EMBLEMA (ἔμβλημα o ἐμβεβλημένα)
Originariamente viene così definito qualsiasi oggetto lavorato, inserito in uno più grande e di diversa maniera (da ἐμβάλλω = lat. conicio, insero).
Il termine, dapprima generico con larga accezione per l'agricoltura (Poll., i, 241: ἐμβολάς), la meccanica (e. indica il puntale, rivestito di ferro, dell'asta del pilum: (Plut., Mar., 25) e l'artigianato (Philon, Mechan., v, 102, ed. Schoene) diviene specifico termine tecnico-artistico nel periodo romano per indicare l'opera di composizione di mosaico con le pietruzze inserite nello strato di preparazione.
1. - L'uso del termine e. per la tecnica del mosaico è attestato da due passi di Varrone e di Cicerone. Varrone (De re rustica, iii, 2, 4) riferisce chiaramente la voce di una varietà di pavimento (num quod emblema aut lithostrotum?); Cicerone (Orator, 43-44) cita un verso delle Satire di Lucilio (ii, framm. 56, ed. Bährens) nel quale si paragonano le orazioni elegantemente preparate ai tasselli inseriti con fine magistero nel quadro musivo (arte pavimenti atque emblemate vermiculato); il verso è riportato anche da Plinio (Nat. hist., xxxvi, 185). Ancora Cicerone (Brutus, 79) a proposito delle proprietà e armonie del linguaggio si serve del confronto con la esecuzione dell'e. musivo.
Le scarse notizie sulla tradizione ellenistica del mosaico, ad esempio gli accenni che si trovano presso Ateneo (v, p. 206 E, 207; xii, p. 154 D; Overbeck, Schriftquellen, n. 1985, 1261), non fanno menzione del termine, ma dalla descrizione di alcuni mosaici (ad esempio quelli di soggetto iliaco della nave di Ierone) si può pensare che gli e. siano stati usati sin dal III sec. anche sotto forma di decorazione parietale.
L'e. è una lastra di marmo o un tegolone sul quale, dopo averlo isolato con uno strato oleoso, si distende un letto di stucco. La massa di questo viene raffrenata dalle pareti di una cassa di contenimento che ne impedisce la fuoruscita. Su questa si disegnava col gesso la figurazione che veniva eseguita componendo le tessere.
La differenza tra l'e. e la comune decorazione in mosaico consiste nel fatto che il primo, generalmente in tessere minute e spesso sagomate, con complessa policromia gareggiante con la pittura, era eseguito a bottega ed inserito solo in un secondo momento nell'ambiente da decorare, generalmente al centro di un pavimento, circondato da un mosaico di qualità più modesta eseguito invece necessariamente sul posto (analogamente a quanto avveniva per alcune pitture pompeiane, eseguite anch'esse in bottega, ed inserite nelle pareti delle case).
Tale caratteristica artigiana ci impedisce di considerare, almeno nella grande maggioranza dei casi, gli emblemata come necessariamente eseguiti nel luogo e nella città dove sono stati ritrovati. Generalmente di piccole proporzioni, essi raggiungono a volte misure molto notevoli, il più grande è senza dubbio il mosaico di Alessandro della Casa del Fauno a Pompei, certamente importato (come dimostra l'imperizia di alcuni restauri eseguiti nella città, forse in seguito ai danni subiti durante il terremoto del 63 d. C.).
Allo stato attuale degli studî non si conosce con esattezza il centro di produzione degli emblemata (rinvenuti in un'area molto estesa: Delo, Tolemaide, Leptis Magna, Agrigento, Roma, Ostia, Tivoli, Pompei, Chiusi, ecc.), né l'inizio della produzione.
Le più antiche composizioni (mosaico di Alessandro, mosaico di Dioscuride, fine del II sec. a. C.) ripetono motivi della grande pittura della fine del IV, principio del III sec. e testimoniano l'intenzione di rappresentare in un materiale durevole quadri di grande fama. Nell'e. infatti il mastice è dipinto dello stesso colore delle pietre circostanti; si cerca cioè di nascondere il procedimento tecnico della giustapposizione delle pietruzze per avvicinarsi quanto più è possibile all'impressione di una pittura da cavalletto.
Il luogo dove tale tecnica è sviluppata non è ancora conosciuto, forse in diversi centri culturali del mondo ellenistico si arrivò a tale risultato. Il richiamo delle composizioni più antiche a iconografie pergamene (o micro-asiatiche) e alessandrine (le fonti ci parlano dell'origine asiatica e alessandrina del mosaico), può far pensare ad una origine degli e. in quei centri culturali.
Gli esemplari più antichi di e. (tra i più notevoli quelli della Casa del Fauno a Pompei) mostrano una notevole aderenza alle composizioni dalle quali derivano (repertorio iliaco, di scene di genere, di paesaggio marino, bucolico); aderenza che si va allentando durante il I sec. a. C. e il I-II d. C., quando il repertorio si adatta sempre più alle caratteristiche tecniche del mosaico (si perde, ad esempio, l'uso di dipingere lo stucco del colore delle tessere circostanti) per essere poi elaborato completamente secondo le norme stilistiche dell'età romana, perdendo quasi del tutto di vista le composizioni originali (benché gli emblemata, nell'insieme, siano più conservatori delle bordure a mosaico).
Un esame dei tre mosaici (uno da Pompei e due di Roma) con un gatto che assale un gallinaceo, derivati da un originale comune, mostra come lentamente si vadano perdendo le caratteristiche dell'archetipo. Con l'età imperiale gli emblemata divengono a volte più di uno nei pavimenti (Villa Adriana), a volte sono inseriti in campo di opus sectile (Zliten). L'ammirazione destata nel mondo antico dagli emblemata ne favorì spesso l'imitazione nelle composizioni musive con quadretti che dei primi riprendono la composizione generale, ma che sono eseguiti in situ, con la stessa tecnica (meno fine) e le stesse caratteristiche del mosaico decorativo circostante.
2. - Una seconda accezione del termine ἔμβλημα è quella che lo definisce come un pezzo di metallo nobile scolpito ad alto e a basso rilievo, incastrato sul fondo interno delle coppe d'argento (Plin., Nat. hist., xxxiii, 127 ss. e 154 ss.). Questi "pezzi" (dei quali conosciamo esempî quali la Minerva del Tesoro di Hildesheim, le coppe di Boscoreale con il busto dell'Africa ed i busti-ritratto), erano eseguiti parte, a sbalzo spesso dorato, ritoccati a cesello e poi applicati sul fondo delle grandi ϕιάλαι (cfr. Iuven., i, 76). Si stabiliva così un'organizzazione del lavoro per la quale si distingueva l'artefice che lavorava o fondeva il vaso (artifex vascularius) dal caelator o argentarius anaglyptarius (C. I. L., vi, 2243, 9222; cfr. De Ruggiero, Diz. Epigr., s. v.).
Cicerone nelle Verrine fornisce al riguardo le più ampie notizie (In Verr., iv, 52).
La predilezione per tali "pezzi" portava a curarne, oltre che la raccolta, anche il restauro o la doratura, oltre il riporto dei pezzi aurei sul vaso di argento (auro inluminare: C. I. L., viii, 6982). I vasi così composti erano anche detti chrysendeta (Martial., xiv, 97; ii, 43, 11; vi, 94); il termine si trova già in Filemone, (Fragm., 70, ii, 496, ed. Koch: στάϑην παραϕαίνων δηλαδὴ χρυσένδετον). Emblemata staccati dal loro insieme sono stati talora considerati come oggetti a sé stanti (i cosiddetti disci).
Contro questa predilezione per gli emblemata, degenerata in mania, Tiberio emanò editti che ne limitavano l'impiego al solo uso rituale.
L'origine di tale tecnica è da riportarsi con ogni probabilità all'Egitto tolemaico dal quale proviene un numero molto notevole di emblemata di gesso, calchi dagli originali di argento, databili sin dall'inizio dell'età ellenistica (v. toreutica; alessandrina, arte). Progressivamente la parola emblema fu sostituita da altri termini latini, sigillum (Cicer., In Verr. II, iv, 32), caelatura, crusta. Peraltro le crustae, lamine a bassorilievo, eseguite a sbalzo o a cesello, applicate sulle superfici esterne dei vasi, sugli orli anche in funzione di fregi, sono da considerarsi diverse e distinte dagli emblemata, come attesta anche il citato passo delle Verrine (iv, 52): crustae aut emblemata detrahebantur.
3. - Infine come emblemata si trovano citate anche pietre nobili e materiale prezioso (cfr. διάλιϑα o λιϑοκόλληϑα ἐκπώματα di Menandro: Fragm., 503, ed. Koch; cfr. Pollux, x, 187; cfr. la gemmeam suppellectilem di Seneca, ad Luc., xix, 1, 12, e Plinio, Nat. hist., xxxiii, 5: turba gemmarum potamus et smaragdis teximus calices).
Alcune gemme a noi pervenute, anche di modulo superiore a quello degli anelli, devono aver servito da e. a vasi di metallo nobile (Furtwängler, Gemmen, Tav. xxv, 4, 23; xxi, 1, 3; xxii, 15 ss.; xxiv, 3, 25 e altrove: cfr. anche Corp. Gloss. Lat., ii, 32 gemma, λιϑάριον, ψηϕίον, ἔμβλημα; Iuv., Sat., v, 43).
Bibl.: Si veda la bib. citata alle voci mosaico e toreutica. Per orientamento: O. Rossbach, in Pauly-Wissowa, V, 1905, c. 2487, s. v.; D. Levi, Antioch Mosaic Pavements, Princeton 1947, p. 2 ss., e passim (con bibl. prec.).