Taylor, Elizabeth (propr. Elisabeth Rosemond)
Attrice cinematografica statunitense, con cittadinanza britannica, nata a Londra il 27 febbraio 1932. Definita 'l'ultima star', ha rappresentato uno dei grandi miti di Hollywood. Nel corso di una carriera lunghissima la sua immagine mondana ha finito con il prevalere sulle capacità di interprete, spesso sottoutilizzate ma notevoli, come dimostrano i film del suo periodo professionalmente più felice, compreso tra il 1958 e il 1967, che le fruttarono infatti tre nominations all'Oscar e due premi, rispettivamente nel 1961 per Butterfield 8 (1960; Venere in visone) di Daniel Mann e nel 1967 per Who's afraid of Virginia Woolf? (1966; Chi ha paura di Virginia Woolf?) diretto da Mike Nichols. La bellezza fuori del comune e la vita privata turbinosa, costante oggetto dell'interesse dei mass media (dagli otto mariti ai problemi di salute) hanno nascosto, agli occhi del pubblico, l'attrice dietro la star. Rimane in ogni caso una delle pochissime 'dive-bambine' ad aver realizzato senza scosse il passaggio ai ruoli adulti; la stessa eterogeneità dei suoi personaggi dimostra inoltre una gamma interpretativa notevolmente più ampia di quella riconosciutale dalla critica, e negli anni Ottanta e Novanta il suo lavoro in teatro e alcune prestazioni di abile e spiritosa caratterista nel cinema hanno ben messo in luce la sua natura di attrice autentica e sensibile.
Cresciuta in Inghilterra, si trasferì a Los Angeles con i genitori (entrambi statunitensi) allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Nel 1943 era già sotto contratto con la Metro Goldwin Mayer, che la utilizzò subito come protagonista di un film del genere sentimentale, Lassie, come home (Torna a casa, Lassie!) di Fred M. Wilcox; la fama così ottenuta le procurò un contratto a lungo termine (sarebbe durato, attraverso vari rinnovi, diciotto anni) e la partecipazione, in ruoli di bambina angelica ma volitiva, a una serie di film di successo, tra cui White cliffs of Dover (1944; Le bianche scogliere di Dover) di Clarence Brown, Jane Eyre (1944; La porta proibita) di Robert Stevenson, e soprattutto National velvet (1944; Gran premio), anch'esso di Brown, che ne consacrò definitivamente la popolarità. Da adolescente fu costretta a recitare parti di ingenua un po' svampita, non certo adatte al suo temperamento, in opere brillanti o sentimentali come Life with father (1947; Vita col padre) di Michael Curtiz, Little women (1949; Piccole donne) di Mervyn LeRoy, Father of the bride (1950; Il padre della sposa) di Vincente Minnelli. Il suo passaggio all'età adulta rappresentò un problema per la MGM, che non sapeva bene come utilizzare una giovane dallo stile così lontano dai modelli americani, raffinata e delicata eppure pervasa da una sotterranea e via via più evidente sensualità; tentò allora di imprigionarla in personaggi di ricche fanciulle infelici, tormentate dal destino avverso o dalla propria eccessiva bellezza, come in A place in the Sun (1951; Un posto al sole) di George Stevens, Ivanhoe (1952) di Richard Thorpe, Elephant walk (1954; La pista degli elefanti) di William Dieterle, The last time I saw Paris (1954; L'ultima volta che vidi Parigi) di Richard Brooks, Giant (1956; Il gigante) di Stevens: drammi a forti tinte che costituirono per l'attrice occasioni per consolidare il suo successo presso il pubblico, segnando un indubbio progresso nella sua carriera. L'autentica svolta avvenne però nel 1958. All'inizio dell'anno, a testimonianza della raggiunta maturità delle sue capacità espressive, aveva ottenuto la prima nomination all'Oscar per Raintree county (1957; L'albero della vita) di Edward Dmytryk. Cosciente a questo punto di essere qualcosa di più di una delle 'ragazze della MGM', fece leva sul favore tributatole dagli spettatori per ottenere una parte finalmente diversa da quelle in cui la volevano costringere i produttori: a ventisei anni riuscì così a impersonare per la prima volta una donna davvero adulta, l'energica e combattiva Maggie del melodrammatico Cat on a hot tin roof (1958; La gatta sul tetto che scotta) di Brooks, che le procurò un'altra nomination e delineò la sua nuova figura cinematografica: quella della donna caparbia e sfrontata, interpretata con uno stile aspro e talvolta sarcastico, e con disinvoltura e temperamento sempre maggiori. Con questa raggiunta consapevolezza dei propri mezzi affrontò altre due opere cariche di pathos: Suddenly, last summer (1959; Improvvisamente l'estate scorsa) di Joseph L. Mankiewicz, per cui ottenne la terza nomination, e Butterfield 8, in cui impersonò una prostituta d'alto bordo, un ruolo decisamente lontano da quelli che erano stati i suoi fino a tre anni prima.
Attrice ormai celeberrima, la più pagata del mondo, ruppe il contratto con la MGM e nel 1961 si lanciò nell'avventura, durata due anni, della Cleopatra (1963) di Mankiewicz, un kolossal girato a Cinecittà. Questo film, il più costoso mai prodotto fino ad allora, avrebbe dovuto segnare il trionfo della 20th Century-Fox, e ne costituì invece la rovina; per l'attrice rappresentò essenzialmente l'incontro con Richard Burton, con cui formò per un quindicennio la più celebre coppia del cinema, sia nella vita sia sullo schermo (lavorarono insieme in ben dieci film). Il fallimento economico della Fox si ripercosse anche sulla carriera dei due, che dovettero attendere il 1966 per trovare parti alla loro altezza, nel cupo e claustrofobico Who's afraid of Virginia Woolf?, storia di due coniugi pieni di reciproco rancore, che si insultano lungo l'arco di una nottata, in un intreccio tra finzione e realtà che sembrò portare sullo schermo gli autentici rapporti personali tra i due attori. La T. offrì una grande prova in questo che resta il suo miglior ruolo drammatico, e abbandonò coraggiosamente l'immagine seducente che aveva fatto la sua fortuna, imbruttendosi e ingrassando per impersonare con maggiore realismo una donna disfatta e inacidita. Altro esempio di sapiente confusione tra la narrazione cinematografica e la vita privata dei due attori (ma questa volta sul versante giocoso anziché su quello amaro) fu La bisbetica domata (1967) di Franco Zeffirelli, la cui bizzosa e petulante Caterina fu certamente per l'attrice la migliore prestazione di genere brillante della sua carriera. In quello stesso anno, la T. offrì un'altra grande prova in Reflections on a golden eye (1967; Riflessi in un occhio d'oro) diretto da John Huston, al fianco di Marlon Brando, dove delineò con convincente durezza una figura dall'umorismo salace e dalla caustica drammaticità.
Conclusosi questo periodo felice, gli alti e bassi del suo rapporto con Richard Burton la portarono a scelte quasi sempre poco indovinate anche sullo schermo, dove, con la parziale eccezione di due opere, comunque minori, di Joseph Losey, Boom (La scogliera dei desideri) e Secret ceremony (Cerimonia segreta), entrambe del 1968, i suoi film non si sono più avvicinati, né sul piano qualitativo né su quello del successo di pubblico, ai livelli del periodo precedente. Dopo il divorzio dall'attore gallese, all'inizio degli anni Ottanta si è dedicata per un certo tempo, con risultati apprezzabili, alla carriera teatrale; le sue apparizioni cinematografiche, ormai rare, si sono spostate progressivamente verso ruoli di caratterista sempre più eccentrici, spesso autoironici, in cui, con molto spirito e vivacità, fa la parodia di sé stessa e della propria passata immagine di dea del sesso, come in The mirror crack'd (1980; Assassinio allo specchio) di Guy Hamilton, oppure in The Flintstones (1994; I Flintstones) diretto da Brian Levant.
Convertitasi all'ebraismo nel 1959, dopo la morte del terzo marito, il produttore di religione ebraica Mike Todd, ha finanziato scuole e ospedali in Israele. Dalla metà degli anni Ottanta si è impegnata attivamente in campagne per la lotta contro l'AIDS, e nel 1991 ha creato la Elizabeth Taylor AIDS Foundation.
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