Abstract
L’art. 10 bis l. 27.7.2000, n. 212, detta la disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale e prevede che le operazioni elusive non diano luogo a fatti punibili. La possibile rilevanza penale di operazioni elusive è analizzata, alla luce di tale disposizione, in riferimento alle principali fattispecie di reato di cui al d.lgs. 10.3.2000, n. 74.
L’elusione fiscale è, ora, normativamente parificata all’abuso del diritto (infra § 2) (v. Elusione fiscale e abuso del diritto): i due concetti saranno, dunque, trattati come equivalenti. Si tratta, peraltro, di concetti frutto di una lunghissima elaborazione dogmatica e giurisprudenziale; inoltre, per ciò che riguarda l’abuso del diritto, l’istituto si colloca nelle origini del diritto civile (si v., nella sconfinata letteratura sul tema, Rescigno, P., L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965) ed ha avuto applicazioni e declinazioni diverse nei vari settori in cui ha trovato collocazione (cfr. Velluzzi, V., a cura di, L’abuso del diritto. Teoria, storia e ambiti disciplinari, Pisa, 2012; Pino, G., L’abuso del diritto fra teoria e dogmatica (precauzioni per l’uso), in Maniaci, G., Eguaglianza, ragionevolezza e logica giuridica, Milano, 2006, 115). Limitando l’analisi all’ambito tributario, l’elusione fiscale è caratterizzata dal «conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici» (così, ad es., Cass., sez. trib., 21.1.2011, n. 1372). Tale vantaggio fiscale è considerato indebito dall’ordinamento, che reagisce approntando una disciplina di contrasto all’elusione fiscale o abuso del diritto sul presupposto che i negozi dei privati e i loro effetti debbano essere riconosciuti in tanto in quanto essi non siano piegati ad essere mero strumento per il perseguimento di finalità estranee a quelle per cui i negozi stessi sono tutelati dall’ordinamento e non riflettano, perciò, un aggiramento di divieti ed obblighi: in particolare, quelli relativi all’imposizione fiscale, discendenti dal principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione. Pertanto, mentre l’evasione fiscale (v. Evasione [dir. trib]) consiste nel nascondere al fisco fatti, attività ed operazioni venuti ad esistenza e, di conseguenza, è il nascondimento della ricchezza che dovrebbe essere sottoposta all’imposizione fiscale, nell’elusione «si impedisce il sorgere della pretesa tributaria, evitando la fattispecie legale» (secondo la definizione di Hensel, A., Diritto tributario, Milano, 1956, 146), con l’aggiramento della disciplina fiscale più gravosa e la scelta di un diverso percorso negoziale apparentemente legittimo ma strumentalizzato, attraverso lo sfruttamento delle pieghe della legge, al solo fine di ottenere un vantaggio fiscale, che il legislatore non avrebbe concesso se i comportamenti adottati fossero stati espressamente regolati (Gallo, F., Elusione fiscale (dir. trib.), in Enc. dir., Annali, Milano, X, 2017, 1 ss.; Tesauro, F., Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2015, 242).
Conviene prendere le mosse dal dato normativo che fornisce oggi il parametro di riferimento e che ha stabilito l’equivalenza normativa delle nozioni di elusione fiscale e abuso del diritto. L’art. 10 bis, l. n. 212/2000 (cd. ‘Statuto dei diritti del contribuente’), introdotto dal d.lgs. 5.8.2015, n. 128 (cd. ‘Decreto certezza del diritto’), nell’ambito dell’attuazione della l. 11.3.2014, n. 23 (cd. ‘Delega fiscale’), è rubricato «Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale» e, di questi istituti, detta la definizione attraverso l’individuazione di più requisiti sulla base dei quali le operazioni, riconosciute come abusive, sono ritenute «inopponibili» all’amministrazione finanziaria. L’art. 10 bis, l. n. 212/2000 si inserisce nell’ambito di una complessa rete di disposizioni emanate in sede europea volte a attuare a livello comunitario e a livello interno misure contro le pratiche abusive: in particolare, la direttiva UE 12.7.2016, n. 2016/1164, recante norme contro le pratiche di elusione fiscale che incidono direttamente sul funzionamento del mercato interno, che prevede che gli Stati membri adottino clausole generali antiabuso.
L’aspetto di principale innovazione consiste nell’avere fornito una definizione unitaria dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto, superando la distinzione precedente per la quale, accanto ad una norma antielusiva dettata in riferimento ad un elenco tassativo di operazioni (art. 37 bis, d.P.R. 29.9.1973, n. 600, ora abrogato), peraltro riprodotta nei suoi tratti essenziali nell’art. 10 bis l. n. 212/2000, conviveva un generale divieto di abuso del diritto di creazione giurisprudenziale. La disposizione attuale, anche in ragione del suo inserimento nell’ambito dello Statuto dei diritti del contribuente, si pone come clausola con valenza generale, secondo le intenzioni legislative, rispetto alla disciplina dei singoli tributi (Relazione illustrativa al d.lgs. n. 128/2015; tra i primi commenti, Miele, L., a cura di, Il nuovo abuso del diritto. Analisi normativa e casi pratici, Torino, 2016; Gallo, F., La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, 1315).
Ai sensi della norma in commento «configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti». Come anticipato, la ragion d’essere di tale disposizione è quella di fornire all’ordinamento uno strumento di contrasto all’abuso del diritto: sul piano tributario, gli effetti – indebiti e fiscalmente vantaggiosi – di un’operazione abusiva, che risponda ai requisiti dell’art. 10 bis, l. n. 212/2000, sono disconosciuti e, di conseguenza, l’amministrazione finanziaria ridetermina il tributo dovuto «sulla base delle norme e dei principi elusi».
Se tali sono gli effetti sul versante tributario, la disposizione si fa carico anche, e per la prima volta nel nostro ordinamento, di disciplinare gli effetti del riconoscimento del carattere abusivo di un’operazione sul versante penale: in forza del comma 13, dell’art. 10 bis, l. n. 212/2000 «le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l'applicazione delle sanzioni amministrative tributarie».
Sempre in attuazione della cd. ‘Delega fiscale’, è stato successivamente emanato il d.lgs. 24.9.2015, n. 158, di «Revisione» del sistema sanzionatorio penale e amministrativo. Tra le norme incriminatrici modificate in modo maggiormente significativo si collocano proprio quelle più rilevanti per il tema in esame, per le quali la riforma ha perseguito l’obiettivo di limitare o escludere la possibile rilevanza di condotte elusive-abusive. Come si vedrà meglio in seguito, restano, tuttavia, aperte alcune questioni interpretative per le quali si dubita che un tale risultato sia stato ottenuto, o fosse ottenibile (infra § 5).
Prescindendo, per il momento, dalla portata delle singole norme incriminatrici, è opportuno prendere in esame l’altra disposizione che, nell’ambito del sistema penale-tributario, si fa carico di disciplinare in modo diretto i rapporti tra illecito penale ed elusione fiscale. Nell’ambito del d.lgs. 10.3.2000, n. 74, che contiene la disciplina dei reati tributari in materia di imposte dirette e IVA, l’art. 1, dedicato alle definizioni, è stato modificato dal d.lgs. n. 158/2015 con l’inserimento della lettera g-bis) la quale dispone che «per “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” si intendono le operazioni apparenti, diverse da quelle disciplinate dall’art. 10-bis della l. 212/2000, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti». Tale definizione, che si riferisce alla condotta del compimento di operazioni simulate, rilevante ai fini del reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 d.lgs. n. 74/2000), a sua volta incisivamente riformulato dalla riforma del 2015, richiama “in negativo”, ancora una volta, l’elusione fiscale-abuso del diritto. La norma in questione, infatti, sembrerebbe indicare che, tra le operazioni simulate, possano essere penalmente rilevanti solo quelle diverse dalle operazioni che rientrano nell’ambito della disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale fornita dall’art. 10 bis l. n. 212/2000.
Dal quadro che emerge dalle disposizioni richiamate, pertanto, sembrerebbe preclusa l’attribuzione di rilevanza penale ad operazioni elusive. Rispetto al passato (infra § 3), la riforma del 2015 avrebbe dunque sancito una depenalizzazione, con efficacia retroattiva ex art. 2 c.p., delle condotte di abuso del diritto: in questo senso si è espressa la Cassazione (Cass. pen., 1.10.2015, n. 40272; conf. Cass. pen., 20.4.2016, n. 48293). Tale conclusione sarebbe, del resto, coerente con il compito del legislatore delegato alla riforma del sistema sanzionatorio fiscale che, in base all’art. 8 della legge delega, l. n. 23/2014, avrebbe dovuto provvedere all’«individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie».
Tuttavia, anche alla luce del quadro normativo attuale, l’individuazione di un confine tra elusione – penalmente irrilevante – ed evasione fiscale – che configura una fattispecie di reato – si presenta come un’operazione relativamente semplice dal punto di vista logico, ma resta incerta nella prassi, poiché condotte pur qualificabili (anche) come abuso del diritto, possono integrare pur sempre una fattispecie penale e, rispetto a tali ipotesi, resterebbe estraneo il limite di cui al co. 13 dell’art. 10 bis, l. n. 212/2000 (Cass. pen., 1.10.2015, n. 40272; conf. Cass. pen., 5.4.2016, n. 35575; cfr. Santoriello, C., Abuso del diritto e conseguenze penali, Torino, 2017, 373 ss.; in senso critico, invece, Lanzi, A.-Aldrovandi, P., Diritto penale tributario, Milano, 2017, 273).
Per definire se, ed in quali termini, sussistano tuttora margini perché condotte qualificabili come elusive in sede tributaria siano ritenute penalmente rilevanti, occorre sintetizzare gli approdi della giurisprudenza precedente alle modifiche legislative del 2015 sul tema della possibile rilevanza penale delle condotte elusive-abusive.
L’interesse per la questione è emerso, in particolare, a seguito del riconoscimento, dopo lungo e articolato percorso, da parte della giurisprudenza tributaria (Cass., sez. trib., 23.12.2008, nn. 30055, 30056, 30057) di un generale principio di divieto di abuso del diritto, affermato recependo ed adattando al diritto interno gli orientamenti della Corte di giustizia UE (in particolare a cominciare da C. giust., 21.2.2006, C-255/02, Halifax). Il principio era applicato come derivazione dell’art. 53 Cost., e a prescindere dalla coesistenza della norma antielusiva speciale di cui all’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973 che disciplinava il procedimento per la contestazione del carattere elusivo di talune operazioni. Secondo le Sezioni Unite, «non può non ritenersi insito nell’ordinamento, quale diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale». Il principio del divieto di abuso del diritto, come elaborato in sede tributaria, di diretta derivazione costituzionale, poneva un problema di ‘forzatura’ della riserva di legge ex art. 23 Cost., poiché comportava l’attribuzione di un’efficacia diretta ad una norma, l’art. 53 Cost., priva di efficacia precettiva autonoma, che necessita che il legislatore ordinario selezioni gli indici della capacità contributiva. Inoltre, la Corte ha superato, senza tuttavia affrontarla direttamente, la questione fondamentale ossia se sia sufficiente, per la sanzione di illiceità tributaria e dunque per l’inopponibilità al fisco, che una operazione aggiri le norme fiscali e la distribuzione del carico fiscale da esse determinato, ovvero se sia comunque necessario dimostrare anche l’artificiosità e la fraudolenza dell’attività negoziale (su tali temi, Gallo, F., Elusione fiscale, cit., 7).
A fronte dell’ampio ricorso in sede tributaria alle categorie dell’abuso e dell’elusione, specialmente utilizzate per contrastare operazioni talvolta estremamente complesse ma formalmente trasparenti, in grado di ottenere vantaggi fiscali cospicui, il dibattito in sede penale si è sviluppato ed ha ruotato intorno all’emanazione della sentenza Cass. pen., 22.11.2012, n. 7739, resa nel noto procedimento ‘Dolce&Gabbana’, con la quale, espressamente, la Corte si è fatta carico di affrontare la questione (sul tema, anche in riferimento ai precedenti orientamenti, cfr. Di Vetta, G. Abuso del diritto nella prospettiva penale, in Giovannini, A.-Di Martino, A.-Marzaduri, E., a cura di, Trattato di diritto sanzionatorio tributario. Diritto penale e processuale, Milano, 2016, 1003 ss.).
Secondo il principio affermato nella sentenza, divenuta il termine di confronto delle pronunce successive, spesso ad essa allineate, e della dottrina, in maggioranza critica, «nel campo penale non può affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive, così come, invece, ritenuto dalle citate Sezioni Unite civili della Corte Suprema di Cassazione, mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva». In altri termini, il discrimine della rilevanza penale di una determinata operazione sarebbe stato dato dalla possibilità di applicare alla fattispecie concreta una specifica norma a carattere antielusivo, tra le quali si collocava principalmente, per espresso richiamo della stessa Cassazione, l’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973. Invece, la (sola) violazione del principio del divieto di abuso del diritto non avrebbe consentito di affermare la rilevanza penale delle operazioni, perché ciò, secondo la Cassazione, si sarebbe risolto in una violazione del principio di legalità di cui all’art. 25 Cost. (tra le sentenze successive richiamano le motivazioni della sentenza ‘Dolce&Gabbana’ ad es. Cass. pen., 6.3.2013, n. 19100 e Cass. pen., 9.9.2013, n. 36894).
Proprio sul tema della sostanziale violazione del principio di legalità, nello specifico del principio di tassatività delle norme penali, si sono concentrate le maggiori critiche nei riguardi dell’orientamento espresso nella sentenza ‘Dolce&Gabbana’. Infatti, secondo le osservazioni critiche formulate, il presupposto di applicazione delle norme antielusive, come l’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973, non differisce da quello della contestazione del generale divieto di abuso del diritto, incentrati entrambi sulla mancanza di ragioni economiche alla base dell’operazione, all’infuori del conseguimento di un vantaggio fiscale altrimenti indebito. La contestazione della disposizione antielusiva ha come fondamento la comparazione tra le ratio economiche dell’operazione ‘elusiva’, da una parte, e dei principi e delle fattispecie ‘elusi’, dall’altra, consentendo di disconoscere i vantaggi fiscali della prima, per applicare invece le conseguenze tributarie più onerose derivanti dalla seconda. Tale modello di giudizio, fondato sulla valutazione e comparazione dei ‘principi’ alla base delle disposizioni tributarie e delle ratio economiche delle fattispecie concrete poste in essere, è in sostanza di tipo analogico e creativo, dunque non difforme da quello che richiama il generale divieto di abuso del diritto, e come tale non utilizzabile per fondare una responsabilità penale (in dottrina cfr. Alessandri, A., L’elusione fiscale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 1075; Mucciarelli, F., Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici, in Maisto, G., a cura di, Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, 431; Perini, A., Reati tributari, in Dig. pen., Aggiornamento, VII, 2013, 506; volendo, in riferimento alla sentenza ‘Dolce&Gabbana’, Giacometti, T., La problematica distinzione fra evasione, elusione fiscale e abuso del diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 451).
Come anticipato, il principio della sentenza ‘Dolce&Gabbana’ ha trovato espresso richiamo e adesione in pronunce successive nelle quali non ha tardato a manifestarsi la tendenza verso un sindacato penetrante del giudice sulla legittimità penale delle ragioni economiche delle operazioni poste in essere dal contribuente, sindacato però privo di vincoli di tassatività, essendo non tassativa la fattispecie originale antielusiva (Cass. pen. n. 19100/2013). In altre pronunce, tuttavia, la Corte, pur non discostandosi formalmente dalla interpretazione precedente, si è espressa in termini che confermano le criticità evidenziate in riferimento al canone di tassatività delle fattispecie penali: «è evidente che non esiste una norma da cui ricavare una immediata equiparazione dell’elusione all’evasione … Il principio di legalità implica, del resto, che il giudice penale non possa limitarsi a prendere atto dell’esistenza di una specifica disposizione antielusiva, ma debba piuttosto ricavare dall’ordinamento previsioni sanzionatorie che vadano oltre il mero divieto per il contribuente di perseguire vantaggi fiscali indebiti» (Cass. pen., 16.1.2013, n. 36859; si v. anche Cass. pen., 20.3.2014, n. 15186). Il richiamo ad evitare ogni automatismo nella contestazione del reato in relazione a condotte qualificabili come elusive è stato, infine, ribadito dalla sentenza resa a conclusione dello stesso procedimento ‘Dolce&Gabbana’, successivamente all’emanazione della delega per la riforma del sistema sanzionatorio tributario: la sentenza, seppure chiarendo che il caso specifico non concerneva una condotta elusiva, ha puntualizzato, con una ricca motivazione, fra l’altro, la differenza tra dolo di evasione, richiesto per integrare i reati, e volontà elusiva di ottenere un vantaggio fiscale indebito: «le disposizioni antielusive in materia tributaria … in quanto norme che concorrono a definire gli elementi normativi della fattispecie ed, in particolare, della condotta materiale, si traducono, sul versante penale, nella generica consapevolezza e volontarietà di tali elementi costitutivi del reato e dunque della condotta; il dolo specifico di evasione, che costituisce il fine della condotta materiale e ne presuppone la perfezione, non si identifica con la generica volontà consapevole della condotta stessa; il “dolo di elusione” non si identifica, pertanto, con il “dolo di evasione” che esprime un disvalore ulteriore tale da selezionare gli illeciti penalmente rilevanti da quelli che non lo sono; in nessun caso le condotte elusive possono avere di per sé penale rilevanza estendendo il fatto tipico oltre i confini tassativamente determinati» (Cass. pen., 24.10.2014, n. 43809; sul tema della centralità dell’elemento soggettivo nell’accertamento dell’abuso del diritto e nella individuazione delle specificità dell’elemento soggettivo richiesto per attribuire rilevanza penale alle condotte finalizzate al risparmio di imposta, ossia la presenza di una connotazione fraudolenta e ingannatoria, Santoriello, C., Abuso del diritto, cit., 384 ss.).
La riforma del d.lgs. n. 74/2000, attuata con il d.lgs. n. 158/2015, ha inciso significativamente sulle fattispecie di reato applicabili nei casi in cui condotte di elusione fiscale sono state ritenute penalmente rilevanti.
In primo luogo, le modifiche hanno interessato la fattispecie di dichiarazione infedele (art. 4 d.lgs. n. 74/2000), con l’intento espresso di limitarne la portata, circoscrivendo le condotte rilevanti a quelle nelle quali si riscontra un nascondimento di elementi attivi effettivi o l’esposizione di elementi passivi non esistenti. La dichiarazione infedele rappresenta il primo stadio in cui il comportamento illecito del contribuente costituisce reato e si configura qualora la dichiarazione fiscale sia ideologicamente falsa, per una ‘nuda menzogna’ sulla ricchezza da sottoporre ad imposizione, senza il ricorso a condotte fraudolente in presenza delle quali si applicano i più gravi reati di cui agli artt. 2 e 3 d.lgs. n. 74/2000 (Perini, A., Reati tributari, cit., 500). Come anticipato, a seguito della riforma, sono state espressamente escluse dall’ambito della fattispecie tutte le questioni valutative, caratterizzate sovente da margini di opinabilità nell’applicazione della normativa tributaria. Fuoriescono dall’ambito di rilevanza penale la non corretta classificazione fiscale di elementi attivi e passivi esistenti «rispetto ai quali i criteri concretamente applicati siano stati comunque indicati in bilancio, ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali», la loro imputazione al corretto periodo di imposta, nonché l’esposizione di passivi non inerenti, ovvero, con una clausola di chiusura, quelli non deducibili in applicazione della normativa tributaria. Inoltre il reato si configura per l’indicazione di passivi «inesistenti», mentre prima della riforma l’art. 4 si riferiva all’esposizione di passivi «fittizi». Quest’ultima modifica, in particolare, ha avuto l’effetto di chiudere definitivamente lo spazio all’interpretazione, consentita dalla formulazione precedente, per cui per passivi fittizi si dovessero intendere anche quelli ‘non opponibili’, come nei casi di applicazione della normativa tributaria antielusiva. Per questa via, si riconosceva la rilevanza penale alle condotte elusive, specie nell’ambito delle attività di verifica da parte dell’amministrazione tributaria, con la conseguente comunicazione di notizia di reato alla competente Procura della Repubblica e l’inizio di un procedimento penale. A seguito della riforma del reato di dichiarazione infedele, tale interpretazione, peraltro già osteggiata da gran parte della dottrina, deve considerarsi preclusa, non essendoci nelle operazioni tipicamente elusive alcuna divergenza tra i passivi e gli attivi esposti in dichiarazione e quelli risultanti dal compimento, trasparente, dell’operazione elusiva (si v. ad es. Nocerino, C., Dichiarazione infedele, in Nocerino, C.-Putinati, S., a cura di, La riforma dei reati tributari, Torino, 2015, 78; Corucci, E., Il delitto di dichiarazione infedele, in Giarda, A.-Perini, A.-Varraso, G., a cura di, La nuova giustizia penale tributaria, Padova, 2016, 281).
A fronte di tale drastico ridimensionamento della portata della dichiarazione infedele, la riforma ha rimaneggiato, con effetto verosimilmente opposto, la formulazione del più grave reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3, d.lgs. n. 74/2000). A differenza della dichiarazione infedele, questa fattispecie si rivolge alle ipotesi in cui la dichiarazione mendace è supportata da condotte di frode, volte a fornire al fisco una falsa rappresentazione. Sintetizzando per ragioni espositive le modifiche che più interessano la trattazione, emergono in particolare le due condotte di compimento di «operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente» e di utilizzo di «mezzi fraudolenti» idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, quali condotte tipiche della frode nella dichiarazione, che trovano specifiche definizioni, inserite rispettivamente alle lettere g-bis) e g-ter) dell’art. 1, d.lgs. n. 74/2000. Meno problematica, ai fini che qui interessano, appare invece la condotta di avvalersi di documenti falsi, come tipica attività fraudolenta.
Come già ricordato (supra § 2), il legislatore ha escluso espressamente la possibilità di qualificare come operazioni simulate, rilevanti penalmente ai fini della disposizione in esame, quelle rientranti nel campo dell’art. 10 bis l. n. 212/2000, ossia quelle di elusione-abuso del diritto. Si deve perciò negare l’attribuzione della qualifica di operazione simulata ad un negozio, compiuto con finalità elusive, che sia effettivamente strumentalizzato per conseguire esclusivamente un risparmio di imposta, qualora non vi sia una divaricazione tra la realtà economica posta in essere e quanto dichiarato. Nello stesso senso, la definizione di mezzi fraudolenti, come condotte «artificiose» che «determinano una falsa rappresentazione della realtà», impone di riservare l’applicazione della fattispecie alle sole operazioni che comportino un inganno da parte del contribuente nei confronti dell’amministrazione finanziaria, la quale dall’esame della documentazione fornita non è posta nelle condizioni di ricostruire correttamente l’operazione.
Operazioni in relazione alle quali è contestato il carattere elusivo non possono più essere considerate penalmente rilevanti, sebbene poste in essere al mero scopo di ottenere un vantaggio fiscale, qualora non vi sia una rappresentazione mendace all’amministrazione finanziaria che è, invece, in grado di ricostruirne i passaggi ed eventualmente contestarne gli effetti sul piano tributario.
La chiarezza del dato normativo e, in particolare, la ‘netta’ distinzione tra abuso del diritto-elusione e condotte di evasione penalmente rilevanti operata dal co. 13 dell’art. 10 bis l. n. 212/2000, potrebbero vacillare al cospetto di alcune fattispecie concrete, tanto che sia nei primi commenti, che in alcune delle recenti pronunce, si intravede la possibilità, se non di un ritorno al passato, quantomeno di un approccio caso-per-caso nel quale le fattispecie penali, in particolare l’art. 3 d.lgs. n. 74/2000, siano contestate indipendentemente dalla applicabilità, in sede tributaria, della disciplina dell’abuso del diritto (ad un approccio caso-per-caso fa in effetti riferimento Cass. pen., 24.1.2018, n. 10416; si v. anche Falsitta, V.E.-Faggioli, M., La normativa tributaria di riferimento e le definizioni legali, in Bricchetti, A.-Veneziani, P., I reati tributari, Torino, 2017, 98 ss., in particolare sottolineano le difficoltà interpretative derivanti dal ‘rinvio negativo’ all’abuso del diritto operato dalla definizione di ‘operazioni soggettive’ di cui all’art. 1, lett. g-bis), d.lgs. n. 74/2000). La stessa Relazione al d.lgs. n. 158/2015, del resto, osserva come, a seguito della riforma del reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, operazioni qualificate in precedenza come elusive possano integrare tuttora «vera e propria evasione» (conf., in termini generali, Cass. pen., 1.10.2015, n. 40272).
Rispetto a talune operazioni tipiche ciò non è più possibile. Ad es. le operazioni di transfer pricing non potrebbero più essere considerate penalmente rilevanti, perché i prezzi praticati infragruppo corrispondono esattamente a quanto documentato e dichiarato (la rilevanza penale di siffatte operazioni, peraltro, era già in precedenza assai dubbia; sul tema cfr. Nocerino, C., Dichiarazione infedele, cit., 99, il quale sostiene che possa residuare un ambito di applicazione della dichiarazione infedele qualora il contribuente non abbia redatto la documentazione normativamente prevista allo scopo di palesare i criteri di determinazione dei prezzi utilizzati). Nello stesso senso, ad esempio le operazioni di stock lending non possono ritenersi penalmente rilevanti perché in esse è assente ogni profilo di nascondimento degli strumenti negoziali utilizzati, anche se sfruttati al fine di risparmio d’imposta (Cass. pen. n. 40272/2015; per conclusioni difformi, anche sull’interpretazione della citata sentenza, si v. Nocerino, C., op. cit., 100).
Resta impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali nelle operazioni contrastanti con specifiche disposizioni tributarie aventi una ratio antielusiva, ma volte a dettare una disciplina sostanziale dei tributi, come nel caso della disciplina della residenza in materia di imposte sui redditi di cui all’art. 73 TUIR. Ciò trova conferma nello stesso art. 10 bis l. n. 212/2000, laddove, al co. 12, si stabilisce che «In sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie». La precisazione è rilevante, in particolare, poiché, sebbene anche in queste ipotesi la giurisprudenza penale tendesse a richiamare la disciplina dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto, ci si deve riferire a vera e propria evasione, per la violazione di norme sostanziali disciplinanti i tributi, come nell’esempio della residenza fiscale e della fattispecie di cd. esterovestizione delle società, con la configurabilità del reato di omessa dichiarazione (art. 5 d.lgs. n. 74/2000).
La giurisprudenza penale più recente sembra indicare come tra le disposizioni la cui violazione può comportare l’illiceità penale, dando luogo a evasione e non a elusione-abuso del diritto, si collochino anche le stesse fattispecie penali che configurano le condotte di simulazione e frode: «Se ad esempio una situazione configura una fattispecie di reato regolata dal d.lgs. 74/2000, in quanto simulazione o frode, l’abuso non può essere invocato», con ciò apparentemente operando una inversione rispetto alla limitazione della tipicità penale introdotta dal co. 13 dell’art. 10-bis l. n. 212/2000 (Cass. pen., 5.4.2016, n. 35575, la quale nel caso specifico ha peraltro riconosciuto applicabile la disciplina dell’abuso; in senso critico, Lanzi, A.-Aldrovandi, P., Diritto penale, cit., 274).
È stato fatto ricorso al concetto di simulazione penalmente rilevante, al fine di escludere l’applicabilità della disciplina dell’abuso del diritto, anche in un caso di interposizione societaria, volta ad ottenere un risparmio fiscale, pur essendo trasparente il meccanismo negoziale utilizzato (Cass. pen., 20.11.2015, n. 41755), nonché in un caso di cessione di un immobile, attuato mediante una serie di negozi collegati fra loro strutturati al solo fine di minimizzare il carico fiscale, giungendo alla conclusione per cui la simulazione ricadesse proprio nella «immutatio veri del contenuto della dichiarazione reddituale» (Cass. pen., 21.4.2017, n. 38016, che ha concluso per la configurabilità del reato di dichiarazione infedele). Come anticipato, altre pronunce hanno, al contrario e proprio in ragione del mutato quadro normativo, ritenuto non penalmente rilevanti l’adozione di schemi negoziali articolati, volti ad ottenere il risparmio fiscale, qualora le operazioni siano state effettivamente poste in essere, con i relativi flussi finanziari e trasferimenti di diritti (Cass. pen., 16.11.2016, n. 48293).
Il ricorso al concetto di simulazione o a quello, ancora più generale, di frode potrebbe prestarsi a costituire il veicolo attraverso il quale la giurisprudenza penale ripristini un sindacato penetrante sulla effettività delle operazioni, o persino sulla antieconomicità delle stesse, in continuità con gli orientamenti prevalenti prima della riforma del 2015, con ciò sminuendo la portata della innovazione data dalla disciplina dell’abuso del diritto nonché dalla clausola di irrilevanza penale delle operazioni elusive di cui al co. 13 dell’art. 10-bis , l. n. 212/2000 (si v. ancora Cass. pen., n. 10416/2018, laddove si evidenzia che «anche ciò che giuridicamente è effettivo può, dunque, essere senz’altro fraudolento, se sul piano economico non vi è stata affatto l’operazione che le parti di un contratto abbiano convenuto» e Cass. pen., 27.9.2017, n. 8047; sul tema, Santoriello, C., op. cit, 478 ss., anche per ampia esemplificazione, nonché in chiave particolarmente critica, Aldrovandi, P., Elusione fiscale e diritto penale nella giurisprudenza: l’eterogenesi dei fini del legislatore nel “diritto vivente” e la crisi del principio di legalità nel diritto penale postmoderno, in Indice pen., 2018, 166, il quale definisce il recupero della valenza penale delle condotte elusive come una forma di “resistenza” giurisprudenziale alle scelte legislative, antitetiche, della riforma del 2015).
Fonti normative
Artt. 23, 25, 53, Cost.; art. 1 (titolo I), artt. 2-5 (titolo II), d.lgs. 10.3.2000, n. 74; art. 10 bis, l. 27.7.2000, n. 212.
Bibliografia essenziale
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