Pur se autore di numerose pubblicazioni in diversi campi della scienza del diritto (diritto romano, processuale, civile, commerciale, internazionale), ma anche della storia e politica internazionale, Emilio Betti occupa un posto rilevante nella cultura (non solo giuridica) del Novecento soprattutto per la sua ermeneutica. Elaborata esplicitamente a partire dal 1949 sulla scorta di precedenti scritti d’impianto teorico e filosofico, la sua monumentale Teoria generale dell’interpretazione (1955), poi tradotta (dall’autore stesso) in tedesco in versione ridotta nel 1967, è rimasta a lungo più conosciuta e apprezzata sul piano internazionale che non in Italia, pur rappresentando la più ambiziosa e articolata ermeneutica (come metodica generale delle scienze dello spirito) del 20° secolo.
Nato a Camerino il 20 agosto 1890, Emilio Betti, fratello del drammaturgo Ugo Betti (1892-1953), si laurea prima in giuriprudenza a Parma nel 1911 con una tesi sulla struttura delle obbligazioni romane e poi in lettere classiche a Bologna nel 1913 con una tesi sulla distruzione della repubblica romana e sulla genesi del principato (pubblicata postuma). Persuaso della necessità di non dissociare diritto e filosofia, Betti ottiene la libera docenza (1915), diviene professore di istituzioni di diritto romano a Camerino (1917), per poi passare, in qualità di docente di varie discipline giuridiche, a Macerata (1919), Messina (1923), Parma (1925), Firenze (1926) e Milano (1927), dove resterà fino al 1943-44. Vicino al regime fascista, seppur criticamente e da ‘buon europeo’, nemico dell’utilitarismo angloamericano e del materialismo sovietico, nel periodo 1936-37 insegna ripetutamente all’estero (Svizzera, Germania, Olanda, Austria), collabora poi all’elaborazione del codice civile e completa la sua Teoria generale del negozio giuridico (1943).
Sospeso dall’insegnamento nel 1945 per il sostegno dato al regime, anche tramite alcuni articoli contro l’intervento angloamericano, ma poi prosciolto da ogni addebito nel 1946, Betti passa all’Università di Roma (1947) e avvia l’elaborazione della vastissima Teoria generale dell’interpretazione, la cui impostazione, non da ultimo sotto il profilo etico dell’educazione alla tolleranza, presenta in varie università straniere. Fondatore dell’Istituto di teoria della interpretazione (1955) presso la facoltà di Giurispudenza dell’Università di Roma, cessato l’insegnamento per limiti d’età, tiene la cattedra di diritto romano (dal 1960) nella Pontificia università lateranense. Nel frattempo, anche grazie alla pubblicazione in tedesco di una breve ma brillante sintesi della sua ermeneutica (1962) e della critica ivi contenuta delle nuove tendenze, considerate soggettivistiche e relativistiche, di Rudolf Bultmann (1884-1976) e Hans-Georg Gadamer (1900-2002), il giurista-filosofo partecipa al grande dibattito suscitato da Wahrheit und Methode (1960) di Gadamer, purtroppo senza poterne seguire tutti gli sviluppi. Muore infatti a Camorciano l’11 agosto del 1968, nella convinzione di essere rimasto un isolato, soprattutto in Italia.
La prima emersione dei suoi interessi ermeneutici è ravvisabile nelle argomentazioni (E. Betti, Diritto romano e dogmatica odierna, «Archivio giuridico Filippo Serafini», 1928, pp. 129-50; 1929, pp. 26-66) con cui egli rivendica la necessità della funzione integrativa (ma non evolutiva) dei concetti della dogmatica odierna nella ricostruzione storica, nella fattispecie del diritto romano, quanto meno dei concetti più elastici, meno compromessi con il presente e perciò più congeniali all’interpretandum. Ciò nella convinzione, che trovò tra l’altro il consenso di Benedetto Croce, che, grazie alla continuità tra la creatività inconsapevole del passato (le «cose») e la sua autocoscienza sistematica nel presente (i «nomi»), vi sia una differenza solo di grado tra l’interpretazione storiografica e quella del diritto vigente, rese appunto entrambe possibili da conoscenze tanto storiche quanto dogmatiche. Questo precoce riconoscimento della storicità non solo dell’oggetto ma anche del soggetto conoscitivo, nonché dell’intreccio fecondo tra storia e dogmatica, porta Betti ad approfondire la tradizione ermeneutica tedesca (da Friedrich Schleiermacher a Wilhelm Dilthey) e a riflettere più in generale sull’interpretazione come strumento fondamentale delle scienze dello spirito.
Varie le ragioni per cui l’ermeneutica bettiana, troppo precoce rispetto alla diffusione internazionale dell’argomento grazie a Gadamer, non è stata da principio sufficientemente valorizzata. Anzitutto, e nonostante la programmatica (e controversa) fedeltà fenomenologica alle «cose stesse», l’indubbio eclettismo teorico; ma poi anche, prevedibilmente, il pregiudizio che si trattasse di una teoria valida solo in ambito giuridico; infine il fatto che ponesse l’esigenza di un’ermeneutica «oggettiva» proprio nel momento in cui la cosiddetta ermeneutica ontologica, accomunando ogni metodologia al formalismo positivistico, degradava tale esigenza a ingenuo pregiudizio scientistico.
Di qui un persistente equivoco, consistente nel considerare quello tra l’ermeneutica metodica di Betti e l’ermeneutica ontologica d’ispirazione heideggeriana un confronto fra una metodologia e una filosofia anziché, come si dovrebbe, tra due filosofie e ontologie molto diverse, fondate la prima sull’idea che i fenomeni storici siano comprensibili in quanto spirito oggettivato solo in virtù di una almeno relativa presa di distanza, la seconda su una storia dell’essere (linguaggio) cui comunque si apparterrebbe e nella quale il passato sarebbe già sempre mediato col presente. Che l'interpretazione sia per Betti un processo metodologicamente consapevole e distinto dall’evento della comprensione (solo eventuale) non esclude infatti che sia anche per lui un fondamentale modo d’essere dell’esistenza (falso essendo che in claris non fit interpretatio e che la chiarezza sia il presupposto e non piuttosto l’esito dell’interpretazione) di cui precisare i presupposti filosofici. Concepita con esplicito richiamo, per limitarci ai maggiori, a Giambattista Vico, Schleiermacher, Wilhelm von Humboldt, August Boeckh, Johann Gustav Droysen, Dilthey, Max Weber, Adelchi Baratono, Nicolai Hartmann ed Erich Rothacker, e nella convinzione che l’interpretare sia una possibilità cognitiva permanente e non l’esito novecentesco della crisi della metafisica, l’ermeneutica bettiana non è dunque meno filosofica di quella esistenzialistico-ametodica con cui si confronta e alla quale reagisce con indignazione, rinvenendovi, estremizzato però in senso soggettivistico e relativistico, il proprio corretto richiamo all’attualità del comprendere.
Contro la reductio ad unum di un’ermeneutica per la quale, non essendoci fatti ma solo interpretazioni, interpretativo è in fondo già il semplice esistere, Betti non si fa scrupolo di porre invece rigidi criteri di demarcazione. Così l’interpretazione, quale procedimento riflessivo e fallibile, intersoggettivamente controllabile, diretto a forme rappresentative da esso ben distinte sulla base di quattro momenti (filologico, critico, psicologico, tecnico) e secondo due indirizzi (genetico ed evolutivo) diversamente accentuabili a seconda della natura sia dell’interpretando sia dell’interprete, dev’essere rigorosamente distinta, anzitutto, dalla successiva (e per nulla garantita) comprensione, e più in generale da ogni autocomprensione non rivolta a un’alterità; ma poi anche dalla creazione di forme (artistiche e non), dallo spiegare causalistico (donde l’impossibilità di comprendere spiritualmente entità astoriche come la natura) e dalla semiotica, comportamentisticamente, e certo riduttivamente, spiegata come risposta psicologica a stimoli segnici; infine da forme di conoscenza atomistiche che, come quella crociana, s’illudono di conoscere l’individuale prescindendo da tipizzazioni di valore euristico, e soprattutto dall’arbitraria e intuitiva costruzione speculativa, da un’attribuzione di senso che, inquadrando l’interpretandum in una visione del mondo a esso estranea e pretendendo di attingere direttamente il «senso dell’essere», si ritiene svincolata dalle forme rappresentative in cui si è oggettivata l’altrui spiritualità. Proprio insistendo sull’iter ermeneutico come rovesciamento dell’iter genetico e come processo necessariamente triadico (individualità espressiva-forma rappresentativa-individualità interpretante), finalizzato al ritorno a se stessa della vita dello spirito precedentemente oggettivata, Betti respinge, quasi ante litteram, gli esiti, che giudicherà solipsistici, dell’identificazione postheideggeriana tra l’intendere come procedimento epistemologicamente valido e l’intendersene come competenza disponibile e più persuasiva che non epistemologicamente «valida».
Altrettanto rigorosa è la distinzione, conforme all’antica distinzione tra subtilitas intelligendi, explicandi e adplicandi, tra tre tipi di interpretazione. Pur intrecciandole nella vita quotidiana, un’interpretazione che abbia ambizioni scientifiche dovrebbe distinguere e anteporre la ricognizione come comprensione intransitiva (a), circoscritta cioè all’interiorità dell’interprete e rivolta (in ambito filologico, storico e morfologico), anche con integrazione di lacune o eccedenze, a fenomeni che non hanno necessariamente un influsso diretto sul presente, ad altre due successive forme d’interpretazione: a quella riproduttiva (b), che mira cioè a far intendere ad altri, eventualmente integrandolo ai fini di una migliore corrispondenza, il senso ricavato dall’oggettivazione originaria (traduzione, rappresentazione drammatica, esecuzione musicale), e, a maggior ragione, a quella normativa (c) di portata sociale, la quale soltanto legittima chi sia preposto a governare la vita di relazione (in senso giuridico, teologico e psicologico o, meglio, psicotipico) ad «applicare» quanto si è compreso ricognitivamente alle attuali esigenze della convivenza sociale, anche anacronisticamente (al limite mediante «interpretazione autentica»), in forma tanto conservativa quanto evolutiva, ma senza concessioni a quel «libero esame» individuale che minaccerebbe (è il caso della demitizzazione) l'ordine istituzionale.
Proprio questa tripartizione pone Betti in aperto conflitto con la «nuova ermeneutica», secondo cui ogni interpretazione è applicazione, per di più a esigenze non sociali ma esistenziali e personali. Un rovesciamento dei ruoli assai curioso: il giurista Betti è qui indotto a circoscrivere la validità del modello squisitamente giuridico dell’applicazione o concretizzazione della legge, universalizzato invece da un filosofo come Gadamer.
Il rischio di perdere di vista l’alterità storica nella sua autonomia induce Betti a ribadire che sensus non est inferendus sed efferendus. La (sempre solo parziale) fusione di passato e presente e la congenialità empatizzante non sarebbero che delle iniziali condizioni di possibilità metateoriche (e non l’oggetto dell’interpretazione) da cui metodologicamente emanciparsi se si vuole che il comprendere sia «conoscenza del conosciuto» (Boeckh), che si possa cioè raggiungere il significato, l’orizzonte interno del senso, e separarlo rigorosamente dal suo incontrollabile orizzonte esterno, dalla sua mutevole significatività o rilevanza, decisiva come si è visto solo in campo normativo.
Tale distinzione, mutuata poi (meaning/significance) dall’ermeneutica letteraria di Eric Donald Hirsch (1928), mira a separare, certo problematicamente, nella «storia degli effetti» (Gadamer) di una certa forma rappresentativa quanto le spetta e ne fa qualcosa di concluso e in-sé, incluse certe sue conseguenze remote, e quanto invece, applicando indiscriminatamente al presente e all’interprete quella forma, ne annulla la necessaria distanza temporale e finisce per dissolvere il passato nel presente. Senza questo scrupolo storicamente necessario per l’autonomia dell’interpretando il dialogo ermeneutico decadrebbe a monologo e all’insuperabile dialettica di familiarità ed estraneità subentrerebbe una irriflessa «fusione di orizzonti».
Per scongiurare il pericolo soggettivistico e relativistico, che s’affianca a quelli più tradizionali come il pregiudizio, il conformismo letterale e il disintesse, Betti si appella all’osservanza di quattro canoni fondamentali:
a) l’autonomia ermeneutica dell’oggetto, ottenibile grazie al controllo della peraltro necessaria soggettività dell’interprete;
b) la totalità, cioè la reciproca illuminazione delle parti e della totalità (linguistica, psicologica e dell’epoca, tecnica);
c) l’attualità dell’intendere, che, pur necessaria perché si generi un interesse ermeneutico, non deve sfociare in una prospettiva distorta e anacronistica;
d) l’adeguazione dell’intendere, secondo cui occorre essere (o farsi) congeniali a ciò che s’interpreta, dotandosi della prospettiva giusta e più favorevole.
Si tratta di canoni sia epistemologici sia etici, che, per la loro evidente interferenza, non vanno osservati unilateralmente ma solo nel loro condizionamento reciproco e magari variamente accentuati a seconda degli oggetti e delle necessità storiche.
L’insistenza bettiana sull’oggettività ermeneutica non va a scapito del riconoscimento della costitutiva eccedenza logico-assiologica di ogni forma rappresentativa. Di qui l’aspra critica al principio secondo cui l’interprete presupporrebbe necessariamente, e fino a prova contraria, la compiutezza formale e perfino la verità di ciò che interpreta (è il gadameriano «presupposto di perfezione»). Al contrario, è proprio perché si limita ad alludere prospetticamente al mondo ideale e trascendente dei valori e reca solo parzialmente l’impronta della spiritualità che l’ha foggiata che la forma rappresentativa rivolge un appello ermeneutico, in ultima analisi etico e personalistico, all’umanità futura. L’ermeneutica si presenta qui, di conseguenza, come un’autentica filosofia dei valori, i quali, pur emersi solo nella e tramite la personalità, però le sopravvivono, generando un’oggettività ideale (logica, etica ed estetica) che dell’esperienza è l’indispensabile condizione di possibilità: offerta all’intuizione emozionale del soggetto, essa gli permetterebbe non solo di conoscere se stesso (necessariamente tramite l’alterità), ma anche di trascendere almeno in parte il proprio limitato punto di vista e di contribuire così alla progressiva espansione ermeneutica della prospettiva umana, tanto in orizzontale, nella comprensione reciproca ai fini della convivenza, quanto in verticale, nella solidarietà storica con la tradizione.
Stigmatizzato da Gadamer come obiettivismo ingenuo e psicologismo, l’approccio ermeneutico di Betti potrebbe forse oggi trovare, ridimensionatasi l’influenza dell’heideggerismo, una ricezione più congeniale. A patto che si mostri che ciò che esso vuole ricostruire non è tanto l’intenzione psicologica dell’autore quanto, in forza di un’euristica tecnico-morfologica in funzione storica, la struttura oggettiva delle forme rappresentative (esemplarmente: non la volontà del legislatore ma la ratio iuris), la logica cioè con cui esse risolvono i loro problemi immanenti. Che inoltre si prenda atto che la soggettività chiamata in causa da tale approccio non è propriamente quella dell’autore e/o dell’interprete bensì quella trascendentale che, come comunità e continuità spirituale, anticipa e rende possibile (è il vichiano verum ipsum factum) la comunicazione tra lo spirito insito nelle forme rappresentative e quello interpretante. E che, infine, si distingua rigorosamente l’oggettività cui tale approccio mira da quella sia naturalistica sia noumenica, trattandosi piuttosto di un ideale regolativo, di quella «pura logica coerenza dell’ipotetico» che, pur non arbitraria, non è però mai unica e definitiva, stanti l’ineliminabile eccedenza assiologica degli intepretandi e l’irriducibilità della corrispondenza di sensi a perfetta e statica identità.
Indotta a trovare una via intermedia tra la (filosofica) universalizzazione del momento applicativo e la cieca osservanza (della storiografia più deteriore) al criterio ricognitivo, l’ermeneutica bettiana non si rivolge certo alla luce dell’essere e alle sue imprevedibili «aperture», ma più sobriamente e «realisticamente» (cfr. G. Funke, Problem und Theorie der Hermeneutik auslegen, deuten, verstehen in Emilio Bettis "Teoria generale della interpretazione", in Studi in onore di Emilio Betti, 1° vol., 1962, p. 132) solo ai fenomeni che vengono di volta in volta in luce, conformemente d’altronde all’idea di Rothacker (1888-1965) secondo cui scientifica non è mai l’intuizione vitale implicita in una posizione assiologica ma solo e sempre l’esplicitazione (dogmatica ed ex post) della coerenza e sistematicità di tale posizione relativamente preriflessiva.
Irritato dalla tesi gadameriana secondo cui «la critica non è normalmente presente nell’atto del nostro intendere» (E. Betti, Die Hermeneutik als allgemeine Methodik der Geisteswissenschaften: zugleich ein Beitrag zum Unterschied zwischen Auslegung und Sinngebung, 1962; trad. it. 1987, p. 201) e pertanto sempre in ritardo rispetto a quel che si deve credere o meno, Betti considera oggetto dell’ermeneutica non tanto la quaestio facti, ciò che sempre accade (secondo l'ermeneutica ontologica l'imprescindibilità dei giudizi e il fraintendimento), quanto piuttosto la quaestio iuris, e cioè forme di comprensione epistemologicamente garantite e che non si esauriscono nell’incontrollata riflessione esistenziale sulle proprie strutture conoscitive. L’oggettività (paradigmaticamente: la certezza del diritto) non sarebbe dunque mai minacciata dal fatto di essere attinta soggettivamente, visto che il soggetto è pur sempre in grado, facendo interagire il primo e il terzo canone, di mettere tra parentesi le proprie convinzioni più idiosincratiche, come pure quella «precomprensione» la cui sola funzione legittima è di fungere da preliminare «domanda storica» (Droysen).
L’agognata oggettività ermeneutica è qui, in conclusione, non tanto un esito definitivo e disponibile, quanto un’esigenza procedurale ed etica, salvaguardata quanto meno in negativo dai canoni già citati, a limitare il proprio coinvolgimento e a distinguere un contenuto dal suo (indefinito) contesto. Così, proprio mentre la vulgata ermeneutica dichiarava superate validità e oggettività e definiva più oggettiva, paradossalmente, l’interpretazione più soggettiva (Bultmann), Betti ribadiva, decisamente contro corrente, che «la verità oggettiva può essere scorta, nei limiti della prospettiva di volta in volta adottata, da qualsiasi punto di osservazione» (E. Betti, L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, cit., p. 77). E che, pur nella perenne conflittualità tra la spontaneità del comprendere e l’alterità del senso, l’interpretazione dev’essere considerata la modalità privilegiata dell’educazione umanistica nel segno della fedeltà storica e della tolleranza. Dove non ci fossero che interpretazioni, del resto, per Betti non ci sarebbe a rigore assolutamente più nulla da interpretare.
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