Emancipazione femminile
Fino a poco più di un secolo fa, in Italia e in molti altri regimi liberali, ai cittadini di sesso femminile non era consentito votare, le donne sposate non erano libere di disporre del denaro che guadagnavano con il proprio lavoro e non potevano promuovere un'azione legale. Per emancipazione si intende proprio il processo grazie al quale alle donne non è più applicato il trattamento giuridico riservato ai soggetti incapaci. Il termine indica quel mutamento di condizioni per cui, sulle sfere di attività consentite alle donne, non pesano più forti interdizioni legali e sociali.
Fino alla seconda metà del secolo scorso, anche in paesi relativamente avanzati come la Gran Bretagna, le donne non potevano adire una corte, né essere chiamate in giudizio, quindi, paradossalmente, non era neppure consentito loro di presenziare ai processi in cui erano imputate. Per esemplificare questa condizione si cita spesso un caso assai famoso, che ha costituito un punto di svolta nel trattamento giuridico delle donne sposate: quello di Caroline Norton, moglie di un esponente del gruppo parlamentare tory. Suo marito le aveva intentato causa di divorzio, accusandola di aver commesso adulterio con il leader del gruppo whig, lord Melbourne. La donna non poté prender parte alla causa. Anche dopo la separazione, i diritti d'autore dei suoi libri continuarono a essere incassati dal marito, a lui andarono le proprietà che la moglie aveva avuto in eredità dalla sua famiglia, a lui solo spettò la custodia dei figli. Questo caso giudiziario - che ebbe complicate evoluzioni e fu accompagnato da ulteriori scandali - appassionò l'opinione pubblica inglese della prima metà dello scorso secolo. L'indignazione che ne seguì facilitò la strada a una serie di riforme volte a proteggere i diritti delle donne sposate, sia per la possibilità di disporre dei propri redditi da lavoro, sia per la custodia dei propri figli. Il primo Custody bill è del 1839, poi emendato da vari Matrimonial causes acts. Si arriva infine a quello del 1878, che assegna la custodia dei figli, in caso di divorzio, alla madre. Con il Married women's property act, del 1882, si introduce una certa parità di trattamento tra i coniugi per quanto concerne la proprietà.
La condizione femminile, dai tempi di lady Norton a oggi, è molto cambiata: gli ordinamenti giuridici contemporanei non equiparano più le donne ai minori o ai malati di mente; sono cadute molte barriere legali e sociali, che impedivano alle donne di accedere a professioni e a stili di vita un tempo prerogativa del sesso maschile. L'insieme di questi mutamenti si può definire con la dizione 'emancipazione femminile'. L'espressione ha acquisito con il tempo una connotazione politica moderata e il processo di emancipazione è stato contrapposto a quello di liberazione. Nel primo l'obiettivo sarebbe la parità di diritti e di opportunità; nel secondo l'obiettivo sarebbe una modificazione profonda della società, che dovrebbe essere permeata dai valori nuovi propri dei movimenti femministi. Mentre con l'emancipazione le donne mirerebbero all'uguaglianza con gli uomini, con la liberazione esse tenderebbero all'affermazione di un'identità propria e non subordinata a quella maschile. In questo articolo, tuttavia, la dizione sta semplicemente a indicare in forma - per quanto è possibile - neutra il processo di mutamento della condizione femminile.
Un primo modo, il più immediato, di considerare il fenomeno consiste nel valutarne - seppure molto sinteticamente - l'entità. Si tratta cioè di tirare un bilancio dei passi avanti compiuti e della strada che resta da fare. Tracciato il percorso dell'emancipazione, occorre interpretarlo: bisogna capire perché le donne hanno avuto, e in cospicua misura hanno ancora, opportunità di vita meno favorevoli degli uomini anche in quei regimi che professano un credo democratico. Possiamo, insomma, interrogarci sulle origini della disuguaglianza tra i sessi e sulla persistenza dei fattori capaci di generare tale disuguaglianza. D'altra parte, se un processo notevole seppure incompleto di emancipazione c'è stato, occorre individuare quali sono stati i fattori che lo hanno facilitato, le variabili che hanno favorito e possono continuare a favorire in futuro condizioni di maggiore parità tra uomini e donne. Infine, nella prospettiva di completare il processo, si possono valutare le principali strategie politiche per la parità, sia quelle già praticate, sia quelle semplicemente proposte o pensate. L'osservazione dell'emancipazione femminile si può quindi scomporre in tre punti: il percorso dell'emancipazione, le spiegazioni della disuguaglianza e le ragioni del mutamento, le strategie per la parità.
L'evoluzione della condizione femminile non ha seguito un percorso lineare; essa non si può quindi descrivere come un processo continuo di sviluppo nel tempo, né si può configurare come un fenomeno uniforme nello spazio: non segue cioè vie simili, seppure con tempi di avvio molto distanti, nei diversi paesi.
Per 'misurare' l'entità dell'emancipazione abbiamo bisogno di uno strumento di rilevazione. È conveniente adottarne uno che abbia dato buoni risultati euristici. Tale è il concetto di 'diritti di cittadinanza', coniato dal sociologo inglese Thomas Marshall (v., 1950). Con esso si intende quell'insieme di diritti civili, politici e sociali che spettano agli individui in quanto cittadini di un certo paese. Il fatto è che, anche all'interno dello stesso sistema politico, i cittadini non godono di uguali diritti. Il concetto è stato perciò utilizzato in modo crescente, soprattutto a partire dagli anni ottanta, per capire la posizione di disuguaglianza di specifici gruppi sociali nelle democrazie contemporanee. E, in particolare, esso è stato impiegato negli studi e nelle ricerche filosofiche, storiche, sociologiche e politologiche sulla condizione femminile (v. Bock e James, 1991; v. Dietz, 1992; v. Hufton, 1992; v. Pateman, 1988; v. Vogel, 1991; v. Whittick, 1979; v. Saraceno, 1988 e 1993; v. Zincone, 1989 e 1992).I diritti civili prima, i diritti politici poi, e infine i diritti sociali sono il frutto - secondo Marshall - di una sorta di reazione a catena, che ha all'origine esigenze proprie della produzione industriale. Occorre liberare il lavoro dai vincoli feudali, in modo che gli individui possano spostarsi là dove la loro opera è richiesta. Bisogna garantire, per mezzo della certezza del diritto e dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, quel rispetto dei contratti che rende meno rischiosi sia l'investimento del risparmio in attività produttive, sia l'acquisto di materie prime e di merci, sia, infine, lo scambio. Tuttavia la sequenza individuata da Marshall trova riscontro empirico solo nei paesi liberali; infatti nei regimi autoritari spesso i diritti sociali precedono i diritti politici (v. Flora e Alber, 1981). E - fatto più rilevante per questo articolo - la sequenza non vale in ogni caso, se riferita all'universo femminile.
Le donne anticipano gli uomini nell'acquisizione di certi diritti sociali; quasi sempre li seguono nei diritti politici e sono ancora oggi indietro nei diritti civili. Inoltre, per le donne ancora più che per gli uomini, il dispiegarsi della democrazia non è avvenuto in forma lineare e armonica: spesso regimi per altri versi innovativi hanno tolto diritti alle donne.
Così, in Gran Bretagna, il Reform act del 1832 ammette per la prima volta al voto non più soltanto coloro che godono di certe posizioni ereditarie, ma anche coloro che possiedono requisiti economici teoricamente acquisibili con l'impegno personale, quale l'affitto di capannoni industriali o di terreni da coltura. Tuttavia in questo stesso provvedimento liberale, per la prima volta nel diritto britannico, si fa precedere la parola male (maschio) alla parola citizen (cittadino). Ancora, la specificazione male prima di citizen è introdotta nella Costituzione americana - dopo la vittoria del Nord antischiavista sul Sud - con il XIV emendamento; contestualmente il XV emendamento vieta di considerare la razza come criterio di esclusione dal voto, ma deliberatamente non cita il sesso.Del resto, lo stesso innovativo processo di formazione degli Stati Uniti travolge i diritti politici femminili: alcuni territori e Stati indipendenti sono obbligati a rinunciare al voto delle donne nel momento in cui aderiscono all'Unione. Il New England, che funziona come centro di aggregazione nazionale, impone infatti l'abbandono della parità politica tra i sessi ai territori dell'Ovest, nei quali la scarsità di donne e una più bassa influenza culturale europea avevano consentito norme innovative. Una studiosa della storia dei diritti di cittadinanza americani, Eileen McDonagh (v., 1991, p. 1), osserva che i "periodi celebrati per aver esteso in senso progressista i diritti degli uomini sono gli stessi periodi riformisti che hanno regressivamente intensificato l'esclusione delle donne". E, come abbiamo visto, la cosa non vale solo per gli Stati Uniti.
Non fa eccezione il giovane Stato unitario italiano che, con il Codice Pisanelli del 1866, reca alle donne degli ex domini asburgici la perdita della capacità di agire. Questa parte del codice resta in vigore nel nostro paese fino alla riforma del 1919.I diritti di cittadinanza degli uomini non trascinano quelli delle donne, ma neppure è vero che le donne arrivino sempre dopo. Quando analizziamo il carattere 'arretrato' o 'avanzato' della cittadinanza femminile rispetto a quella maschile, ci accorgiamo che le donne acquisiscono generalmente più tardi i diritti politici (nel Liechtenstein soltanto nel 1984). Si va da casi di raggiungimento contemporaneo del suffragio universale da parte dei due sessi (Australia 1902, Finlandia 1906, Islanda 1915, Unione Sovietica 1917, Lussemburgo 1918, Ungheria 1919, Canada, Cecoslovacchia, Danimarca 1920, Iugoslavia 1945) fino a casi di lungo intervallo (Bulgaria 1879-1945; Belgio 1893-1948; Francia 1848-1944; Svizzera 1848-1971), passando per casi intermedi come quello italiano. Tuttavia numerosi casi sono virtuosi soltanto in apparenza. Infatti, in contesti autoritari, al diritto al voto non corrisponde la possibilità di scegliere tra opzioni diverse o di votare per organismi rilevanti. D'altra parte, anche nei pochi sistemi liberali virtuosi, l'arrivo simultaneo al traguardo del suffragio universale nasconde tappe intermedie in cui i maschi si sono trovati costantemente avanti. Questo, dei passaggi intermedi rilevanti e solo maschili, è il modello più diffuso di estensione del suffragio di tipo liberale. Possono essere tappe importanti: valori intorno al 10% degli aventi diritto al voto sul totale della popolazione (corrispondenti al 30% circa della popolazione maschile adulta) sono già in grado di includere le aristocrazie operaie e gli alfabetizzati e di dar vita quindi agli embrioni dei futuri partiti di massa. Secondo la famosa tesi di Rokkan (v., 1970) gli attuali sistemi partitici si sono in larga misura formati al momento dell'estensione del suffragio e hanno riprodotto i principali conflitti organizzati allora presenti (Chiesa-Stato; centro-periferia; agricoltura-industria; proprietari-salariati). Quindi, data l'inutilità di incanalare un consenso femminile privo di voto e di temibili organizzazioni di categoria, il conflitto di genere è stato tagliato fuori nel momento della genesi dei sistemi partitici.
A fronte di questo pesante svantaggio di partenza nei diritti politici, le donne raggiungono in anticipo una certa categoria di diritti sociali. Esse acquisiscono, infatti, prima degli uomini, forme di protezione sul lavoro. In molti paesi europei - quali la Gran Bretagna, la Francia, i Paesi Bassi, l'Austria, la Svizzera - si regolano gli orari giornalieri, il riposo obbligatorio, il divieto di lavoro notturno e insalubre prima - e per lungo tempo - soltanto per le donne. Alcuni di questi apparenti privilegi sono ancora presenti in molte legislazioni contemporanee. Ad esempio, la cosiddetta 'legge di parità' (n. 903 del 1977) - che applica in Italia alcune direttive della Comunità Europea, volte a smantellare la discriminazione sessuale sul lavoro - prevede ancora che le donne non possano essere utilizzate nei turni di notte a meno che i sindacati non consentano la deroga al divieto.L'insieme di norme dirette a proteggere le lavoratrici sono state denominate di tutela (v. Ballestrero, 1979; v. Galoppini, 1980) e contrapposte a una legislazione mirata invece alla parità, che si propone di aprire alle donne tutte le carriere e vuole offrire uguali opportunità di occupazione. La parità confligge con la tutela, se e in quanto essa impone la rinuncia alla protezione differenziata della maggiore fragilità fisica e del maggior impegno familiare delle donne.
Non si deve, tuttavia, pensare che il trattamento delle donne si sia evoluto dalla tutela alla parità. All'inizio dei processi di industrializzazione la forza lavoro femminile era impiegata in occupazioni debilitanti e degradanti che gli uomini rifiutavano di accettare. Il Rapporto della Commission on Mines, istituita dal Parlamento inglese nel 1842, racconta situazioni estremamente penose. Le ricerche storiche in questo ambito, in primis quelle ormai classiche di Sheila Rowbotham (v., 1973) e di Évelyne Sullerot (v., 1968), offrono un quadro desolante delle condizioni del lavoro femminile nella prima industria.
Le leggi di tutela vengono introdotte in Gran Bretagna solo verso gli inizi degli anni quaranta dello scorso secolo. Qui, come altrove, esse intendono sanare una situazione che comporta gravi rischi per la salute delle donne, per la loro capacità riproduttiva, per la loro moralità familiare. Si tratta - come spesso capita ai provvedimenti che costruiscono lo Stato sociale - di misure eugenetiche, intenzionate a proteggere la salute della nazione, dei suoi potenziali soldati e, in questo caso, delle loro potenziali madri.Più in generale, le donne sono tutelate in quanto madri e spose, prima che come cittadine e lavoratrici. Quindi, mentre si salvaguarda la loro salute sul lavoro, si provvede alla loro espulsione dal lavoro. Accanto a motivazioni eugenetiche, il processo di espulsione rivela un'altra motivazione della tutela: il controllo della competizione interna alla forza lavoro. I limiti posti all'utilizzazione del lavoro femminile si possono leggere anche come un tentativo della componente maschile di riequilibrare la domanda: il cospicuo differenziale salariale e l'alta flessibilità avevano reso troppo competitiva la forza lavoro femminile rispetto a quella maschile; al punto che, agli inizi dell'industrializzazione, i tassi femminili di occupazione superano quelli maschili. Agli inizi, nel periodo protoindustriale, la manodopera femminile viene inviata nell'industria all'interno di una strategia familiare (v. Tilly e Scott, 1978) che destina gli uomini ai più complessi lavori di artigianato e di agricoltura. Anche in seguito, però, cioè dopo il prevalere della cultura di separazione tra lavoro domestico (femminile) e lavoro di fabbrica (maschile), le donne lavorano prima del matrimonio per procurarsi una dote (v. Dumblin, 1979) e le donne sposate immigrate lo fanno in casi di gravi necessità economiche (v. Hareven, 1982).
La modernizzazione economica coincide con un vasto processo di ridistribuzione delle attività tra i sessi che non sempre favorisce le donne. Alcune fabbricazioni, che erano affidate loro nell'ambito di un'economia domestica di autoproduzione, in un'economia di mercato sono riservate agli uomini. "Nel 1639 Mary Arnold andò in prigione perché aveva continuato a fare la birraia in contrasto a un'ordinanza dei birrai di Westminster" (v. Rowbotham, 1973). Quindi, non solo la modernizzazione politica e istituzionale comporta spesso arretramenti della condizione femminile, ma anche la modernizzazione economica può imporre alle donne passi indietro. Quanto più l'attività produttiva si disloca fuori della famiglia, tanto più si rafforzano l'incapsulamento e la subordinazione della donna all'interno della famiglia e le interdizioni esterne. La libera circolazione dei lavoratori su tutto il territorio e in tutte le professioni e i mestieri - uno dei cardini della legislazione antifeudale, introdotta dai regimi liberali, e uno dei presupposti del funzionamento di un'economia di mercato - fatica molto a estendersi alle lavoratrici: troppo alte sono le sue potenzialità eversive per le relazioni di potere all'interno della famiglia. Un individuo che vive dei propri guadagni è potenzialmente autonomo. Le recenti interpretazioni storiche 'continuiste' negano la tesi classica di Smelser (v., 1959) che vede nell'industrializzazione un pur lento fattore di disgregazione dell'ordine gerarchico e della compattezza familiare. Secondo Smelser il filatoio a intermittenza, implicando un alto numero di addetti, impedisce l'utilizzazione del semplice nucleo familiare e quindi sottrae la manodopera alla gestione del capofamiglia. I teorici della continuità ritengono che la famiglia mantenga il ruolo di imprenditrice della sua forza lavoro. Tuttavia anche questa scuola osserva l'impatto 'individualizzante' della fabbrica sulle donne. "Il lavoro fuori casa offriva alle operaie un senso di identificazione con il processo del lavoro e con un gruppo di persone dello stesso livello. Dava loro un'opportunità di far valutare le loro prestazioni da persone esterne e di essere pagate per il loro lavoro come soggetti singoli" (v. Hareven, 1992, p. 161).
Alla crescita di autonomia, derivante in ultima istanza dai processi di industrializzazione, si frappongono due barriere: quella familiare della subordinazione al marito (potestà maritale, incapacità di agire) e quella extrafamiliare dell'interdizione da mestieri, professioni, istruzione. Alcuni mestieri nobili resistono con particolare tenacia: i tipografi e i loro sindacati, ad esempio, cedono in Italia solo verso la fine del secolo scorso. In Gran Bretagna la riforma del pubblico impiego del 1855 apre per la prima volta gli esami alle donne per le mansioni più basse: solo nel 1870 sono ammesse come impiegate. Le associazioni degli avvocati e dei medici vogliono le rispettive facoltà universitarie chiuse al sesso femminile e, una volta che le donne riescono a ottenere l'ingresso nelle università, non ne consentono l'ammissione ai rispettivi albi. Più in generale, l'istruzione superiore e le professioni resistono in funzione proporzionale allo status. In Inghilterra le università cominciano ad aprire alle donne verso la metà del secolo scorso, ma Oxford e Cambridge cedono per ultime.In sintesi, le donne restano escluse fino a tempi molto recenti dall'istruzione superiore, dalle professioni liberali, dai settori più importanti dell'amministrazione pubblica. Ricordiamo, ad esempio, che in Italia la professione di giudice è aperta alle donne solo dal 1963. E la carriera militare, nell'ultimo scorcio di questo XX secolo, è ancora chiusa o socchiusa alle donne nella maggior parte dei regimi democratici.Altrettanto a lungo si mantiene l'incapsulamento e la subordinazione al marito nell'istituto familiare. Fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975, in Italia le donne sposate erano obbligate a risiedere dove il marito decideva di fissare la propria dimora.
Osserviamo quindi che - sotto un profilo giuridico - le donne acquisiscono prima degli uomini un certo tipo 'protettivo' di diritti sociali, in seguito i diritti politici e, dopo ancora, la pienezza dei diritti civili, quale ad esempio la libertà di movimento sul territorio e nei mestieri. Ancora più tardivo e acerbo giunge alle donne il più classico dei diritti civili: l'uguaglianza di fronte alla legge. Certo già nel secolo scorso viene introdotto in alcuni sistemi liberali il principio di uguaglianza formale, cioè il diritto ad adire le stesse corti e a essere giudicate con le stesse procedure dei maschi; manca però - fino a tempi assai recenti e, per certi versi, a tutt'oggi - la parificazione dei trattamenti delle stesse fattispecie. Così, ad esempio, è solo con una sentenza della Corte costituzionale del 1968 che decade in Italia l'art. 559, in base al quale era punibile soltanto l'adulterio della moglie, quello del marito non essendolo se non in casi particolarmente offensivi e manifesti. In molti sistemi giuridici si mantiene fino alla prima metà di questo secolo il potere correzionale del marito sulla moglie: la possibilità cioè di infliggere punizioni fisiche a scopi educativi (in Belgio persiste fino al 1936). La leggerezza delle pene, in caso di violenza sessuale, e la resistenza a comminarle - specie quando lo stupro avviene all'interno della famiglia - giungono fino ai giorni nostri. Il fatto che nessuno consideri un'emergenza sociale la persistente violenza fisica operata dai maschi adulti sulle donne, mentre tale viene considerata, ad esempio, la violenza molto meno diffusa contro le minoranze etniche, è indicativo della straordinaria normalità dell'arbitrio nel trattamento di fattispecie simili quando i soggetti sono donne.
L'analisi di Marshall deve, quindi, essere completamente rovesciata rispetto alle sequenze e ripensata rispetto agli esiti, se la si applica al femminile. Inoltre per le donne, come del resto anche per gli uomini (v. Zincone, 1992), le vie alla cittadinanza 'mutilata' non sono le stesse in tutti i regimi politici. Ad esempio, in un modello di Stato sociale 'residuale' (v. Titmuss, 1962), che copre cioè non l'insieme dei cittadini o dei lavoratori, ma piuttosto le fasce deboli - quelle che non riescono a procurarsi sicurezza attraverso il mercato -, il trattamento 'privilegiato' delle donne è più evidente. È questa una sindrome propria delle prime fasi del welfare inglese, che ancora caratterizza in parte gli Stati Uniti e altri sistemi di matrice britannica. Così, Theda Skocpol (v., 1992) vede negli Stati Uniti un Welfare State 'maternalista', che si afferma in antitesi a un Welfare State 'paternalista'. Negli Stati Uniti, infatti, non solo i singoli Stati, ma lo stesso governo federale interviene prima e meglio a proteggere le vedove e gli orfani. Questa soluzione diventa l'alternativa americana al welfare più robusto ed esteso proprio dei paesi dell'Europa continentale. Il sistema di sicurezza europeo si può definire come paternalista perché basato sull'idea di proteggere il reddito da lavoro del capofamiglia maschio. Tuttavia, è proprio negli Stati Uniti 'maternalisti' che la maternità viene protetta di meno: qui sono meno diffusi - almeno fino alla presidenza Clinton - i congedi obbligatori pagati, il diritto a mantenere il posto di lavoro e il corrispondente divieto di licenziare per matrimonio e per gravidanza, l'erogazione di assegni di maternità o l'offerta pubblica di asili e nidi. In un regime ancora molto impregnato di valori liberali, le donne sono più spesso protette, in quanto più spesso falliscono nella capacità di procurarsi redditi sul mercato; ma esse vengono altresì spinte a presentarsi sul mercato in condizioni simili agli uomini. La cultura civica americana vuole che sia il reddito guadagnato sul mercato il primo responsabile del benessere individuale e collettivo. L'azione pubblica tende quindi a rimuovere gli ostacoli nella parità di accesso al mercato piuttosto che ad agire attraverso misure di tutela. Verso la fine del XX secolo gli Stati Uniti sono all'avanguardia negli esperimenti di azioni positive, quali la riserva di posti di istruzione e di lavoro pregiati e il comparable worth, cioè l'equiparazione dei salari percepiti per lavori di valore comparabile. Il sistema delle quote contrasta forse con la fiducia liberale nella neutralità del mercato, ma non con il principio repubblicano secondo il quale la migliore previdenza è quella che mette una persona valida in grado di procurarsi da vivere lavorando.
Quando diciamo che i diritti sociali arrivano prima per le donne che per gli uomini, dobbiamo specificare di quali diritti parliamo e a quali regimi ci riferiamo. Infatti, all'inizio, in quasi tutti i regimi, si tratta di leggi protettive che riguardano spesso, allo stesso tempo, il lavoro femminile e quello minorile, o si tratta di interventi economici a sostegno di situazioni eccezionali. Al contrario, nello Stato sociale in senso proprio - quello, per intenderci, che attecchisce in Europa ed è destinato a coprire la larga maggioranza dei cittadini - la sicurezza riguarda per lo più il lavoratore maschio: la donna sposata, priva di reddito autonomo sufficiente, accede al welfare (sanità, pensione, ecc.) attraverso il marito.
A questo punto si profila un tratto tipico dei diritti di cittadinanza femminili, quel carattere che Ursula Vogel (v., 1991) ha definito "indiretto" e che io ho chiamato di "individualismo tardivo" (v. Zincone, 1992). Quello che Vogel ha inteso sottolineare è il fatto che le donne non sono titolari dei diritti, ma ne fruiscono attraverso i mariti, mentre a me premeva far notare il profilo antiquato del trattamento giuridico delle donne. Infatti, se accettiamo la tesi di Stein Rokkan (v., 1970), secondo la quale la modernizzazione politica comporta l'instaurarsi di relazioni dirette tra Stato e cittadini e la costituzione quindi di diritti individuali, dobbiamo considerare le donne come una consistente eccezione. Si può valutare come un residuo di diritto corporativo e una persistenza tardofeudale il fatto che le donne siano considerate tutt'uno con un corpo - quello familiare - la cui rappresentanza spetta al padre, prima, e al marito, poi. Ricordiamo, ad esempio, che la principale obiezione mossa in passato contro l'estensione del voto alle donne era che in questo modo gli uomini sposati avrebbero votato due volte. La stessa acquisizione o perdita della cittadinanza in senso giuridico è stata, fino a tempi molto recenti, legata alla nazionalità del marito (v. Saraceno, 1993). Il persistente rifiuto a considerare le donne come individui distinti e autonomi spiega il fatto che la linea di conflitto politico tra uomo e donna non sia legittimata. "La politica - come ha osservato la politologa Jane Jenson (v., 1991, p. 58) - è un conflitto di identità collettive su chi abbia il diritto di avanzare rivendicazioni". Insomma quello che si nega ancora alle donne è lo status di attore politico, status di cui godono regioni, etnie, lingue, religioni, parti sociali. A questo proposito, giova ricordare che esiste un unico partito di donne, in Islanda.
Sarebbe ragionevole aspettarsi una decisa simpatia per l'ammissione delle donne alla vita pubblica da parte dei movimenti e dei pensatori democratici, ma così non è. La coincidenza temporale tra progresso dei diritti maschili e regresso dei diritti femminili - di cui abbiamo detto in precedenza - non è casuale. La storia del pensiero e della filosofia politica, ambiti disciplinari in cui i women's studies sono particolarmente progrediti, ha messo in evidenza l'atteggiamento restauratore nei rapporti tra i sessi tipico del pensiero democratico. Susan Moller Okin (v., 1979, pp. 114-115) ricorda il Rousseau dell'Émile e della Nouvelle Héloïse. In questi testi il filosofo ginevrino auspica la restaurazione di ruoli precisi per ciascuno dei sessi ed elogia l'ignoranza femminile e la subordinazione della donna all'uomo; fa questo in quanto tali regole di convivenza privata sono funzionali al recupero di quella moralità familiare su cui si fonda la moralità repubblicana. Ne Il contratto sociale egli precisa che "la più antica delle società e la sola naturale è la famiglia" e che, al suo interno, la sottomissione della moglie è necessaria per tre motivi: il bisogno di un'autorità superiore in caso di disaccordo, l'impossibilità di assegnarla a un individuo frequentemente incapacitato dalle gravidanze, la necessità che gli uomini possano contare su una prole certa. Quindi la subordinazione femminile non è una dimenticanza, una prudenza nel processo di innovazione: essa è - al contrario - un elemento costitutivo della moralità democratica. Perciò la privazione di diritti delle donne si deve considerare un carattere centrale del modello democratico delle origini e un suo importante limite (v. Held, 1987, cap. 3; v. Elshtain, 1981; v. Pateman, 1988 e 1989).
In coerenza con questo modello, la dottrina della 'maternità repubblicana' è essenziale nella costruzione della giovane democrazia statunitense (v. Kerber, 1980). Sottratta al 'fazionismo' e all'asprezza della lotta politica, la madre repubblicana dispone di tempo ed energie incontaminate, può quindi educare appropriatamente i futuri cittadini-figli e costituire un esempio per il cittadino-sposo. Questa ideologia consentiva di surrogare una funzione pubblica (la trasmissione e la custodia della moralità repubblicana) con una funzione privata (l'educazione dei figli, la cura fisica e psicologica dei mariti) (v. McDonagh, 1991). La via democratica alla cittadinanza esclude le donne perché la loro domesticità è necessaria alla moralità della repubblica; la piena cittadinanza maschile presuppone la non cittadinanza femminile. L'amore democratico per le virtù antiche si riflette qui in una riproduzione dell'organizzazione sociale in cui quelle virtù erano fiorite: come i meteci, designati a occuparsi della vita materiale, permettevano ai cittadini ateniesi di dedicarsi alla cosa pubblica, così le donne americane e le cittadine della Francia rivoluzionaria, assegnate alla cura della vita privata, permettevano ai cittadini delle nuove repubbliche di dedicarsi non solo agli affari, ma anche alla politica. Ursula Vogel (v., 1991) osserva giustamente che l'esclusione dalla comunità politica è elemento costitutivo di un regime. Quella democratica è, quindi, una cittadinanza virile, tanto è vero che il diritto al voto si fa dipendere dalla difesa della patria in armi, dall'aver svolto il servizio militare, dovere civico che solo gli uomini possono esercitare legalmente. Così, il primo gesto pubblico compiuto dalle tricoteuses, le rivoluzionarie francesi, consiste nella richiesta posta all'Assemblea legislativa di formare una guardia civica femminile, richiesta ovviamente respinta.
La via liberale all'esclusione segue un cammino apparentemente meno ideologico. Le donne sono private dei diritti politici non come categoria specifica, né perché esse sono necessarie a forgiare buoni cittadini di sesso maschile. Quello dell'esclusione è piuttosto un carattere che esse condividono con altre categorie prive dei requisiti necessari. L'assenza di autonomia nella vita civile - secondo l'ideologia liberale - rende inidonei a entrare nella vita pubblica e le donne sono uno dei gruppi privi di autonomia. "Tutte le donne e in generale tutti coloro che nella conservazione della loro esistenza (nel mantenimento e nella protezione) non dipendono dal proprio impulso ma dai comandi di altri [...] - scrive Kant in La metafisica dei costumi (1797) - mancano di personalità civile e la loro esistenza è in certo modo soltanto inerzia". In un regime liberale è la capacità di affermarsi nella società civile il requisito più importante per diventare cittadini pleno jure. Scrive Constant: "Nelle nostre società la nascita nel paese e la maturità dell'età non bastano per conferire agli uomini le qualità proprie dei diritti politici. Coloro che l'indigenza mantiene in un'eterna dipendenza e condanna a lavori giornalieri non sono né più illuminati dei fanciulli in merito agli affari pubblici, né più interessati degli stranieri a una prosperità nazionale di cui non conoscono gli elementi e di cui godono i vantaggi soltanto indirettamente" (Principî di politica, 1818). E certo le donne appaiono condannate alla dipendenza e ai lavori giornalieri, anche se in realtà non sono incapaci, ma piuttosto incapacitate.
Almeno in linea teorica, a tutti i maschi è consentito di procurarsi quei requisiti di censo e di istruzione necessari a dimostrare che si è in grado di giudicare liberamente del bene pubblico; mentre alle donne questo non viene permesso, e la condanna a una dipendenza, che si postula naturale, è indotta giuridicamente. Prima ancora di privare le donne dei diritti politici, i regimi liberali le privano del diritto di ingresso nella società civile, negando loro la possibilità di istruirsi, di svolgere le libere professioni, di disporre dei propri redditi e delle proprie ricchezze. Il diritto pubblico non fa che registrare un'incapacità prodotta dal diritto civile.Un elemento accomuna la via democratica a quella liberale: la motivazione principe delle interdizioni civili e politiche imposte alle donne è la stessa, l'unità familiare. Così Locke, dopo aver sottolineato il carattere individuale dell'adesione al patto sociale e l'uguaglianza degli individui nella loro libertà di aderirvi, passa a illustrare la necessità che la famiglia possa prendere decisioni unitarie, il che comporta la necessità che un'opinione prevalga e, se è necessario che questo avvenga, allora tra i due coniugi si sceglierà l'uomo, che rappresenta "the abler and stronger part". L'unità familiare serve insomma a giustificare una relazione di dominio.
Rispetto ai rapporti tra i sessi, le liberaldemocrazie contemporanee mantengono alcuni vizi d'origine dei due modelli da cui discendono. Quasi tutte le legislazioni europee degli anni novanta, ad esempio, incentivano fiscalmente le relazioni di coppia in cui il marito si mostra, come vuole Locke, "più capace e più forte", quelle cioè in cui egli provvede alla parte più cospicua del reddito e lascia che la moglie si occupi di accudire i familiari. Basti pensare ai trattamenti fiscali che si basano sul cumulo dei redditi e quindi considerano - ad esempio - ugualmente ricchi due individui che vivono insieme e guadagnano ciascuno la cifra x e un individuo che guadagna 2·x ne mantiene un altro di sesso femminile al suo gratuito servizio. Anche le soglie di accesso ai servizi sociali sono basate sul reddito familiare e quindi di nuovo fanno riferimento alla somma dei salari dei familiari conviventi; esse ignorano ugualmente la dimensione individuale del lavoro e non contano il benessere materiale che deriva al marito dal lavoro gratuito della moglie casalinga.
Se ci spostiamo dall'ambito dei diritti a quello delle attività e delle posizioni ricoperte, il processo di emancipazione appare ancora meno compiuto. Le donne europee dedicano in media il doppio del tempo al lavoro domestico rispetto agli uomini, per un totale di 56 ore settimanali (v. Slazai, 1972). Il fatto che entrambi i coniugi lavorino anche fuori casa riequilibra molto poco la distribuzione del lavoro familiare. Questo significa che le donne lavorano complessivamente un numero maggiore di ore, cioè ogni mese lavorano in media 24 ore in più rispetto agli uomini (v. Hochschild e Machung, 1990). E se il carico di lavoro complessivo delle donne si riduce, è solo perché calano le ore di lavoro extrafamiliare (v. Saraceno, 1993). L'individuazione delle professioni di prestigio non muta molto nel tempo, né da un paese all'altro, né da una classe sociale all'altra: managers, medici, architetti e altri professionisti sono comunque in testa (v. Treiman, 1977, p. 59) nella percezione generale dei lavori più ambiti. Se si passa a rilevare la distribuzione fra i sessi in queste posizioni, si osserva che le donne sono decisamente minoritarie. Ma bisogna rilevare anche qui una grande variabilità tra un paese e l'altro: in Grecia, in Olanda, in Norvegia, le donne sono più numerose degli uomini nelle attività scientifiche; in Finlandia lo sono nella medicina. Nel complesso, il paese occidentale dove le donne sono meno distaccate dagli uomini nelle posizioni di prestigio è la Grecia (41,1%), il meno aperto è la Svizzera (17,4%), seguito da Gran Bretagna (20,7%) e Stati Uniti (21,5%); l'Italia si situa in posizione mediana (29%). Ancora una volta si vede che la modernizzazione economica e politica non comporta necessariamente l'emancipazione femminile. All'interno delle posizioni più ambite le donne hanno dato un deciso colpo alla magistratura e un serio scossone alla medicina, meno all'ingegneria e alle professioni legate all'industria. La diversa permeabilità delle élites si spiegherebbe con la diversa compatibilità familiare delle carriere e con il carattere più o meno universalistico degli accessi (v. Abburrà, 1992). La sociologia del lavoro ripercorre così le tesi già avanzate dalla sociologia politica, che aveva visto nell'attività familiare delle donne sia un vincolo all'accesso alle risorse necessarie all'ingresso nell'attività politica, sia un vincolo di compatibilità con il suo svolgimento, e aveva osservato sia il ruolo cruciale dei gate keepers (di partiti più o meno favorevoli), sia quello delle regole, cioè di sistemi elettorali più o meno capaci di valorizzare le risorse disponibili per le donne e di compensare l'assenza di risorse disponibili solo per gli uomini (v. Zincone, 1985). Anche rispetto alla presenza nella classe politica, le situazioni nazionali sono molto diversificate. Nei regimi democratici, la rappresentanza degli uomini oscilla dal minimo dei Paesi Scandinavi, intorno al 60%, al massimo di alcuni regimi dove supera il 95% (v. Balbo, 1988). Tra i paesi con un basso numero di donne in parlamento, troviamo - almeno fino agli inizi degli anni novanta - il Giappone e gli Stati Uniti. Nelle elezioni più recenti la situazione in entrambi i paesi è migliorata, ma non in modo drammatico (v. Lovenduski, 1986; v. Norris, 1987; v. Lovenduski e Norris, 1993). Parimenti, il crollo dei regimi autoritari comunisti ha portato con sé anche il crollo della rappresentanza femminile.I tassi di attività femminile sono aumentati negli ultimi vent'anni in tutti i paesi OECD (passando in media dal 29 al 40% della forza lavoro) e l'occupazione femminile - con l'eccezione del Giappone - manifesta incrementi maggiori rispetto a quella maschile. Anche in questo ambito, tuttavia, assistiamo a notevoli variazioni: da una sostanziale parità negli Stati Uniti e in Svezia, a tassi di attività inferiori a un terzo in Spagna, Olanda e Irlanda. Inoltre, all'aumento dell'occupazione femminile non ha fatto riscontro una diminuzione decisiva della segregazione orizzontale (professioni e settori) e verticale (livelli gerarchici inferiori) (v. OECD, 1985; v. England e McCreary, 1988; v. Stirati, 1990). Né si è rilevata in tutti i paesi una diminuzione cospicua del differenziale salariale (v. England e McCreary, 1988), cioè della forbice tra remunerazioni femminili e maschili. E se, sotto questo profilo, l'Italia e l'Europa meridionale rappresentano casi virtuosi, lo si deve al sostanziale appiattimento in basso dei salari. Anche da noi, infatti, ci si allontana dalla parità quanto più i lavori diventano stabili e ad alta professionalità (v. Del Boca e Fornengo, 1992; v. Rodriguez Rodriguez, 1992).
La scarsa permeabilità di certe sfere di attività - e quindi la diversa presenza nella forza lavoro -persiste dunque al di là del processo di parità giuridica. Essa va spiegata con un diverso impatto sui due sessi del ciclo di vita e dello spazio, cioè con la più forte scansione delle fasi e con l'incidenza cruciale di quella riproduttiva, con la minore mobilità sul territorio delle donne rispetto agli uomini. Questa diversa forma del tempo e dello spazio incide sull'attività lavorativa delle donne e degli uomini dando luogo a percorsi intrecciati nelle strutture di genere del lavoro (v. Saraceno, 1992). Quindi, in buona sostanza, è ancora la diversità nell'attività familiare dei due sessi che spiega la diversità nell'attività lavorativa per entrambi.Qualunque ne sia la motivazione ultima, le segmentazioni, le recinzioni sociali di genere mostrano di resistere anche più a lungo di quelle di razza. Si tratta quindi di recinzioni robuste. Dobbiamo ora chiederci perché esse si instaurino e da dove derivino la loro forza.
Mentre le ricerche e gli studi diretti a evidenziare il come e il quanto della disuguaglianza sono innumerevoli e sofisticati sotto il profilo teorico ed empirico, le spiegazioni date sull'origine del fenomeno, o viceversa sul processo di emancipazione, sono interessanti, creative, ma non sempre convincenti e talora datate.
Alcune spiegazioni sono aspecifiche, cioè riconducono i motivi della subordinazione femminile ai motivi dell'oppressione sociale in genere. Altre sono iperspecifiche, cioè spiegano attraverso un aspetto del fenomeno - la volontà dei maschi di controllare i processi riproduttivi - quello che deve a sua volta essere spiegato: la capacità di imporre il controllo in questo come in altri ambiti. Altre ancora sono specifiche ma rischiose: partono dalla debolezza della fisiologia femminile e considerano il potere politico maschile come l'istituzionalizzazione di un potere di fatto. Questa tesi, per altri versi convincente, diventa però inquietante quando suggerisce, come strategia paritaria adeguata, il superamento delle specificità fisiologiche, da una parte, o la separazione tra i sessi, dall'altra. C'è infine un blocco di teorie che sono svelamenti piuttosto che spiegazioni: si tratta dei tentativi di smascherare le tecniche o i modi con cui la supremazia maschile si legittima.
La scuola marxista costituisce il più rilevante esempio di spiegazione aspecifica. Nell'Ideologia tedesca (1846) Marx ed Engels avevano asserito che "la prima divisione del lavoro è quella tra uomo e donna per la procreazione dei figli". Se la divisione del lavoro è fonte di alienazione e fondamento del potere dell'uomo sull'uomo, ci si potrebbe attendere un attacco teorico alla divisione del lavoro 'riproduttivo', o meglio alla sua estensione oltre le necessità fisiologiche, ma questo non avviene. Il percorso logico della spiegazione rientra rapidamente negli argini tradizionali del pensiero marxista. Engels ne L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884) - partendo dagli studi di Morgan e Bachofen sul matriarcato - osserva che la supremazia dell'uomo si instaura con la formazione della proprietà privata. L'addomesticamento e il controllo del bestiame danno ai maschi uno strumento di dominio e il desiderio di trasmettere i propri beni a una prole certa li spinge a sottomettere le donne. La via maestra della liberazione consisterebbe quindi, per le donne, nell'appoggiare le lotte del movimento operaio, il quale soltanto può ottenere l'indispensabile superamento della proprietà privata capitalistica e - conseguentemente - della necessità di subordinare il sesso femminile, necessità che deriva dall'esistenza della proprietà. La donna, quindi, come attore politico, può essere rivoluzionata e non rivoluzionaria (v. Zincone, 1978). Lo afferma con durezza Klara Zetkin ne La questione femminile e la lotta al riformismo: "Le donne tedesche non dovrebbero mai dimenticare che l'equiparazione politica non è il premio di una loro vittoria, bensì il regalo d'una rivoluzione sopportata dalle masse proletarie". La diagnosi marxista è peggiore della terapia, che - tutto sommato - appare sensata e lungimirante. Infatti Engels, prima, e Lenin, poi, indicano nell'ingresso delle donne nel mondo produttivo e nella socializzazione del lavoro domestico un passaggio cruciale dell'emancipazione. Scrive Engels ne L'origine della famiglia: "Appare fin d'ora chiaro che l'emancipazione della donna e la sua equiparazione all'uomo sono e restano impossibili finché la donna sarà esclusa dal lavoro sociale produttivo e rimarrà limitata al lavoro domestico privato. [...] L'emancipazione della donna diviene possibile solo quando essa può partecipare su vasta scala sociale alla produzione, e il lavoro domestico non la impegna ancora che in misura insignificante". E Lenin preciserà: "Perché la donna sia completamente libera e realmente pari all'uomo, bisogna che i lavori domestici siano un servizio pubblico e che la donna partecipi al lavoro produttivo generale".
Si capisce quindi che le studiose femministe e marxiste degli anni settanta rimproverassero al capitalismo l'invenzione del lavoro domestico scisso e contrapposto rispetto al lavoro di fabbrica, e svalutato perché privo di remunerazione monetaria (v. Benston, 1972; v. Bimbi, 1977; v. Dalla Costa, 1975 e 1977; v. De Perini, 1977). La destinazione della donna all'attività familiare - secondo questa scuola - è necessaria alla riproduzione della forza lavoro richiesta da un'organizzazione capitalistica: l'operaio che con il suo salario deve mantenere tutta la famiglia è più ricattabile. Come al solito, le spiegazioni marxiste rischiano di essere idonee a spiegare un fatto e il suo contrario. Si potrebbe sostenere altrettanto validamente che solo una famiglia in cui entrambi i coniugi lavorano, e sono persino in grado di mantenersi temporaneamente a vicenda, è funzionale all'elasticità della forza lavoro richiesta dalle mutevoli esigenze della produzione capitalistica.Più convincenti sono le analisi recenti di studiose (almeno all'origine) marxiste: qui il salutare esercizio di svelare la faziosità dell'azione pubblica, proprio di questa scuola, si mostra utile (v. Balbo, 1976; v. Bianchi, 1981; v. Dalla Costa, 1983; v. Dalla Costa, 1985; v. Del Re, 1989 e 1991). Lo Stato sociale - dicono queste studiose - organizza previdenze e servizi in modo da incentivare la persistenza e la restaurazione dei ruoli familiari classici: alla donna si chiede di integrare le carenze del welfare estendendo il proprio ruolo di accudimento all'interno delle strutture pubbliche, di sostituirsi ai servizi sociali nei periodi di tagli alle spese, di mediare comunque tra burocrazia e famiglia, rendendo così possibile la fruizione dei servizi (v. Saraceno, 1976).
Le spiegazioni iperspecifiche sono già presenti nella teoria marxista, ma lì costituiscono solo una parte del quadro. Questo insieme di tesi, infatti, spiega la reclusione della donna nell'ambito familiare con il bisogno maschile di appropriarsi della funzione riproduttrice femminile. L'interdizione da tutte le più importanti attività extrafamiliari, l'imposizione della castità prematrimoniale e della monogamia postmatrimoniale discenderebbero tutte da questa esigenza. Si incontrano qui sia tesi psicologiche che tesi antropologiche. Ad esempio, Azizah Al-Hibri (v., 1981) ripercorre in chiave psicologica la storia del pensiero filosofico occidentale e nel farlo rintraccia il tentativo maschile di impossessarsi in modo esclusivo della produzione intellettuale e materiale. Questo monopolio maschile della produzione costituirebbe un sostituto del potere femminile di riproduzione; i maschi - secondo Al-Hibri - sfuggirebbero all'angoscia di morte partorendo prodotti materiali o mentali. L'autrice non spiega, però, il desiderio femminile di partorire anche prodotti e non solo figli. Inoltre, se la frustrazione da sterilità spiegasse la dominazione maschile, questa dovrebbe allentarsi nel momento in cui gli uomini scoprono di avere anch'essi un ruolo riproduttivo (v. Zumaglino, 1983). Al contrario, alcune ricerche mostrano che la dominazione maschile e la decadenza del matriarcato si possono far risalire e datare proprio alla conoscenza del ruolo del maschio nei processi riproduttivi (v. Figes, 1970): la consapevolezza del ruolo paterno spingerebbe a proteggere tale ruolo e a enfatizzarlo attraverso regole sociali. Questa tesi è stata a sua volta contestata in sede scientifica (v. Magli, 1978, p. 25). Infatti, anche prima di conoscere il proprio ruolo, i maschi controllavano tutte le più importanti posizioni di potere e cercavano di esorcizzare la facoltà femminile di generare, mimando con i riti iniziatici riservati ai giovani maschi la gravidanza e il parto; essi, inoltre, compensavano la supposta assenza di capacità procreativa con procedure di distacco delle giovani generazioni dalla madre e di appropriazione da parte dei maschi adulti (v. Mead, 1949). La conoscenza del proprio ruolo nella riproduzione consentì ai maschi di impossessarsi anche della discendenza, ma non fu né l'origine né il motore della subordinazione femminile; le società diventarono e sono tuttora patrilineari, ma erano già a dominazione maschile.
La scuola antropologica neomarxista ha offerto alla fine degli anni settanta, con il lavoro di Claude Meillassoux (v., 1977), un'ipotesi tra le più fertili. Qui si cerca di coniugare produzione e riproduzione, il cui intreccio è - a tutt'oggi - la principale e più fruttuosa chiave interpretativa delle relazioni di genere (v. § 2b). Alla radice della dominazione maschile sarebbe - come è tipico dell'interpretazione marxista - il modo di produzione. Il passaggio all'agricoltura rende redditizio un impiego cospicuo di forza lavoro stanziale: le sementi e i figli diventano così fattori cruciali di ricchezza. I maschi adulti, che possiedono le sementi, cercano di controllare le donne e i giovani maschi (la riproduzione e la forza lavoro). Studi successivi hanno contestato l'esito necessariamente patriarcale della produzione agricola, evidenziando come in alcune società si raggiunga al contrario un grande equilibrio di genere: sono le società matrifocali, quelle in cui le donne restano sul territorio e 'importano' uomini, controllando l'accesso alle cariche di comando affidate agli uomini (v. Reeves Sanday, 1981).
Il modello patriarcale sembrerebbe comunque decisamente prevalente per le sue maggiori capacità produttive e riproduttive. Il patriarcato, organizzando meglio il lavoro e la figliazione, dà luogo ad assetti sociali vincenti perché più prolifici e prosperi. Il modello è capace di persistere anche quando si supera la produzione agricola, perché l'economia domestica può coabitare con economie più avanzate ed essere, anzi, utile oggetto di 'succhiaggio di valore' da parte delle economie extradomestiche (v. Meillassoux, 1977). Tuttavia queste spiegazioni basate sulla convenienza non spiegano - a mio avviso - la dominanza. Il fatto che una regola giovi a un gruppo o all'intera società non spiega perché il gruppo o la società riescano a farla valere su di un gruppo, come quello femminile, non minoritario in termini numerici e cruciale in termini funzionali.
Non mi pare che venga una risposta a questo quesito da un'interpretazione psicologica pur complessa come quella di Ti-Grace Atkinson (v., 1974). Al fondo della psiche umana ci sarebbero - secondo questa autrice - uno squilibrio e un'incertezza. Lo squilibrio tra capacità mentali-ideative e capacità corporee-costruttive, cioè tra immaginazione e potere. L'incertezza riguarderebbe, invece, l'esistenza reale del sé come individuo e le sue capacità rispetto agli altri, quella che Ronald David Laing, nell'Io diviso, ha definito "insicurezza ontologica dell'io". Il dominio sugli altri colmerebbe, da una parte, il divario tra ideazione e realtà corporea (la capacità di azione viene moltiplicata facendo fare) e, dall'altra, fugherebbe le frustrazioni da inesistenza: se gli altri rispondono ai nostri ordini allora vuol dire che esistiamo e siamo forti. Ma il potere ultimo - secondo Atkinson - consiste nell'appropriarsi delle capacità ideative e costruttive altrui, della loro 'immaginazione costruttiva', del modo che gli altri hanno di concepire se stessi e il mondo, dei loro piani di azione. Attraverso questo processo, che Atkinson definisce di "cannibalismo metafisico", ci si appropria dell'identità della vittima. La divisione maschio-femmina dà inizio a quel sistema dei ruoli in cui alcune persone sono definite da altre e vivono in funzione di altre.Anche questa tesi non spiega però come si passi dalla convenienza, dalla pulsione a fare, alla capacità di fare. Piera Zumaglino (v., 1983) ha integrato questa tesi evidenziando il desiderio di farsi vittima: il dominio è possibile perché subirlo può essere rassicurante. L'abdicazione al volere autonomo e il lasciarsi guidare sarebbero modi - secondo Zumaglino - per sfuggire all'angoscia. L'autrice però vede nelle donne soltanto una prassi di oblatività, non una natura più propensa a farsi dominare. Dunque il quesito resta irrisolto: perché si instaura il dominio dell'uomo sulla donna e non viceversa? Secondo Atkinson gli uomini approfitterebbero della debolezza in cui le donne si trovano nella gestazione e nel parto. La ragione ultima andrebbe cercata nella specializzazione fisiologica.
È nella fragilità stessa del corpo femminile che si colloca il dominio. Mentre la storia dell'uomo - sostiene Shulamith Firestone (v., 1970) - è una storia di progressiva emancipazione da e di progressivo controllo su la natura - l'oppressione femminile risiede proprio nell'esclusione da questo processo. Alle radici del potere, della divisione del lavoro, della disuguaglianza sarebbe l'originaria dipendenza della donna dall'uomo, dipendenza dovuta ai parti frequenti e alla necessità di allattare i piccoli. Se ne trae la conclusione che "le femministe devono mettere in discussione non solo tutta la cultura occidentale, ma l'organizzazione stessa della cultura e, più avanti, l'organizzazione della natura" (ibid., p. 27). La via d'uscita dalla relazione 'malata' tra i sessi sarebbe in un'utopica rivoluzione sociale che dovrebbe costruire un'umanità androgina, liberata dalla gestazione e dall'handicap della maternità che genera squilibri di potere.Questa prospettiva è in netta antitesi con la strategia di rivalutazione del ruolo materno che si afferma alla fine degli anni ottanta. La dottrina oggi dominante considera con grande sospetto i rischi di mascolinizzazione. Essa vede nel distacco dall'affettività un carattere deleterio proprio della cultura maschile; nella separazione tra pubblico e privato il vizio d'origine del liberalismo patriarcale. Al distacco questa linea contrappone l'attaccamento emotivo; alla separazione la ricomposizione delle sfere di vita. Questa scuola premia il ruolo 'di cura' svolto dalla donna in quanto madre e lo propone come archetipo positivo di relazione sociale e di atteggiamento morale.
Le diverse prospettive maschili e femminili "si riflettono in due diverse ideologie morali, dal momento che la separazione è giustificata da un'etica dei diritti mentre l'attaccamento è consolidato da un'etica della cura. La moralità dei diritti si fonda sull'uguaglianza e si centra sulla correttezza, mentre l'etica della responsabilità si fonda sul concetto di equità e si centra sul riconoscimento di bisogni differenziati" (v. Gilligan, 1982, p. 164). Questa linea interpretativa imputa al liberalismo non solo l'assegnazione al maschio della sfera pubblica e alla donna della sfera privata, ma una ingiustificata scissione e una definizione errata delle due sfere (v. Pateman, 1988 e 1989). Quella pubblica sarebbe definita dal liberalismo patriarcale come sfera dell'universalismo, in cui si entra lasciando fuori i caratteri di sesso, classe, razza, età; la sfera privata sarebbe invece il luogo del particolarismo, in cui gli individui sono segnati dal tempo, dallo spazio, dai loro caratteri sociali, e qui risiederebbero le donne. Carol Pateman (v., 1989, p. 136) auspica invece "un ordine sociale differenziato in cui le varie dimensioni siano distinte, ma non separate o opposte, e che si fondi su una concezione sociale dell'individualità che includa gli uomini e le donne come creature biologicamente differenziate, ma non ineguali".
La sinistra radicale, rappresentata da studiose come Jean Elshtain (v., 1981), riprende invece l'ormai classico suggerimento di Michael Walzer di non trasferire le risorse di potere e le specializzazioni funzionali da una sfera all'altra della società, e consiglia quindi di non trasferire le relazioni riproduttive nella politica. Anne Phillips (v., 1991, pp. 160-161) critica, in apparente accordo con il femminismo mainstream la tesi della separazione. "Il femminismo deve contestare la separazione delle sfere" e deve mirare a una democratizzazione congiunta di tutte le sfere; ma la filosofa inglese inserisce poi un'importante distinzione: "Democrazia è quel progetto di equità che suggerisce la rilevanza dell'uguaglianza in ogni sfera dell'esistenza umana. Diventa fuorviante se nega ogni distinzione tra politica e vita quotidiana".
La presa teorica del pensiero materno, nonostante le perplessità che suscita, è forte perché si iscrive nella più generale ricerca di un'identità femminile diversa e migliore rispetto a quella maschile. Un'identità che si vuole porre a fondamento delle rivendicazioni femministe. Questa ricerca di identità ha condotto a posizioni estreme e a posizioni, come quelle prima illustrate, più sensate. Secondo le estremiste alla diversità biologica tra i sessi corrisponderebbe una diversità di categorie logiche: le menti femminili negherebbero, ad esempio, il principio di non contraddizione (v. Irigaray, 1974 e 1977). Il massimo del moderatismo nelle tesi della diversità lo mostrano le teoriche del 'vissuto' o dell'experience (v. De Lauretis, 1984). Secondo costoro, ad accomunare le donne, a dar loro un'identità sarebbero non differenze psicofisiche, ma comuni esperienze di vita. Anche questa tesi convince poco (v. Scott, 1992). Non esistono 'vissuti' collettivi univoci. Anche se con ciò si intendesse l'aver sperimentato fatti oggettivi - trattamenti ingiusti, oltraggiosi o violenti, giudizi stereotipati denigratori e offensivi - l'insieme di queste esperienze non costituirebbe un 'vissuto comune'; gli stessi fatti possono essere percepiti e interpretati individualmente e collettivamente in modo assai diverso. Essi possono costituire materia prima per un'identità politica solo se vengono letti, percepiti e ricondotti a un'oppressione comune attraverso la costituzione di un apparato interpretativo e di un'agenzia politica (v. Zincone, 1985 e 1992). Come ha notato Joan Scott (v., 1992, p. 25), dietro il termine elusivo di 'esperienza' si nasconde il desiderio di 'rifondare' in modo realistico la differenza: "L'evidenza della differenza diventa allora evidenza della differenza come fatto, piuttosto che un modo per indagare come la differenza si è instaurata e opera". E qualunque tentativo di fondare un'identità sui fatti non sfugge all'essenzialismo (ibid.), a meno che non sia un tentativo deliberatamente programmato e politico (v. Zincone, 1992). Non si può surrogare l'azione politica necessaria a costruire un'identità politica, perché - come osserva Jane Flax (v., 1987) - nulla unifica le donne. "Non c'è nessuna forza o realtà 'esterna' alle nostre relazioni e attività sociali (ad esempio la storia, la ragione, il progresso, la scienza, qualche entità trascendente) che possa sottrarci alla parzialità e alla differenziazione interna".
I fattori capaci di liberare le donne da una condizione di subordinazione sono impliciti nelle ipotesi sulle origini della disuguaglianza (v. § 3a), e, in buona misura, sono già presenti nelle descrizioni del fenomeno (v. § 2d). Possiamo provare, comunque, a riassumerli. Da una parte abbiamo le matrici culturali, dall'altra le radici materiali. La costruzione dei ruoli può essere percepita come costrizione (v. Zincone, 1978) in quanto sia possibile cogliere il carattere non naturale e univoco delle relazioni sociali, dei valori e delle credenze. Il radicarsi di discipline come l'antropologia culturale, la psicologia o la psicanalisi - a prescindere dal conformismo dei singoli studi in materia di genere - ha offerto un importante strumento di autoriflessione sui ruoli e sulle identità sociali. Le ideologie liberali, fiduciose nelle capacità individuali, e quelle democratiche, fondate sul principio di uguaglianza, hanno fornito - al di là del loro specifico rafforzamento delle discriminazioni di genere (v. § 2c) - scopi significativi ai movimenti delle donne. Olympe de Gouges, autrice della Déclaration des droits des femmes et des citoyennes, è vittima ma anche figlia della Rivoluzione francese. Ugualmente, il libro di Mary Wollstonecraft, Vindication of the rights of woman, pubblicato nel 1792, si colloca, seppure in forma polemica, all'interno del pensiero democratico. Il femminismo può nutrirsi delle incoerenze liberali e democratiche, e poi di quelle socialiste.
Sempre restando ai fattori culturali, i processi di secolarizzazione riducono il peso della dottrina sociale della Chiesa, a lungo impregnata di una visione tradizionale della natura femminile e dei ruoli di genere. Più in generale, i processi di modernizzazione sono di supporto all'emancipazione femminile. E qui passiamo alle radici materiali dell'emancipazione. Sebbene non immediatamente, la produzione industriale consente alla donna di percepire un reddito e la fa uscire dall'ambito familiare. Lo stesso ruolo delle donne nel management delle imprese familiari industriali crea una contraddizione tra responsabilità assunte e diritti assenti (v. Tilly, 1992). Un altro rilevante elemento di liberazione consiste nella conoscenza delle tecniche anticoncezionali. In tal modo non solo si riduce il numero delle gravidanze, ma viene ristretto il periodo della riproduzione. A questi fattori, che possiamo definire come esogeni ai sistemi politici, si accompagnano importanti fattori endogeni: politiche pubbliche favorevoli e movimenti femministi. Naturalmente i fattori esogeni e quelli endogeni sono fortemente connessi, così come è stretto il legame tra politiche pubbliche favorevoli alle donne e presenza di organizzazioni e di movimenti femministi. Ad esempio, l'istruzione gratuita e obbligatoria anche per le donne e l'apertura di tutti i gradi e i tipi di istruzione superiore qualificano la forza lavoro femminile e rendono più conveniente per le donne uscire dalla famiglia, offrirsi sul mercato, diventare economicamente autonome (v. Del Boca, 1988). Inoltre esse mettono a disposizione donne colte, potenziali quadri per le organizzazioni femministe e per la politica in genere. Le politiche pubbliche possono quindi essere osservate sia come l'esito che come la spinta del mutamento.
L'antropologia ha cercato di rintracciare le origini della subordinazione femminile. La storia della famiglia e del lavoro si è interrogata sulla capacità dell'industrializzazione di rompere l'unità famiglia-lavoro e di liberare quindi le donne in quanto individui. La storia del pensiero politico e quella delle istituzioni hanno discusso criticamente i modi in cui le teorie e le esperienze giuridiche, sia liberali che democratiche, hanno trattato le donne. Filosofia e psicologia hanno pensato ai fondamenti, ai rischi e alle promesse di un'identità femminile. Sociologia, economia e politologia hanno cercato di capire le forme e le ragioni della segmentazione verticale e orizzontale dell'attività femminile. Più o meno nutrite da queste riflessioni, le politiche pubbliche si sono mosse e continuano a operare.
L'azione politica di emancipazione si può interpretare come lo smantellamento di tre processi: reclusione nella famiglia, esclusione dal lavoro, sottomissione con la violenza. Il primo consiste nell'espropriazione della procreazione, nella chiusura nella famiglia e nella subordinazione al suo interno. Il secondo consiste nell'esclusione da una serie di attività e nella subordinazione in altre. Il terzo consiste nella diffusione di pratiche di molestia e violenza sessuale e di maltrattamenti fisici.
Nella rottura del primo blocco si includono la legalizzazione dell'uso e della pubblicità di metodi anticoncezionali, la depenalizzazione dell'aborto e la decisione ultima su questo punto affidata alle donne, una maggiore uguaglianza tra i coniugi per quanto concerne i diritti sui figli e sul patrimonio comune, la parità rispetto alla fissazione del domicilio e alla possibilità di divorziare e di separarsi. Nella rottura del secondo blocco si includono la fine dei divieti o dei contingentamenti per quanto riguarda l'accesso a vari gradi e tipi di istruzione, a professioni, a mestieri. In questo blocco si inseriscono anche le politiche di quote riservate alle donne e quelle di parità salariale. Nel terzo blocco vanno inclusi i primi tentativi di penalizzare la violenza carnale all'interno del matrimonio, prassi giudiziali più severe nei confronti degli stupratori, il finanziamento pubblico di case-rifugio per le mogli picchiate e i loro figli.
Alla persistente discrepanza tra forma e sostanza del processo di emancipazione, tra diritti e posizioni sociali si è cercato di rimediare, soprattutto dagli anni settanta in poi, con vari strumenti giuridici: la riserva di posti, un ampliamento del concetto di parità salariale, il divieto di discriminazione. La riserva di posti o quota system è stata introdotta sia nell'istruzione superiore che nella pubblica amministrazione, specie negli Stati Uniti, e con decisione autonoma da partiti e sindacati anche in Europa. Una risoluzione del Parlamento europeo (1988, n. 2169) ha invitato le organizzazioni politiche a riservare posti alle donne negli organismi direttivi e nelle liste. Essa ha trovato però resistenze politiche perché sembra scontrarsi con principî di equità e con interessi consolidati, e ha suscitato perplessità giuridiche perché sembra contrastare con il principio dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Con la riforma elettorale locale (legge n. 81 del 25 marzo 1993) in Italia è stato introdotto l'obbligo di non mettere nelle liste più di 2/3 dei candidati dello stesso sesso, ma nelle successive elezioni la legge non è, di fatto, stata applicata. Altrettanto incerto è stato il successo delle strategie antidiscriminatorie. In base al principio di non discriminazione non è sufficiente che una carriera sia formalmente aperta alle donne, occorre che i datori di lavoro non favoriscano l'assunzione di uomini. Negli anni settanta molti paesi occidentali hanno introdotto leggi dirette a evitare le discriminazioni nelle assunzioni e nelle carriere: questa è - tra l'altro - una parte cospicua della legislazione sociale della Comunità Europea (v. Guadagnini e Porro, 1988), per altri versi assai esile. In Italia due norme (la legge n. 125 del 4 aprile 1991, Azioni positive per la parità uomo-donna nel lavoro, e la legge n. 215 del 25 febbraio 1992, Azioni positive per l'imprenditoria femminile) hanno cercato di costringere imprenditori e attori pubblici ad attivarsi. Negli Stati Uniti il divieto di discriminare è garantito dal titolo VII del Civil right act.
Le corti, tuttavia, sembrano ancora ispirate - nel migliore dei casi - alla cultura liberale, secondo la quale, oggi come ieri, la sfera pubblica del diritto deve registrare quello che la società civile produce 'spontaneamente'. Questo ha fatto sì, ad esempio, che in circa la metà dei casi sollevati negli Stati Uniti, tra il 1972 e il 1989, i giudici abbiano accettato la posizione dei datori di lavoro che motivavano la scarsa presenza di donne in posizioni chiave con la mancanza di interesse delle donne a ottenere quelle posizioni. Al contrario, e già prima di questa data, le corti avevano accettato a proposito delle minoranze di colore la tesi della 'futility', della inutilità di candidarsi a posizioni di prestigio quando si sa di non farcela: noi diremmo la tesi dello scoraggiamento dei gruppi discriminati (v. Schulz, 1992). Da tale ipotesi discende l'obbligo del datore di lavoro di attivarsi per contrastare lo scoraggiamento delle minoranze. Questa linea nega o vuole scavalcare un'evidenza e cioè che le donne si offrono in modo diverso sul mercato del lavoro. È quello che ha osservato anche Pippa Norris (v., 1987) a proposito del mercato politico: l'ostacolo alla parità non viene tanto dalla discriminazione di chi seleziona i candidati, né dagli elettori, quanto dall'offerta o, meglio, dalla scarsità dell'offerta femminile. Da queste considerazioni scaturiscono proposte di riorganizzare la vita sociale, lavorativa e politica in modo da renderla compatibile con le funzioni di riproduzione e di cura (v. Zincone, 1985; v. Hernes, 1985). Da qui deriva l'idea di politica sobria, di società amica delle donne. In tali convinzioni si radicano le proposte pratiche di 'leggi sui tempi', che riguardano sia il coordinamento tra orari di lavoro e orari dei servizi e dei negozi, sia i cicli di vita e la possibilità di una scansione meno rigida delle fasi in cui si studia, si lavora, si dedica tempo alla famiglia.Un bilancio obiettivo dell'emancipazione deve tener conto di una straordinaria acquisizione di diritti e di una meno straordinaria, ma cospicua, acquisizione di posizioni sociali da parte delle donne nell'ultimo secolo. È piuttosto sulla violenza sessuale e fisica che i passi avanti appaiono stentati. Inoltre, la ricostruzione qui fatta dell'emancipazione femminile trae il suo ottimismo da una pesante omissione: quella di molti paesi del Terzo Mondo. Agli inizi del 1993, per la prima volta, una democrazia occidentale, l'Austria, concede asilo politico a una donna musulmana sulla base del fatto che nel paese d'origine le vengono negati, per il suo sesso, diritti elementari. È possibile che la negazione dei diritti delle donne a livello internazionale e l'uso persistente della violenza sessuale, fisica e verbale contro le donne nelle nostre democrazie diventino temi politici cruciali. È possibile che si verifichi un serio impegno per riorganizzare le nostre società in modo da renderle compatibili con le attività di riproduzione e di cura. È possibile, ma è incerto. Da questa incerta possibilità dipende il futuro del processo di emancipazione femminile. (V. anche Femminismo).
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