Elia Minari
Videocamera antimafia
Un ragazzo, la sua associazione e la sua web-tv denunciano la presenza di infiltrazioni mafiose e criminalità organizzata a Reggio Emilia, rompendo con coraggiose inchieste il velo di omertà.
L’attributo che ricorre nei documenti che accompagnano le apparizioni pubbliche di Elia Minari, studente di giurisprudenza all’Università di Bologna, è scomodo. Premio Scomodo è quello che vince e riceve dalle mani del presidente del Senato, Pietro Grasso, in occasione del 20° vertice nazionale antimafia tenutosi a Firenze il 22 novembre 2014. E l’aggettivo si ritrova anche nella motivazione del premio assegnato nel 2013 dall’Università di Bologna all’Associazione Cortocircuito (www.cortocircuito.re.it), di cui Minari è fondatore e coordinatore, in quanto migliore web-tv «per il coraggio nel documentare fatti scomodi, legati alla criminalità organizzata in Emilia, attraverso videoinchieste e reportage».
Cosa ha portato questo giovane, nato a Montecchio Emilia, in provincia di Reggio Emilia, 23 anni fa, a sfatare la retorica dei bamboccioni e della generazione sedata dagli schermi mediatici, scegliendo la via dell’impegno documentaristico su temi ardui come la criminalità organizzata? Dalle sue dichiarazioni si evince che lo sguardo critico e investigativo si è maturato nello scollamento fra una realtà vissuta e narrata come funzionale, progressista, ispirata a principi di buona convivenza civile, quale chiunque nato e cresciuto nella ricca e operosa Reggio Emilia ha respirato, e l’affiorare di una realtà sottostante, assai meno narrata quando non addirittura denegata dai mezzi di informazione. Questa realtà rilevante e sommersa è l’oggetto dell’attenzione intorno alla quale fin dai tempi del liceo Elia Minari ha radunato un gruppo di amici, fondando nel 2009 un giornalino studentesco che poi si è evoluto in una web-tv, sfruttando le possibilità informative capillari della rete. Ciò che scopre Elia Minari, insieme ai suoi collaboratori, fin dalle prime inchieste sulla discoteca prescelta dal suo liceo per le feste di inizio e chiusura d’anno, è che si tratta di un luogo di smercio di denaro sporco gestito da affiliati a una cosca della ‘ndrangheta.
Segue un’inchiesta sul numero spropositato di incendi dolosi – più di 40 – avvenuti a Reggio Emilia nel 2012, e anche lì emerge una trama di vendette fra personaggi legati all’edilizia e all’imprenditoria indagati per associazione mafiosa. Mentre l’opinione pubblica si trincera dietro il silenzio o la negazione che ‘anche’ a Reggio Emilia ci sia criminalità organizzata, la stampa locale minimizza e quella nazionale glissa del tutto, le inchieste di Cortocircuito fanno emergere una rete pervasiva di contatti e intrecci che coinvolgono imprenditori, amministrazioni ed enti deputati ai lavori pubblici. Il materiale di questo scavo, sempre rigorosamente basato sull’acquisizione di documenti e sulla collaborazione con le forze dell’ordine e della giustizia, confluisce nella video-inchiesta La’ndrangheta di casa nostra. Radici in terra emiliana, che contiene anche una serie di interviste nelle quali molti interpellati – sindaci, amministratori, appaltatori, dirigenti –, sottovalutando i ‘ragazzini’ che li stavano interrogando, rilasciano affermazioni così candidamente oscene da venire utilizzate in tribunale dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna nel corso del procedimento a carico di un condannato della cosca Grande Aracri, attiva in Calabria e nel Nord. La video inchiesta fa capire come l’infiltrazione criminale risalga, lungo la via dell’edilizia, fino agli anni Settanta del secolo scorso e come anche celebrate opere pubbliche, quali la stazione dell’alta velocità Mediopadana, non siano esenti da una sospetta lievitazione di costi, ingiustificata dal progetto e dalle delibere comunali. Impegnato anche nell’informazione in scuole superiori e università, Minari ha fatto propria la lezione del giornalista ucciso da Cosa nostra, Pippo Fava: «Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente in allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo». È importante che a farsi carico di questa vocazione e di questo mandato civile sia un ragazzo di 23 anni. È un passaggio di testimone più seminale di tanti slogan riformistici, in un paese in cui da sempre si cambia tutto per lasciare tutto com’è.