
A parità di condizioni, il primo sistema elettorale è più manipolativo e dis-rappresentativo del secondo. Infatti, dati cento elettori votanti e tre candidati (questo è il numero di candidati necessario e sufficiente per istituire la comparazione tra criterio maggioritario assoluto e criterio maggioritario relativo nel collegio uninominale: se i candidati sono due non si può cogliere la distinzione funzionale tra i predetti criteri), per conquistare il seggio in base al criterio maggioritario relativo bastano 34 voti, e dunque 66 elettori non risulteranno rappresentati. Con il sistema maggioritario assoluto, per ottenere il seggio servono 51 voti, e perciò dis-rappresentazione e manipolazione sono minori. Quanto alle formule di rappresentanza proporzionale, per riprendere il raffronto istituito nel capitolo precedente, a parità di ogni altra condizione, ampiezza circoscrizionale inclusa, la formula della media più forte è più dis-rappresentativa e manipolativa rispetto alla formula del resto più forte. In generale, è evidente che i sistemi maggioritari presentano tendenzialmente un tasso manipolativo e dis-rappresentativo superiore rispetto ai sistemi di rappresentanza proporzionale, e ciò vale a livello di collegio o circoscrizione così come a livello nazionale.
Questa impostazione, peraltro, non dice ancora molto sul terzo interrogativo, quello riferito al numero dei partiti. In tale contesto, infatti, non basta esaminare la funzione di ingegneria elettorale espletata dal sistema elettorale. Occorre aggiungere la funzione ingegneristica espletata dal sistema partitico, la portata reciproca di queste due funzioni e gli effetti sul processo elettorale della interazione tra sistema elettorale e sistema partitico.
In questo quadro di relazioni tra sistemi elettorali e sistemi partitici, vi è anzitutto da analizzare la tesi che vede nel bipartitismo il prodotto del sistema maggioritario in collegio uninominale a un solo turno. Si è detto che, così come altre formule maggioritarie, anche questa dis-rappresenta e manipola le scelte degli elettori a livello circoscrizionale. Si può aggiungere adesso che, quanto più in ciascun collegio si delinea una candidatura forte, tanto più un solo altro candidato ha la possibilità di opporsi al primo con prospettiva di successo: è quando un candidato sopravanza con ragguardevole scarto gli avversari che si verifica la necessità di concentrare i voti su un secondo competitore, e solo su di esso, al fine di contendere il collegio con ragionevole aspettativa di vittoria. In sintesi, è solo a livello circoscrizionale, e solo alla condizione competitiva predetta, che il sistema maggioritario in collegio uninominale a un solo turno riduce a due il numero dei candidati. Ma ridurre a due il numero dei candidati a livello di collegio non significa ridurre a due il numero dei partiti a livello nazionale. Più precisamente, è vero che in ciascun collegio l'elettore è 'indotto' dal sistema elettorale a scegliere solo tra due candidati, ma questo non comporta ancora determinare un formato bipartitico su scala nazionale. Infatti, dato ad esempio un parlamento di ottanta seggi, nulla vieta di ipotizzare l'esistenza di dieci partiti dotati ciascuno di una ragguardevole base elettorale in otto collegi uninominali: in tal caso avremmo in parlamento dieci partiti rappresentati da otto deputati l'uno.Sul piano logico, in breve, non ci sono ragioni definitive per assumere che un sistema maggioritario in collegio uninominale a un solo turno basti a produrre da solo un formato bipartitico.
Più in generale, tale conclusione può essere rafforzata osservando che nessun sistema elettorale è in grado di ridurre a due il numero dei partiti su base nazionale, salvo che si presenti una di queste due condizioni: che gli stessi due partiti siano i competitori principali in tutti i collegi del territorio nazionale, oppure che gli stessi due partiti siano i competitori principali in una parte dei collegi del territorio nazionale, mentre i restanti collegi sono divisi in due gruppi - relativamente equilibrati dal punto di vista numerico - in ciascuno dei quali si esercita il predominio di uno dei partiti in oggetto. In altri termini, a chi sostiene che il collegio uninominale a un solo turno 'produce' un formato bipartitico, va risposto che nell'analisi della fase 'genetica' di un sistema bipartitico non vale tanto guardare al sistema elettorale, quanto al sistema partitico stesso. Nel rapporto tra sistema elettorale e sistema partitico, quest'ultimo è perciò la variabile indipendente: il caso britannico, che è il più emblematico in tema di bipartitismo, mostra che il collegio uninominale viene adottato su basi generali nel 1885, con il Redistribution of seats act, ma il sistema partitico ha in buona misura la sua struttura bipartitica già nel 1867, cioè attorno all'anno che con il secondo Reform act registra un ampliamento del suffragio.
Geneticamente, dunque, il formato bipartitico britannico è ampiamente indipendente dall'influenza del collegio uninominale. E si avverte che la questione generale dell'interazione tra sistemi partitici e sistemi elettorali comporta sempre il riferimento a sistemi partitici strutturati, nei quali cioè i partiti presentano un livello significativo di organizzazione, periferica e centrale, nonché di nazionalizzazione. Se il sistema partitico non è strutturato, non si pone il problema dell'influenza o meno del sistema elettorale sul sistema partitico stesso e in particolare sul numero dei partiti, nel senso che l'influenza (eventuale) rimane limitata al livello circoscrizionale. Questa è allora un'avvertenza che vale con riferimento all'esame di tutti i sistemi partitici: intendiamo sempre, in questo contesto di analisi, sistemi partitici strutturati.
Tornando al tema del collegio uninominale a un solo turno, se esso, come del resto qualunque altro sistema elettorale, non è condizione atta a generare un formato bipartitico, ciò nondimeno il sistema maggioritario in collegio uninominale a un solo turno esercita un ruolo di prim'ordine in relazione a tale formato.
Bisogna però distinguere tra genesi e mantenimento del formato. Per la precisione, il collegio uninominale costituisce lo strumento più idoneo a mantenere bipartitico un sistema politico, date certe condizioni. Tale opera a favore dello status quo bipartitico si realizza in primo luogo attraverso la penalizzazione delle scissioni dei partiti. Inoltre, tale sistema elettorale ostacola fortemente l'emergenza di nuovi partiti, anche se non la preclude del tutto: l'affermazione dei movimenti laburisti testimonia il contrario, ma è anche vero che, ad esempio nel caso britannico, in breve tempo al bipartitismo conservatori/liberali si è sostituito il bipartitismo conservatori/laburisti.
Indicati i principali 'effetti di mantenimento' del collegio uninominale sul formato bipartitico, esistono tuttavia due condizioni che vanificano tale efficacia del sistema elettorale. La prima è la presenza nel sistema politico di terzi partiti i quali siano l'espressione di forti minoranze irriducibili - solitamente di tipo etnico e/o linguistico e/o religioso - concentrate in una determinata area territoriale. La seconda è la presenza di terzi partiti i quali, senza rappresentare in esclusiva situazioni di status speciale, abbiano comunque sviluppato, soprattutto in politíe di tipo federale, una marcata tradizione a carattere regionale. In entrambi questi casi il collegio uninominale non è in grado di assicurare il mantenimento del formato bipartitico: nulla può contro una minoranza irriducibile e concentrata che, in qualunque momento, decida di organizzarsi in partito; così come nulla può nei confronti di un partito che - per una qualche particolare circostanza - riesca a imporsi e consolidarsi sul piano regionale.
Segnalati efficacia e limiti del collegio uninominale a un solo turno in ordine alla genesi e al mantenimento di un formato numerico bipartitico, il problema successivo riguarda il ruolo di tale sistema elettorale a effetto della dinamica funzionale di tipo bipartitico. In merito va segnalato che il sistema maggioritario uninominale a un solo turno deve essere considerato, in una prospettiva di analisi ad ampio respiro storico, condizione necessaria al funzionamento del sistema politico secondo la logica operativa bipartitica. Infatti, la distribuzione dei voti popolari dimostra che solo grazie alla dis-rappresentazione indotta dalla formula elettorale in questione un partito riesce da solo a ottenere la maggioranza assoluta dei seggi necessaria per governare senza ricorrere a coalizioni parlamentari e governative, e un secondo partito può nutrire l'aspettativa concreta di rotazione al potere, che periodicamente si realizza: i casi britannico, neozelandese, canadese confermano ampiamente sul piano empirico tale impostazione (v. Fisichella, 1982 e 1988).
Si è detto che il collegio uninominale a un solo turno svolge questo ufficio di 'condizione necessaria' in quanto dispiega un'attitudine dis-rappresentativa. Più precisamente, il sistema elettorale maggioritario in collegi uninominali a un solo turno ha come risultato, rispetto ad altre famiglie di sistemi elettorali, di massimizzare gli scarti percentuali tra i voti e i seggi dei partiti in lizza. In virtù di ciò un partito può governare da solo e un altro può nutrire l'aspettativa di alternanza al potere. Circa poi la sovra- e la sottorappresentazione, di solito è sovrarappresentato il partito più votato. Ma non è sempre così. Conosciamo casi di sovrarappresentazione del secondo partito (laburisti inglesi nel 1951, Partito Nazionale Neozelandese nel 1978), e conseguentemente di sottorappresentazione del partito più votato. Un semplice esempio mostra come ciò possa accadere. Si ipotizzi che in nove collegi il partito A ottenga complessivamente 63 voti, pari a sette voti per collegio, e che in ciascuno degli stessi nove collegi il partito B ottenga cinque voti (complessivamente 45 voti). Il partito A conquista i nove seggi. Si supponga ora che in altri undici collegi il partito A ottenga complessivamente 66 voti, pari a sei voti per collegio, e il partito B consegua in ciascuno degli stessi undici collegi sette voti (complessivamente 77 voti). Il partito B conquista gli undici seggi. Globalmente, con 129 voti (63 + 66) il partito A ottiene nove seggi, mentre il partito B con 122 voti (45 + 77) ne ottiene undici, e governa il paese.Passando adesso alle formule a doppio turno e alla loro incidenza sul numero dei partiti, va osservato che vigendo il doppio turno si sono delineate, nei vari paesi, tutte le possibili classi di formato partitico, dal bipartitismo belga al pluralismo limitato svizzero, al pluralismo estremo della Germania imperiale e dell'Olanda.
Il doppio turno, dunque, di per sé non predispone ad alcun formato specifico, e ciò vale sia in fase di proto-strutturazione sia in fase di avvenuta strutturazione. Non tende a moltiplicare, come sostiene Maurice Duverger, né ha un effetto riduttivo, come sostiene Giovanni Sartori con particolare riferimento alla V Repubblica francese (v. Duverger, 1951; v. Sartori, 1984 e 1987). Esiti in chiave di espansione o contrazione numeriche possono riscontrarsi, ma rinviano essenzialmente alla dinamica indipendente del sistema partitico e, semmai, alla presenza aggiuntiva di clausole di esclusione, le quali attengono alla normativa elettorale, ma non sono una specificità delle formule di doppio turno.
È altresì agevole rilevare che, con una clausola di sbarramento del 12,5% come quella francese attuale, qualunque sistema elettorale, comprese le formule di rappresentanza proporzionale, tende a ridurre il numero dei partiti: nell'Italia di oggi rimarrebbero due o tre partiti, fermo restando il sistema proporzionale.Qual è, allora, l'efficacia del doppio turno, 'cosa fa' tale formula elettorale, in ordine alle tre operazioni ingegneristiche prima elencate? A differenza delle formule a un solo turno, il doppio turno (per sé preso e depurato da eventuali clausole addizionali, che possono esserci o non esserci) non ha apprezzabili effetti sul numero dei partiti. Non è univocamente moltiplicatore o riduttivo, anche se aumento o riduzione possono verificarsi in vigenza del doppio turno. Ma se ciò accade, nel rapporto tra sistema elettorale e sistema partitico (fatte salve perciò ulteriori interferenze, ad esempio connesse al sistema costituzionale) la variabile indipendente è piuttosto il sistema partitico.
Quanto alle altre due operazioni, il doppio turno ha una marcata efficacia manipolativa e dis-rappresentativa. E circa quest'ultimo aspetto la sua più importante peculiarità è che esso tende a sottorappresentare costantemente - anche se in misura variabile con riferimento a una molteplicità di circostanze - i partiti antisistema (percepiti tali), poiché induce i partiti avversari, che nel primo turno hanno presentato nei vari collegi ciascuno la propria candidatura, a concordare collegio per collegio candidature comuni al secondo turno, concentrando su di esse i voti e così sopravanzando le candidature del partito antisistema.
Venendo infine alle formule di rappresentanza proporzionale, ancora una volta emerge il problema dell'efficacia, del 'cosa fanno'. In generale, più una formula elettorale contiene elementi di proporzionalità, e più è applicata in circoscrizioni di ampiezza rilevante, meno essa manipola e dis-rappresenta. In questo senso, la formula che combini il massimo di proporzionalità con il massimo di ampiezza circoscrizionale 'non fa' nulla: si limita a fotografare - ovviamente con l'esattezza di cui uno strumento riduttore è capace - la distribuzione dei voti tra le liste per tradurla in un'analoga distribuzione dei seggi. Quando perciò si afferma che la rappresentanza proporzionale ha un effetto moltiplicatore del numero dei partiti, si dice cosa inesatta: infatti, più un sistema proporzionale include elementi di proporzionalità, più si limita a registrare quanto accade nel sistema partitico, senza esplicare efficacia operativa. Se il sistema partitico si espande numericamente, ne registra l'espansione, se si contrae, ne registra la contrazione. Semmai, le formule proporzionali esplicano un'efficacia operativa se (e quanto più) includono elementi non proporzionalistici. Ma in tal caso il 'fare' non è nel senso di moltiplicare, è nel senso di manipolare e dis-rappresentare, ostacolando così le tendenze moltiplicatrici. E in questi casi l'efficacia manipolativa e dis-rappresentativa delle formule di rappresentanza proporzionale si realizza solitamente nel senso di sovra-rappresentare i partiti elettoralmente più forti, a danno dei minori.
Per fare un solo esempio riferito all'esperienza storica italiana, i seggi dei piccoli partiti (liberali, socialdemocratici, repubblicani) hanno un 'costo' in voti pressappoco doppio di quello che pagano la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista (divenuto Partito Democratico della Sinistra), cioè le due formazioni maggiori.
Stabilito ciò, non si deve però dimenticare che nella scala di intensità dis-rappresentativa i sistemi proporzionali si trovano pur sempre ai gradini più bassi, mentre le formule maggioritarie stanno ai livelli più alti. La distanza operativa tra i due gruppi è perciò marcata, e dunque ogni proposizione relativa alla carica dis-rappresentativa dei sistemi proporzionali va sempre letta sullo sfondo di tale premessa. Inoltre, se è vero che l'efficacia sottorappresentativa della rappresentanza proporzionale investe (quando tale efficacia c'è) i partiti minori, è anche vero che la sottorappresentazione di un partito minore non si verificherà se la base elettorale di tale formazione, anziché essere dispersa sull'intero territorio nazionale, è concentrata in un numero ridotto di circoscrizioni. Infine, la misura della sottorappresentazione dei partiti minori non dipende solo dal grado di ricezione di elementi maggioritari nella formula proporzionale, ma anche dall'ampiezza circoscrizionale in cui si svolge la competizione, nel senso che la sottorappresentazione dei partiti piccoli è tanto minore quanto maggiore è l'ampiezza delle circoscrizioni.Vero è che, nel passaggio da una formula maggioritaria a una formula proporzionale, può aversi una crescita del numero dei partiti (oltre che una diversa curva rappresentativa di quelli già esistenti). Ma il quesito corretto diventa allora il seguente: in tale transizione, l'eventuale crescita numerica dipende dalla formula proporzionale, o piuttosto dalla rimozione dell'ostacolo, costituito dalla precedente formula maggioritaria, che si frapponeva all'espansione numerica dei partiti? Il plurality system, ad esempio, è un potente fattore di mantenimento del bipartitismo, penalizzando scissioni e nascita di nuovi partiti, oltre che dis-rappresentando.
E dunque, se in Gran Bretagna venisse introdotta la rappresentanza proporzionale, l'ipotetica (magari probabile) crescita numerica dei partiti dipenderebbe dall'attitudine moltiplicatrice della formula proporzionale, o non dipenderebbe invece dal fatto che è stato rimosso l'ostacolo all'espansione numerica rappresentato dal plurality system, talché la formula proporzionale registrerebbe e 'fotograferebbe' l'eventuale nuova situazione prodottasi nel sistema partitico in seguito all'eliminazione del plurality system?
Due sono i motivi politici fondamentali per i quali si riformano i sistemi elettorali, sostituendo una formula di voto a un'altra. Come ci indica l'esperienza storica, un motivo è quello solitamente richiamato quando s'invoca il passaggio da una formula maggioritaria a una formula proporzionale: qui i sistemi elettorali si cambiano per adeguare il criterio di traduzione dei voti in seggi all'esigenza della deontologia democratica, cioè all'assunto che i voti debbano essere tutti uguali, tutti ugualmente importanti e quindi tutti degni di un uguale peso rappresentativo. Non è a caso che, in numerosi paesi, suffragio universale e rappresentanza proporzionale arrivano contemporaneamente. L'altro motivo fondamentale per una riforma elettorale è, invece, funzionale, e in merito va detto che le esigenze funzionali variano con il variare del tipo di disfunzioni.
Dal punto di vista del funzionamento del sistema democratico, ad esempio, possono essere difetti sia l'eccessiva instabilità di governo, sia la cristallizzazione governativa, sia la presenza di formazioni antisistema, sia l'estrema frazionalizzazione partitica. È allora probabile che, se si vuole ovviare a tali inconvenienti utilizzando la riforma del sistema elettorale, per correggere ciascuno degli inconvenienti citati si debba ricorrere nell'un caso a un certo sistema elettorale e nell'altro caso a uno diverso. Ciò significa che ogni diversa formula elettorale (competitiva) può operare come meccanismo di correzione funzionale, a seconda dello specifico elemento o situazione di disfunzione su cui si vuole intervenire. Così, sappiamo che il doppio turno opera opportunamente nel senso della sotto-rappresentazione delle formazioni partitiche antisistema. E una formula maggioritaria può rivelarsi utile correttivo per l'instabilità governativa. Ma sta di fatto che, se un sistema partitico non ha partiti antisistema e ha partiti in numero ridotto e/o muniti di alto potenziale di coalizione, la stabilità governativa può essere assicurata anche in presenza di un sistema elettorale proporzionale.
(V. anche Democrazia; Governabilità; Partiti politici; Sistemi politici comparati).
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di Giacomo Sani
1. Introduzione
In senso lato l'espressione 'comportamento elettorale' fa riferimento a tutte le attività che vengono svolte in occasione di un'elezione, quali la messa a punto della macchina organizzativa per la consultazione, la predisposizione delle liste o la scelta dei candidati, la condotta della campagna elettorale, l'affluenza dei cittadini alle urne, il computo dei voti e la proclamazione degli eletti. È evidente che in questa ampia accezione si fa riferimento ai comportamenti di diversi tipi di attori sociali: dai funzionari preposti all'organizzazione ai dirigenti politici che, in competizione tra loro, fanno appello alla cittadinanza, dagli esperti che impostano la campagna elettorale ai votanti che con le loro scelte influenzano il verdetto.
Negli studi sociologici e politologici l'espressione 'comportamento elettorale' viene normalmente usata in senso molto più ristretto, per designare le azioni delle grandi masse di elettrici ed elettori chiamati periodicamente ai seggi. Le tematiche di questo filone di ricerca sono diverse e comprendono: l'analisi della partecipazione elettorale e la sua influenza sull'esito della consultazione, la distribuzione territoriale dei suffragi per le diverse forze politiche, le variazioni della base elettorale dei partiti nel tempo, lo studio dei fattori socioeconomici e politici collegati alla preferenza per questa o quella forza politica, l'influenza delle campagne elettorali sull'esito delle consultazioni, il ruolo dei mass media e altre ancora. In generale questi studi si propongono di descrivere uno o più aspetti del fenomeno e, possibilmente, di fornirne un'interpretazione o spiegazione ricollegando i comportamenti elettorali ad altri fenomeni che del primo costituirebbero le 'cause'.
2. Dati e metodi di analisi
Lo studio del comportamento elettorale è una delle aree della scienza politica e della sociologia nelle quali si fa ricorso con maggior frequenza all'utilizzazione di metodi quantitativi. Ciò non stupisce trattandosi di un fenomeno che per sua stessa natura viene immediatamente contabilizzato e che acquista un significato politico proprio in quanto dato quantitativo. In presenza di questa base numerica naturale era logico che gli studiosi facessero ricorso alle diverse tecniche di analisi statistica. A partire dagli inizi del secolo si sono poi progressivamente sviluppate diverse metodologie e tradizioni di studio basate in parte sulla natura dei dati utilizzati e, in parte, sui metodi e sui fini delle indagini.
Una prima fonte per lo studio del comportamento elettorale è costituita dai risultati di una o più elezioni. Si tratta di valori relativi al numero degli iscritti nelle liste elettorali, al numero dei certificati elettorali consegnati, al numero degli elettori che si recano alle urne, al numero dei voti validi e delle schede bianche e nulle, al numero dei voti ricevuti da ciascun partito o candidato. Questi dati sono generalmente riferiti o all'intero corpo elettorale o a suddivisioni geografiche più o meno ampie all'interno del territorio di un paese. Data la segretezza del voto, i dati elettorali sono sempre relativi a gruppi più o meno grandi di individui, e per questo si parla di 'dati aggregati'. I livelli di aggregazione sono, tuttavia, molto diversi. In Italia il livello minimo di aggregazione è la sezione elettorale che comprende, in genere, dai 500 ai 700 cittadini. Sommando i dati relativi a queste unità primarie si costruiscono poi aggregazioni a livello comunale, provinciale, di circoscrizione elettorale, regionale e nazionale. È importante sottolineare che queste operazioni di somma dei dati possono occultare fenomeni di grande importanza che si verificano ai livelli inferiori di aggregazione. Ad esempio, la stabilità del voto per un certo partito a livello nazionale può essere il risultato di una tendenza uniforme sull'intero territorio, ma può essere anche dovuta a variazioni positive in alcune zone che vengono compensate, o neutralizzate, da perdite subite in altre zone. Pertanto i risultati di analisi condotte a un dato livello (ad esempio la regione) non sono necessariamente validi per gli altri livelli di aggregazione più bassi (ad esempio le province di quella regione).
I dati elettorali sono una base fondamentale per lo studio del comportamento elettorale, ma soffrono di alcuni limiti. Il primo discende da quanto ora detto: i dati aggregati non consentono di studiare direttamente i comportamenti individuali e di metterli in relazione con le caratteristiche sociodemografiche dei singoli o con i loro comportamenti in due diverse elezioni. Naturalmente se si conoscono la composizione socioprofessionale di certe unità (sezioni, comuni, ecc.) e la distribuzione in queste dei suffragi per i diversi gruppi politici, è possibile mettere in relazione i due fenomeni. Ma si tratta pur sempre di relazioni che valgono a livello dell'unità considerata e non necessariamente a quello individuale. Ad esempio, un'alta correlazione a livello provinciale o comunale tra i suffragi per un dato partito e la percentuale di occupati nell'industria non può venire legittimamente interpretata come prova diretta che il voto operaio si indirizza verso quel partito. Per superare questa difficoltà negli ultimi decenni sono state perfezionate alcune particolari tecniche statistiche per consentire inferenze relative ai comportamenti individuali sulla base di dati aggregati. Tuttavia il problema non è stato ancora risolto in maniera soddisfacente; sulla validità di queste tecniche e sui loro limiti di applicabilità continua il dibattito tra gli esperti.Il secondo limite di questo tipo di dati è che per la loro stessa natura non consentono di studiare quelli che si potrebbero chiamare gli aspetti soggettivi dei comportamenti elettorali. Ad esempio, i dati relativi ai voti di preferenza, al loro aumento o diminuzione nel tempo o alla loro diversa diffusione territoriale non ci possono dire nulla sull'incidenza delle diverse possibili motivazioni che stanno alla base del fenomeno, quali il clientelismo, le direttive di partito, la valutazione dei meriti dei candidati e via dicendo. Lo stesso si può dire di molti altri quesiti che ci si può porre intorno ad altri aspetti del comportamento elettorale, quali le cause dell'astensionismo, le motivazioni sottostanti la scelta di un partito o un cambiamento di preferenza, e via dicendo.
Per cercare di rispondere a questi quesiti e integrare le informazioni contenute nei dati aggregati, si è sviluppato, soprattutto a partire dalla seconda guerra mondiale, un filone di ricerca che utilizza i risultati di indagini demoscopiche condotte su campioni di elettori. Questo approccio, inizialmente favorito soprattutto dalla scuola nordamericana, è stato gradualmente adottato anche in molti altri paesi e costituisce oggi uno degli strumenti principali nelle ricerche sul comportamento elettorale. Le inchieste demoscopiche, curate direttamente da istituti di ricerca o affidate per la parte relativa alla rilevazione dei dati a imprese specializzate in sondaggi, vengono effettuate ponendo agli intervistati una serie di domande con categorie di risposta di solito prefissate. Naturalmente le tematiche specifiche variano da studio a studio e da paese a paese anche in funzione delle diverse circostanze politiche. Si possono tuttavia identificare quattro aspetti sui quali si concentra generalmente l'attenzione dei ricercatori: 1) le caratteristiche socio-economico-demografiche della persona intervistata; 2) le conoscenze del sistema politico, dei principali attori politici, dei problemi e delle soluzioni proposte; 3) gli orientamenti politici generali, gli atteggiamenti specifici, le valutazioni e preferenze nel campo della politica; 4) i comportamenti politici in senso lato e quelli specificamente connessi con le elezioni. In fase di analisi questi aspetti del fenomeno vengono poi messi in relazione tra loro, rapportando, ad esempio, la preferenza per un dato gruppo politico a questa o quella caratteristica di atteggiamento degli intervistati.
Questo approccio presenta evidenti vantaggi rispetto agli studi che utilizzano dati aggregati relativi a unità territoriali. Il ricorso a dati tratti da inchieste demoscopiche comporta tuttavia altri problemi. Sono quelli relativi alle modalità di costruzione dei campioni, alla qualità degli intervistatori, alla natura in una certa misura artificiale delle risposte ottenute tramite un'intervista, e altri ancora. Ma il limite principale dei dati tratti da inchieste demoscopiche è che, in ultima analisi, la bontà dei risultati dipende dalla disponibilità delle persone a farsi intervistare, dalla loro sincerità nel rivelare i rispettivi punti di vista su temi politici e anche dalla loro capacità di ricordare i propri comportamenti nel passato (ad esempio il voto espresso qualche anno prima della rilevazione). Molte ricerche indicano che queste condizioni non ricorrono sempre: spesso la riluttanza degli elettori a dichiarare la loro preferenza per un partito porta a sovra- o sottorappresentare nei campioni studiati la forza dei diversi gruppi politici. Nelle culture politiche caratterizzate da reticenza possono legittimamente sorgere molti dubbi sull'affidabilità dei dati tratti da inchieste demoscopiche e sulle inferenze tratte dalla loro analisi. In considerazione di questi limiti e di quelli sottolineati sopra a proposito dell'analisi dei dati aggregati, è evidente che non esiste un metodo decisamente superiore e pertanto là dove possibile la strada migliore è quella di un'utilizzazione congiunta dei due approcci.
3. La partecipazione elettorale
La partecipazione della popolazione alla scelta dei leaders politici su basi competitive è una caratteristica comune a tutte le moderne democrazie. Il suffragio, che nel XIX secolo era limitato a segmenti molto ristretti, venne gradualmente esteso fino a comprendere in una prima fase tutta la popolazione maschile adulta e, successivamente, anche le donne. Questo processo di espansione si è concluso negli anni settanta con l'abbassamento a 18 anni dell'età minima richiesta per partecipare alle consultazioni elettorali. L'esistenza del suffragio universale sul piano giuridico non significa, naturalmente, che tutti i cittadini si avvalgano con regolarità del loro diritto.
In realtà i tassi di partecipazione sono sempre inferiori al loro massimo teorico e variano notevolmente sia da paese a paese (v. tab. I), sia all'interno di uno stesso paese nello spazio (v. tab. II) o nel tempo (v. tab. III). La descrizione di queste variazioni e la loro interpretazione costituiscono un capitolo importante degli studi sul comportamento elettorale.
Il calcolo dei tassi di partecipazione su basi comparate presenta qualche difficoltà data la diversità dei sistemi elettorali. Nei paesi nei quali l'iscrizione nelle liste elettorali è lasciata all'iniziativa dei cittadini si distingue tra il numero degli aventi diritto in senso generico, praticamente tutta la popolazione adulta, e gli elettori effettivamente registrati. La percentuale di votanti può venire poi calcolata su queste due diverse basi con risultati spesso assai divergenti. Nei paesi nei quali l'iscrizione nelle liste elettorali avviene d'ufficio, come in Italia, i dati per il calcolo della partecipazione elettorale comprendono non solo i valori relativi al numero degli iscritti e dei votanti, ma anche quelli relativi ai certificati elettorali non consegnati.
Anche la diversità degli strumenti usati per l'effettivo esercizio del diritto di voto contribuisce a rendere più difficili i confronti tra sistemi politici diversi. Là dove il voto è espresso dall'elettore su supporto cartaceo viene tenuto il computo dei voti validi e di quelli non validi, distinti questi ultimi in schede bianche e schede nulle. Nei paesi nei quali il voto viene espresso con sistemi meccanici o elettronici non si può parlare di voto non valido e queste due ultime categorie non sono rilevanti. Infine, anche la possibilità o meno di dare un voto di preferenza introduce un elemento di differenziazione che può rendere meno agevole l'analisi comparata.
Nello studio della partecipazione elettorale si distingue tra astensionismo forzoso e astensionismo volontario. Il primo è dovuto a cause di forza maggiore quali cattive condizioni di salute, difficoltà motorie, età avanzata, assenza per ragioni di forza maggiore dal luogo di residenza, difficoltà obiettive a raggiungere il seggio e altre ancora. A questa categoria possono venire assimilati anche i casi d'impedimento a esprimere un voto valido pur in presenza della volontà di farlo: la scheda compilata erroneamente, l'arrivo al seggio in ritardo o senza i necessari documenti d'identificazione, la mancata iscrizione nelle liste elettorali, la mancata consegna del certificato elettorale, ecc. Tutte queste situazioni differiscono profondamente dall'astensionismo volontario. Qui il mancato esercizio del diritto di voto o l'espressione di un voto non valido sono il risultato di una decisione più o meno esplicita dell'elettore.
All'interno dell'astensionismo volontario - come nel caso delle schede bianche e nulle, là dove queste categorie sono rilevanti - si possono poi ulteriormente distinguere due diversi tipi di comportamento. Nel primo rientra il caso dell'elettore che attribuisce alla sua azione un esplicito significato: la scheda volutamente annullata, l'astensionismo concordato e preannunciato di un intero gruppo di cittadini in un quartiere, zona o comune. In un certo senso qui siamo in presenza di una forma di 'partecipazione', in quanto la mancata espressione del voto ha un significato politico (protesta, tentativo di attirare l'attenzione su particolari problemi, ecc.) anche se non incide sulla forza dei partiti e non influenza direttamente l'esito della consultazione. Il secondo tipo di astensionismo volontario comprende invece il caso dell'elettore che non si reca alle urne per indifferenza, perché non ritiene l'elezione importante, o per una condizione di marginalità strutturale rispetto alla vita politica.Per spiegare le variazioni dei tassi di partecipazione tra un paese e l'altro o, all'interno dello stesso paese, nel tempo, si è generalmente fatto ricorso a tre ordini di fattori (istituzionali, culturali, congiunturali) che facilitano o, inversamente, inibiscono l'affluenza dei cittadini alle urne.
Sono quelli relativi alle regole che presiedono allo svolgimento delle consultazioni elettorali. Tra queste, ad esempio, le procedure attinenti all'iscrizione del cittadino nelle liste elettorali; le normative che prevedono sanzioni amministrative o pecuniarie per chi diserta ingiustificatamente le urne; la prassi di fissare le scadenze elettorali in giornate festive o lavorative, o in periodi dell'anno climaticamente più favorevoli; la possibilità o meno di esprimere il voto nell'arco di due giorni; l'esistenza di facilitazioni di viaggio per chi si reca a votare; l'esistenza di seggi speciali costituiti all'interno di istituti di cura; e altre ancora. Tra i fattori istituzionali va annoverata anche la possibilità di esprimere un voto di preferenza, che estende la competizione ai candidati dello stesso partito e quindi costituisce un effetto ulteriore di mobilitazione elettorale. Le differenze tra paese e paese nel modo con cui vengono organizzate e condotte le elezioni spiegano certamente una parte della diversità nei tassi medi di partecipazione, ma il fenomeno non è del tutto riconducibile a variabili istituzionali.
Un secondo ordine di fattori è costituito dalle caratteristiche della cultura politica di un paese e, in particolare, del modello culturale prevalente in tema di partecipazione. In tutti i sistemi democratici il voto viene visto come un diritto-dovere e la partecipazione regolare alle consultazioni elettorali è una componente standard del modello di cittadino ideale, ma in alcuni vien dato risalto al diritto, in altri al dovere. Vi sono paesi, soprattutto quelli di tradizione anglosassone, nei quali il voto viene generalmente considerato un diritto del quale ciascun cittadino può avvalersi se lo ritiene opportuno. In questa concezione del voto l'astensione non è vista come un comportamento deviante e socialmente condannabile, ma piuttosto come l'esercizio di una facoltà di cui il cittadino può avvalersi. In altri contesti, tra cui quello italiano, la concezione dominante mette fortemente l'accento oltre che sul diritto del cittadino a esprimere il suffragio, sulla natura di dovere sociale dell'atto 'voto', un dovere al quale non è giusto sottrarsi. In questo secondo contesto la cultura politica prevalente sostiene e rafforza le motivazioni individuali a partecipare molto più di quanto non avvenga in altre società.
Vi sono, infine, fattori legati al tipo di consultazione, alla congiuntura politica e al clima di una particolare elezione o di un intero periodo storico. Da molte ricerche risulta che generalmente la partecipazione elettorale varia, in parte, in funzione del tipo di consultazione. Di solito, ma non sempre e dappertutto, le punte maggiormente elevate di astensionismo si registrano in occasione di elezioni di tipo amministrativo o per cariche politiche locali. Ma più che l'ampiezza dell'arena politica, il fattore decisivo sembra essere la percezione a livello di massa della maggiore o minore importanza di un'elezione. È il caso dei tassi di partecipazione alle elezioni del Parlamento europeo che, almeno sino alla fine degli anni ottanta, sono stati sistematicamente inferiori in molti paesi a quelli delle elezioni per i rispettivi parlamenti nazionali.
Tra i fattori congiunturali vanno annoverati, oltre all'importanza della posta in palio, anche l'incertezza dell'esito e il clima politico del momento. In situazioni caratterizzate da aspri conflitti politici, forte polarizzazione e scontri frontali tra blocchi contrapposti, il clima favorisce la partecipazione. In questi casi gli appelli dei partiti e delle forze sociali hanno una maggiore cogenza e il pericolo che vincano 'gli altri' viene a configurarsi come un fattore di mobilitazione. Effetti analoghi si hanno in situazioni caratterizzate da alta competitività, col risultato in bilico tra l'uno o l'altro candidato. All'inverso, la percezione diffusa dai mass media e dai sondaggi che l'esito sia scontato in partenza ha generalmente un effetto de-mobilitante.
4. La scelta elettorale
L'analisi dei fattori che influenzano le scelte dei cittadini alle urne costituisce il tema centrale degli studi sul comportamento elettorale. Dall'inizio del secolo, e soprattutto negli ultimi cinquant'anni, si sono moltiplicate le ricerche sull'argomento e si è accumulata una vastissima letteratura internazionale. In essa si ritrovano, accanto ai riferimenti a problematiche generali, anche i riflessi delle caratteristiche socioeconomiche e culturali, nonché delle esperienze politiche peculiari ai diversi contesti nazionali. Per questo i concetti, gli schemi di classificazione e i modelli interpretativi che si sono rivelati utili per interpretare il comportamento elettorale in un dato paese in un certo periodo storico non sono necessariamente fertili in situazioni storico-istituzionali diverse. Tuttavia, in generale, si può ritenere che i comportamenti elettorali possano venire adeguatamente interpretati alla luce di tre ordini di fattori: quelli istituzionali, quelli strutturali o remoti e quelli congiunturali o prossimi.
Gli elettori sono chiamati a scegliere in tutte le democrazie, ma lo fanno in presenza di 'regole del gioco' che caratterizzano in maniera a volte profondamente diversa il contesto delle loro scelte. Il quadro normativo impone vincoli e offre agli elettori opportunità che variano in maniera più o meno significativa da paese a paese. Si considerino, ad esempio, le implicazioni - dal punto di vista del comportamento elettorale - che derivano dall'adozione di un sistema elettorale maggioritario con collegi uninominali piuttosto che di un sistema proporzionale a scrutinio di lista. Nel primo caso l'elettore si troverà a scegliere tra un numero generalmente ristretto di alternative in un contesto caratterizzato dall'alta 'visibilità sociale' dei candidati, sapendo che solo uno dei concorrenti potrà vincere e con la consapevolezza che il ruolo politico dei partiti di governo e di opposizione è direttamente legato al verdetto elettorale. Nel secondo caso l'elettore avrà a disposizione un numero generalmente più ampio di opzioni, i candidati saranno molti e quindi relativamente poco visibili, i voti per i partiti minori non saranno necessariamente voti dispersi e inutili. Similmente, non è difficile vedere come i sistemi elettorali che prevedono il doppio turno o il voto di preferenza strutturino in maniera diversa da altre formule il contesto nel quale gli elettori sono chiamati a fare le proprie scelte.
Si tratta di variabili sociopolitiche che condizionano i comportamenti elettorali sul lungo periodo e definiscono quindi a grandi linee le tendenze di una certa fase della storia elettorale di un paese. Rientrano in questa categoria, in primo luogo, le 'fratture' sociali (cleavages) storicamente consolidate, che creano un allineamento tra determinati gruppi sociali da un lato e certe forze politiche dall'altro. Nell'esperienza delle democrazie occidentali le fratture maggiormente significative e durature sono state e, in parte ancora sono, quelle relative alle divisioni di classe, alla dimensione religiosa e alle differenziazioni di tipo etnico-linguistico, spesso a base territoriale. Col passare del tempo su queste fratture di tipo oggettivo si sono sviluppate subculture caratterizzate da costellazioni di valori e atteggiamenti internamente congruenti. Una delle conseguenze della presenza di subculture è il cosiddetto 'voto di appartenenza', un comportamento elettorale relativamente stabile nel tempo, tendenzialmente insensibile alla congiuntura politica e al tipo di elezione, che rappresenta sostanzialmente una proiezione nella sfera politica di un legame con un mondo in cui l'elettore si riconosce.
In parte diverse come natura, ma simili nei loro effetti, sono le 'identificazioni di partito', più frequenti negli Stati Uniti, e le 'identificazioni di area politica', molto comuni nel continente europeo. Le prime fanno riferimento all'esistenza di un legame privilegiato, di un sentimento di vicinanza psicologica tra un elettore e un dato partito che il cittadino considera come il 'suo' partito e verso il quale inevitabilmente si orienta la sua scelta. Le identificazioni di area costituiscono un ancoraggio meno specifico del precedente e hanno come punto di riferimento un segmento dell'arco politico generalmente definito in termini del continuum 'destra-sinistra'. Tale senso di appartenenza a questa o quell'area dello spettro politico ha la funzione di ridurre, a volte anche drasticamente, le alternative prese in considerazione, limitando le scelte ai gruppi politici di una determinata area. Un'analoga semplificazione della scelta di voto si produce per effetto dell'esistenza di preclusioni fortemente radicate nei confronti di alcuni partiti, che vengono percepiti da segmenti dell'elettorato come forze estranee al sistema o, addirittura, antisistema.
Le fratture sociali, le subculture, le identificazioni e le preclusioni costituiscono elementi di stabilità nei comportamenti elettorali e, quindi, nei rapporti di forza tra i partiti. La loro influenza dipende, in larga misura, dal fatto che i meccanismi di socializzazione trasmettono da una generazione all'altra un insieme di atteggiamenti relativamente congruenti, che cambiano, in genere, solo molto lentamente.
Sui comportamenti elettorali agiscono anche fattori di breve periodo che dispiegano la loro influenza nelle settimane o, al massimo, nei mesi che immediatamente precedono una consultazione. Presi nel loro insieme, i fattori congiunturali definiscono il clima particolare di una determinata elezione. Gli effetti di questi fattori sono più sensibili nei settori della popolazione che seguono maggiormente da vicino l'evolversi della situazione politica e che, al tempo stesso, non hanno forti e permanenti legami con una delle forze politiche in campo. È con riferimento a questo settore che si parla di 'voto di opinione', cioè di una scelta che è in larga misura una risposta alle proposte formulate dai diversi gruppi politici in competizione. Questo segmento dell'elettorato può essere, come spesso avviene, anche una fascia molto ristretta della cittadinanza, ma proprio perché si orienta di volta in volta alla luce delle diverse circostanze rappresenta un potenziale di mobilità che conferisce incertezza all'esito.
Per la loro stessa natura i fattori congiunturali variano nel tempo e nello spazio e vanno quindi accertati caso per caso. È possibile, tuttavia, identificare alcune categorie generali alle quali sono riconducibili molti di questi fattori. Innanzitutto, in quasi tutte le elezioni vi sono alcuni temi (issues nella terminologia anglosassone) che acquistano una risonanza particolare e sui quali s'incentra il dibattito durante la campagna elettorale. Si tratta a volte di problemi di politica interna (economia, ordine pubblico, sanità e via dicendo), a volte di questioni relative alla politica estera (alleanze, trattati, aiuti militari a questo o quel paese, ecc.), a volte ancora di scandali che coinvolgono questo o quel settore della classe politica, o di crisi istituzionali. Nei sistemi politici caratterizzati da frammentazione del sistema partitico il dibattito verte spesso anche sulla formula di coalizione che sorregge il governo in carica e sui rapporti tra le forze politiche all'indomani dell'elezione.
Un secondo tipo di fattore congiunturale è quello relativo ai candidati e ai leaders di partito. L'influenza di questo elemento è naturalmente maggiore nei sistemi politici con collegi uninominali, dove l'attenzione degli elettori è focalizzata sulle personalità politiche in lizza. In questi contesti le caratteristiche personali dei candidati (preparazione, competenza, esperienze politiche precedenti) finiscono per giocare un ruolo assai significativo, talvolta fino a far passare in secondo piano i programmi e le etichette di partito. L'influenza dei candidati è rilevante anche con riferimento ai fenomeni di sottogoverno, cioè a quel tipo di scelta elettorale che va sotto il nome di 'voto di scambio', fattispecie nella quale il suffragio viene espresso in funzione di un'aspettativa di futuri favori o come ricompensa di favori già fatti. In questo caso più che 'l'immagine' del candidato conta il suo accesso a risorse politiche, legato al fatto che egli occupi un ruolo di governo o, almeno, che abbia una ragionevole probabilità di occuparlo o di influire, comunque, su decisioni che toccano gli interessi di alcuni elettori.
A definire i temi del dibattito e a diffondere le immagini dei candidati contribuisce un terzo elemento che si può considerare come un vero e proprio fattore congiunturale ed è costituito dall'atteggiamento dei mezzi di comunicazione di massa nei confronti delle forze politiche in campo. Negli ultimi decenni la struttura dei canali di comunicazione politica ha subito una profonda trasformazione in tutti i regimi democratici, affiancando ai canali tradizionali (gruppi primari e secondari) nuovi percorsi attraverso i quali vengono diffuse in maniera capillare informazioni politiche. Sul ruolo e sul peso dei mezzi di comunicazione di massa i pareri degli studiosi sono discordanti, ma non vi è dubbio sul fatto che notizie e commenti contribuiscano a definire il clima di un'elezione circoscrivendo o enfatizzando alcuni temi del dibattito, presentando informazioni più o meno ampie e accurate sui programmi dei partiti e caratterizzando in maniera tendenzialmente positiva o negativa i profili dei candidati. In molti paesi, inoltre, le nuove strutture di comunicazione politica funzionano da cassa di risonanza per i sondaggi sugli orientamenti dell'elettorato rilevati nelle varie fasi della campagna e diffusi, a volte, proprio con l'intenzione d'influire sull'opinione pubblica. Il fatto che l'influenza dei sondaggi possa in alcuni casi favorire chi sta già vincendo (il cosiddetto bandwagon effect) mentre in altre circostanze ha l'effetto opposto (underdog effect) non sminuisce affatto la rilevanza dei messaggi diffusi dai mezzi di comunicazione di massa.
Da ultimo va ricordata in questa categoria di fattori la situazione internazionale, e in particolare la presenza, o meno, di forti tensioni tra blocchi contrapposti e separati da profonde fratture ideologiche, col pericolo incombente di conflitti bellici. Nei sistemi politici nei quali le divisioni interne sono allineate alle fratture internazionali, le tensioni in quest'ultima sfera hanno importanti riflessi sul clima politico interno, contribuendo a riscaldare il clima di un'elezione e a rafforzare la polarizzazione tra le forze politiche in campo.
5. Comportamenti elettorali e dinamica del sistema
Nell'interpretare i risultati di una data consultazione viene spesso dato ampio rilievo ai segmenti dell'elettorato che si sono spostati da un partito a un altro. Questo fenomeno viene di solito indicato col termine di 'mobilità interna' ed è certamente la componente principale del risultato elettorale complessivo. Consistenti flussi di voti da un gruppo politico all'altro, quando non siano compensati da flussi in direzione opposta, provocano un cambiamento dei rapporti di forza tra partiti, cambiamento la cui entità dipende in parte dal sistema elettorale adottato. In particolare, nei sistemi a collegio uninominale anche una piccola oscillazione nelle preferenze può risultare decisiva agli effetti dell'elezione di questo piuttosto che di quel candidato. La mobilità interna - o il suo opposto, la 'fedeltà elettorale' - non è tuttavia l'unica componente significativa del mutamento elettorale. Accanto a essa troviamo anche due altri fattori che possono influenzare in maniera più o meno marcata l'esito di una consultazione.
Un fattore non trascurabile è il fenomeno del ricambio del corpo elettorale tra un'elezione e l'altra. Per effetto di mutamenti demografici legati principalmente al ciclo di vita, la composizione del corpo elettorale è soggetta a un continuo, graduale mutamento. All'iscrizione nelle liste elettorali delle nuove generazioni che via via maturano il diritto di voto si accompagna la cancellazione degli elettori deceduti. L'entità del ricambio dipende dai trends demografici: il boom delle nascite si ripercuote a una ventina d'anni di distanza sulla composizione del corpo elettorale e il saldo tra nuove iscrizioni nelle liste elettorali e cancellazioni è influenzato dai tassi di mortalità. Se l'attenzione si sposta dal piano nazionale a quello delle diverse zone di un paese, occorre prendere in considerazione anche la mobilità geografica dei suoi abitanti. I trasferimenti di residenza sono particolarmente significativi nelle nazioni nelle quali non esistono procedure automatiche d'iscrizione alle liste elettorali o nelle quali viene prescritto un periodo minimo di residenza per avere diritto al voto. Agli effetti del mutamento elettorale l'influenza di questo fattore è legata da una parte all'entità del ricambio e, dall'altra, alle differenze di orientamento politico tra le generazioni 'in entrata' e quelle 'in uscita'. Se le generazioni di nuovi elettori sono massicciamente favorevoli al partito A, mentre i 'cancellati' avevano concentrato i loro suffragi sul partito B, l'incidenza della modificazione del corpo elettorale sarà, ovviamente, sensibile.
Un ultimo tipo di comportamento di cui occorre tener conto nell'interpretazione dei risultati elettorali è il fenomeno delle fluttuazioni nei tassi di partecipazione (nonché delle schede bianche e di quelle nulle). È noto che non tutti gli aventi diritto prendono parte con regolarità alle consultazioni elettorali: una parte del corpo elettorale è strutturalmente assente, un'altra parte partecipa irregolarmente. La presenza occasionale di fasce di elettori 'mobilitati' dalle circostanze politiche o da altri fattori può determinare variazioni anche significative nei risultati. Lo stesso può avvenire quando si dia il fenomeno inverso, quando, cioè, aumentino in maniera significativa i tassi di astensionismo o i voti non validi. Naturalmente, affinché ciò si verifichi, occorre che l'aumento o la caduta della partecipazione elettorale sia di tipo selettivo, che rechi cioè beneficio o danno ad alcuni gruppi politici particolari. Quando invece l'astensionismo o l'aumento dei voti non validi colpiscono in maniera abbastanza uniforme tutti i partiti o i candidati, gli effetti di questi comportamenti sui rapporti di forza tra gruppi politici saranno chiaramente modesti o insignificanti.
(V. anche Scambio politico).
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