embrione
Embrioni umani pre-impianto
Dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, cioè dal giorno in cui è avvenuta la prima fecondazione in vitro di un ovocita umano seguita da una gravidanza a termine, i primi stadi di sviluppo dell’embrione hanno assunto un’importanza particolare, perché il loro studio e quello delle modalità della loro crescita in provetta permettono di ottimizzare l’obiettivo principale, cioè la possibilità di ottenere la nascita di un bambino vivo e vitale.
Esistono due modi per valutare le qualità (ossia, indirettamente, la sua capacità di svilupparsi fino a feto a termine) di un embrione allo stadio pre-impianto. La prima è di tipo morfologico-osservazionale, da effettuare sia sull’ovocita sia, successivamente, sull’embrione. La valutazione morfologica non è invasiva, è eseguita secondo criteri di valutazione ben definiti e dà buoni risultati, nel senso che è correlata alle probabilità di ottenere la gravidanza. In generale, la procedura consiste nell’osservare al microscopio a scansione un singolo ovocita o un embrione e di assegnargli un punteggio di qualità. La seconda modalità consiste nel valutare direttamente il patrimonio genetico dell’embrione attraverso l’aspirazione e l’analisi di una delle cellule (embrioblasti) che lo compongono. Questo è possibile perché nei primi giorni di sviluppo tutti gli embrioblasti, mentre da un lato iniziano a indirizzarsi verso funzioni diverse, dall’altro mantengono la loro iniziale totipotenzialità; pertanto l’asportazione di una di queste cellule non ha conseguenze sullo sviluppo futuro dell’embrione. Questa metodologia, chiamata diagnosi genetica pre-impianto (PGD, Preimplantation Genetic Diagnosis), è stata criticata sotto il profilo etico perché tendenzialmente porta a una selezione artificiale di embrioni con particolari qualità, eliminando tutti quelli che, in qualche modo, si rivelino ‘difettosi’. Al tempo stesso questa metodica, in caso di genitori portatori di geni che provocano gravi malattie o disabilità, permette di selezionare embrioni privi dei geni alterati, portando alla nascita di un individuo sano.
La legislazione italiana vigente (l. 19 febbr. 2004, n. 40) non permette questo tipo di selezione genetica perché la considera discriminatoria. Va tuttavia osservato che la PGD non produce di per sé discriminazioni nel senso di selezionare i ‘sani’; infatti è noto che, con l’età, la qualità degli embrioni (ottenuti mediante fertilizzazione naturale o in vitro) peggiora e, oltre i 40 anni, le probabilità che un embrione sia perfettamente normale sono considerevolmente diminuite. Ciò è essenzialmente dovuto al fatto che gli ovociti esistono tutti già alla nascita e invecchiano con la donna. Oltre a molte alterazioni difficilmente identificabili, se non con una ricerca mirata, esistono anomalie gravissime e incompatibili con la vita (aneuploidia, poliploidia) e un embrione portatore di queste anomalie non può proseguire il suo percorso vitale. Identificare questi embrioni e non trasferirli non costituisce quindi una discriminazione mentre, al tempo stesso, permette di aumentare le probabilità di ottenere una gravidanza a termine. Recentemente l’utilità della PGD come metodo di screening oltre i 40 anni è stata posta fortemente in dubbio. Nel dibattito bioetico c’è chi sostiene che ai futuri genitori deve essere garantita una ‘totale libertà procreativa’ (scelta del sesso e di ogni altra qualità possibile allo stato attuale delle conoscenze scientifiche). L’argomento opposto sottolinea invece il fatto che – anche a causa degli eccessi gravissimi che sono già avvenuti nella storia – non deve essere permessa alcuna scelta tra i diversi embrioni prodotti.Un particolare tipo di PGD è quella resa possibile dall’analisi dei cosiddetti corpi polari, che possono essere definiti come sottoprodotti delle due divisioni meiotiche. Si evita così di manipolare l’embrione e si ottiene l’informazione genetica utile per valutare la qualità dell’ovocita da cellule che in ogni caso vanno perdute.
Nella grande maggioranza dei casi, le tecniche di fecondazione in vitro implicano la cosiddetta iperstimolazione controllata, cioè lo sviluppo contemporaneo di un gran numero di follicoli che, aspirati, porteranno a ottenere un numero di ovociti decisamente superiore a quello degli embrioni che potranno poi essere trasferiti nell’utero della donna, se si vuole evitare l’instaurarsi di una gravidanza multipla che, per sua natura, è gravata da maggiori rischi. In questa situazione si può procedere alla fecondazione del massimo numero di ovociti disponibili, scegliere gli embrioni che morfologicamente appaiono come i ‘migliori’ e trasferirne 1, 2 o 3 congelando poi gli altri allo scopo di utilizzarli per semplificare i tentativi successivi. Il congelamento degli embrioni è una tecnica che, a differenza del congelamento degli ovociti non fecondati, è stata applicata e convalidata negli anni. Il procedimento consiste nel congelare e conservare gli embrioni in azoto liquido. Questa tecnica è proibita dall’attuale legislazione italiana, che non consente di fecondare più di 3 ovociti. L’ostacolo legale al congelamento degli embrioni può essere evitato procedendo direttamente al congelamento dell’ovocita. Per anni questa procedura ha dato risultati deludenti perché il congelamento lento produce una cristallizzazione intra- ed extra-cellulare che danneggia la cellula uovo. In tempi più recenti però è stata messa a punto una procedura (vitrificazione) che, al contrario della tecnica classica, permette un rapido congelamento dell’ovocita. Questa tecnica, perfettamente legittima anche per la legislazione italiana, dà risultati molto incoraggianti ed è destinata, se non a soppiantare, almeno a diminuire la necessità di congelare embrioni. I dati (2009) mostrano infatti una percentuale di gravidanze praticamente sovrapponibile a quella ottenuta con ovociti freschi.