emigrazione e immigrazione
Alla ricerca di una vita migliore
Nel corso delle sua storia la specie umana è riuscita non solo a sopravvivere, ma anche a moltiplicarsi, grazie alla sua capacità di modificare l'ambiente in cui viveva per aumentarne le risorse. Quando questo non era possibile, oppure quando la sopravvivenza era messa in pericolo da catastrofi ambientali, carestie e guerre, l'uomo è stato in grado, spostandosi, di trovare altrove condizioni di vita più favorevoli. L'umanità, dunque, non diversamente da tante specie animali, è migrante per natura. Nei secoli passati la spinta più forte a emigrare veniva dalla frequente rottura dell'equilibrio tra dimensione demografica e capacità della terra di fornire il necessario sostentamento. Oggi invece i movimenti migratori hanno cause molto più complesse
La dipendenza quasi totale dalle risorse alimentari, che in Europa è durata fino alla rivoluzione industriale ed è ancora oggi presente nei paesi più poveri, ha dato vita periodicamente a correnti migratorie provenienti dalle campagne e dirette verso le città.
Le tecniche agricole, infatti, erano arretrate e non era possibile adeguare la produzione agricola locale al numero più elevato di bocche da sfamare. Gli uomini cercavano allora lavoro in città come apprendisti nelle imprese industriali o nelle botteghe artigiane, le donne nella manifattura tessile o come domestiche nelle famiglie più ricche. Queste correnti emigratorie sono state molto importanti soprattutto nei secoli 16° e 17° e grazie a esse sono cresciute le grande capitali europee dell'epoca, come Londra, Parigi, Roma e Vienna.
Oltre a questi spostamenti di breve raggio, erano frequenti le emigrazioni verso zone bonificate, come avvenne in Olanda nella prima metà del Seicento quando i nuovi terreni strappati al mare attirarono popolazione anche dalla Germania. Altri spostamenti di popolazioni si verificavano quando alcune terre venivano conquistate o rioccupate dopo una guerra vittoriosa. È il caso, per esempio, dell'Ungheria, che organizzò nel 18° secolo piani di ripopolamento dei territori strappati ai Turchi. Sempre nel corso dello stesso secolo numerose persone provenienti dalla Polonia e dalla Russia si trasferirono in alcune aree dell'Ucraina rimaste per secoli spopolate a causa delle guerre.
Nel periodo che va dalla scoperta dell'America all'inizio della rivoluzione industriale non sono trascurabili le emigrazioni fuori dal continente europeo, dirette verso l'Asia e soprattutto verso il continente americano. Alla fine del Settecento questo continente contava a nord, circa 4,5 milioni di immigrati di origine europea e a sud una cifra di poco inferiore. Si arrivava a circa 8 milioni di europei, che rappresentavano un terzo di tutta la popolazione del Nuovo Mondo. Ad alimentare questa forte corrente migratoria erano stati nel Cinquecento e nel Seicento soprattutto gli Spagnoli e i Portoghesi, che si erano diretti verso l'America Meridionale, e successivamente i Britannici, con direzione America Settentrionale.
Nell'arco dei quasi cento anni che vanno dal 1821 al 1915 dall'Europa partono 48 milioni di persone, dirette soprattutto verso il continente americano, poche delle quali rimpatrieranno. Le cause di questo grande esodo sono soprattutto economiche. Alla fine del Settecento l'Europa, con una economia ancora prevalentemente agricola, contava già 160 milioni di abitanti ed era in forte crescita perché la mortalità stava diminuendo grazie alla scomparsa delle catastrofiche epidemie di peste, al miglioramento dell'alimentazione e delle condizioni igieniche, ai progressi della medicina. L'aumento di popolazione esercitava perciò una pressione crescente sulle risorse economiche e in altri tempi avrebbe causato rivolte contadine e carestie. Diversamente dal passato, però, c'era al di là dell'Atlantico un continente in grande espansione economica, che aveva bisogno di lavoratori per completare la sua crescita. La tabella in alto mette in evidenza le destinazioni più importanti.
Gli Stati Uniti sono la destinazione preferita: nel corso di tutto il periodo considerato accolgono più di 29 milioni di europei (circa il 60% di tutta la corrente emigratoria ottocentesca). Il gruppo più numeroso di emigranti viene dalla Gran Bretagna e dall'Irlanda (oltre 8 milioni), ma sono molto consistenti anche le correnti provenienti dalla Germania, dall'Italia e dall'Impero austro-ungarico.
Argentina e Brasile diventano invece mete importanti per l'emigrazione europea a partire dalla seconda metà dell'Ottocento.
Verso il primo paese si dirigono circa 4 milioni e mezzo di emigranti (metà dei quali sono Italiani), verso il secondo poco più di 3 milioni (gli Italiani rappresentano oltre un terzo). Altre destinazioni rilevanti sono il Canada e l'Australia, che accolgono ‒ rispettivamente ‒ 3,8 e 2,7 milioni di europei, provenienti, per comunanza di lingua e di cultura, soprattutto dalle isole britanniche.
Nell'ultimo ventennio dell'Ottocento l'emigrazione dai paesi dell'Europa occidentale inizia a diminuire perché migliorano al loro interno le prospettive di lavoro. Cresce, invece, il numero di emigranti dall'Europa meridionale e in particolare dall'Italia. Dal 1876 fino alla vigilia della Prima guerra mondiale si contano quasi 14 milioni di espatri di Italiani. Alcuni partono e rientrano più volte, altri (quasi 5 milioni) restano definitivamente all'estero. La perdita è enorme, se si pensa che la popolazione italiana, all'inizio del 20° secolo, superava di poco i 33 milioni. Le cause di questo esodo sono economiche. L'Italia era all'epoca un paese prevalentemente agricolo e questo settore dell'economia era entrato in crisi nell'ultimo ventennio dell'Ottocento, anche perché si puntava sul settore industriale per promuovere la crescita economica.
Ma gli emigranti italiani di questo periodo non sono andati solo oltre oceano: poco meno della metà, infatti, si sono diretti verso i paesi europei più industrializzati, che erano in grado di offrire lavoro. La destinazione europea è stata prevalente per le popolazioni dell'Italia settentrionale, mentre gli emigranti provenienti dal Mezzogiorno si sono diretti quasi esclusivamente (per oltre il 90%) verso i paesi oltre oceano, in particolare Stati Uniti, Argentina e Brasile.
Questa emigrazione di massa consentì di alleviare la povertà delle campagne italiane e contribuì a far crescere l'economia nazionale, perché gli emigranti, a prezzo di grandi sacrifici, inviavano a casa i loro risparmi (le rimesse).
Oltre ai movimenti migratori causati dalla ricerca di migliori opportunità, sono molto importanti quelli provocati dalle vicende politiche e dall'intolleranza religiosa. Nei secoli passati, per quanto riguarda l'Europa, ne sono un esempio le espulsioni dalla Spagna (dopo la riconquista dei regni cattolici) degli ebrei e dei moriscos (popolazione musulmana che viveva in quel paese). Nel 1492, ben 90 mila ebrei dovettero abbandonare la Spagna per non aver accettato la conversione forzata al cattolicesimo. Sempre in quegli anni inizia la persecuzione dei moriscos, che si concluderà nel 1609, quando un altro editto sancirà la loro totale espulsione e oltre 300 mila persone (il 5% dell'intera popolazione dell'epoca) dovranno lasciare il paese, diretti soprattutto verso il Nord Africa.
L'intolleranza religiosa ha provocato in quei secoli altre ondate emigratorie, delle quali però è difficile misurare la portata. Tra le più intense si ricorda quella degli ugonotti, calvinisti francesi in lotta con i cattolici. Dopo la revoca dell'editto di Nantes (1685) che aveva garantito loro per quasi un secolo la libertà di religione, circa 150 mila scelsero la via dell'esilio, soprattutto in Svizzera e Inghilterra.
L'emigrazione forzata per eccellenza è la tratta degli schiavi, un vergognoso commercio di uomini che dalla metà del Cinquecento fino alla metà dell'Ottocento raggiunse dimensioni gigantesche. Si valuta che, nell'arco di questi tre secoli, dall'Africa Nera siano stati prelevati a forza decine di milioni di uomini, donne e bambini, poi trasportati in condizioni disumane nel continente americano per essere venduti come schiavi nelle grandi piantagioni. Le traversate dell'Oceano Atlantico, durante le quali moriva oltre il 20% dei deportati, furono migliaia. A questo turpe commercio presero parte le maggiori potenze europee, con in testa il Portogallo, che effettuò circa 30 mila traversate, seguito dall'Inghilterra che ne fece 12 mila.
La disumanità del traffico provocò sia in Europa sia in America grandi campagne per la sua abolizione e la schiavitù fu abolita dovunque nel corso del 19° secolo (gli ultimi Stati a spezzare le catene degli schiavi furono il Brasile e Cuba nel 1888). Infine, nel 1926, la Società delle Nazioni deliberò la fine della tratta e dello schiavismo in tutto il mondo.
La Prima guerra mondiale e poi le politiche di contenimento dell'immigrazione dei paesi di destinazione posero fine alla grande ondata migratoria ottocentesca proveniente dall'Europa. Ci fu una breve ripresa dell'emigrazione transoceanica dopo la Seconda guerra mondiale, ma interessò soprattutto i familiari degli emigrati che raggiungevano all'estero i loro parenti e i rifugiati che fuggivano dal loro paese per cause politiche prodotte dalla guerra.
Negli ultimi decenni del 20° secolo il quadro migratorio diventa più complesso di quello dei periodi precedenti. Continuano a esservi emigrazioni che hanno radici economiche o politiche, che sono volontarie o forzate, di breve o lungo raggio, stagionali o definitive. A differenza del passato, però, questi spostamenti coinvolgono un numero assai più elevato di persone e producono, di conseguenza, effetti demografici, politici ed economici molto rilevanti.
Intorno al 2000, i residenti al di fuori del paese di cui erano cittadini ammontavano, secondo le stime di esperti, a oltre 175 milioni e i risparmi che questi inviavano ogni anno in patria superavano i 61 miliardi di dollari, cifra inferiore solo al volume del commercio mondiale di petrolio.
Gran parte degli emigranti provengono dai paesi meno sviluppati. Questi paesi hanno avuto, fin dagli anni Sessanta, una crescita demografica molto intensa, causata da una forte diminuzione della mortalità. La crescita, però, non è stata accompagnata da un miglioramento delle loro economie e questa situazione ha prodotto degli squilibri che hanno alimentato l'emigrazione.
L'Europa occidentale e l'America Settentrionale, che sono state a lungo le destinazioni più importanti dell'emigrazione per motivi economici, hanno perso già da alcuni decenni questo ruolo. Gli emigranti che vi si dirigono rappresentano, infatti, solo il 30% di tutto il movimento mondiale, stimato a circa 100 milioni di persone l'anno. Dei 70 milioni che restano, la metà riguarda persone che si spostano all'interno dell'Africa subsahariana, soprattutto verso le aree urbane, tanto che alcune città sono cresciute enormemente, come Lagos, in Nigeria, che ha superato i 10 milioni di abitanti. La restante metà degli emigranti si dirige verso i paesi produttori di petrolio del Medio Oriente e verso quelli del Sud-Est asiatico, in particolare Giappone, Taiwan e Corea del Sud. Le correnti migratorie dei prossimi anni andranno sempre meno frequentemente da sud (paesi poveri) a nord (paesi ricchi), mentre crescerà la direzione sud-sud, anche a causa delle politiche di contenimento dell'immigrazione che applicano con sempre maggiore severità i paesi industrializzati.
L'Europa, pur avendo perso d'importanza nel quadro migratorio mondiale, attrae ancora molte persone in cerca di lavoro. Al suo interno, però, ci sono state modifiche rilevanti. I paesi dell'area meridionale, come la Spagna, l'Italia e la Grecia, un tempo zone di emigrazione, sono diventati progressivamente aree di destinazione di emigranti provenienti dai paesi meno sviluppati e da quelli dell'Europa dell'Est.
In Italia l'immigrazione di cittadini stranieri, iniziata lentamente attorno al 1970, ha raggiunto nei primi anni del nuovo secolo dimensioni molto considerevoli. Al 1° gennaio del 2003 ammontavano a oltre un milione e mezzo i cittadini stranieri legalmente autorizzati a soggiornare in Italia (forniti cioè di permesso di soggiorno). Coloro che scelgono come destinazione l'Italia, soprattutto alla ricerca di un lavoro, provengono da quasi tutto il mondo, ma i gruppi più numerosi sono attualmente quello albanese e quello marocchino, entrambi superiori a 170 mila unità, e il gruppo dei romeni, che supera la quota di 94 mila.
Accanto all'immigrazione regolare, non diversamente da quanto avviene nel resto d'Europa, sta crescendo il numero di coloro che entrano contravvenendo alle leggi e che restano clandestinamente. Questa immigrazione illegale, favorita spesso da trafficanti senza scrupoli che trasportano in condizioni disumane gli emigranti, è destinata a continuare nei prossimi anni se non miglioreranno le condizioni economiche dei paesi di provenienza, che spingono i giovani a cercare altrove il lavoro, e se le leggi che regolano l'immigrazione continueranno a essere molto restrittive.
Una categoria particolare di emigranti, sempre più numerosa in anni recenti, è quella composta da persone che sono costrette a fuggire dai luoghi di origine a causa delle guerre o perché perseguitate per motivi politici, per la loro appartenenza a un certo gruppo etnico, per la loro religione. Gran parte di queste persone attraversa i confini del proprio paese e cerca asilo all'estero. Il paese di accoglienza esamina la situazione di ogni richiedente asilo e può riconoscergli la condizione di rifugiato; in questo caso, gli concede aiuti economici e protezione.
Questa popolazione in fuga dalle persecuzioni è oggi numerosissima. Secondo le stime dell'organismo internazionale che la assiste (ACNUR, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) al 1° gennaio del 2004 ammontava a più di 17 milioni, di cui oltre 10 milioni in condizione di rifugiato. Tra i rifugiati il gruppo più numeroso (quasi un quarto del totale) proviene dall'Afghanistan e ha trovato accoglienza in Iran e in Pakistan. Molto consistente è anche il numero dei rifugiati nei paesi africani (circa 3 milioni), provenienti dalle aree devastate dalle guerre, come il Burundi, il Sudan, l'Angola, la Sierra Leone, la Somalia e la Repubblica Democratica del Congo.
La maggior parte dei rifugiati trova accoglienza nei paesi meno sviluppati perché le leggi sul diritto di asilo dei paesi industrializzati sono molto restrittive. Spesso è difficile distinguere chi è realmente perseguitato da chi cerca solo di entrare per trovare lavoro e nelle aree più ricche del mondo è forte la preoccupazione di limitare l'immigrazione.