ZAGO, Emilio. –
Nacque a Venezia, sestiere San Marco il 12 marzo 1852, unico figlio di Giuseppe e di Maria Vianello, detta la Marieta.
Tra i grandi attori della civiltà teatrale veneta a cavallo tra i due secoli fu il solo nato nella città lagunare. Il padre era custode di palazzo Pesaro, proprietà della famiglia Bevilacqua La Masa, attualmente sede del Museo di arte contemporanea. Non crebbe oltre il metro e quaranta, come annotò nelle sue memorie: «mi hanno impastato su, gli altri, piccolotto, sbiseghìn, ma traccagnotto e sodo» (Mezzo secolo d’arte, 1927, p. 5). Scritturarlo pertanto agli inizi risultava oltremodo difficile. Per esempio, il celebre Alamanno Morelli lo scartò senza incertezze. Nondimeno, reso inconfondibile dalla statura, trasformò l’handicap in bizzarra risorsa e avvalendosi di tempi comici perfetti puntò da subito al ruolo di generico e di promiscuo. Folgoranti apparvero le sue metamorfosi in una galleria inesausta di caratteri, a partire da quello del mamo, ossia l’ingenuo. Minuscolo e insieme faunesco, via via più panciuto, questo «bambolotto portafortuna» (Bevilacqua, 1929-1930, p. 13), muscoloso nei tondi polpacci, mani grasse e dita costellate da anelli, con una qualche autorevolezza patriarcale nonostante la sagoma, occhi vividi e inquieti, faccione arguto, paffuto, bonario e dall’estrema mobilità fisiognomica, sempre pronto ad alterarsi nelle smorfie, un vocione baritonale e squillante, si faceva notare pure in strada, in quanto teatrante debordante anche fuori, a supplire con la grinta esplosiva alla piccolezza del corpo. Tanto più che adorava stare in mezzo alla gente, a cogliere usanze e abitudini legate alla tradizione, da lui venerata. Frequentò scuole elementari private, iscrivendosi successivamente all’Istituto Cavanis, mostrando difficoltà nel rendimento, soprattutto nel latino, esaltandosi solo nelle recite scolastiche, dove sfruttava una contagiosa verve comunicativa. Ma davanti alle continue bocciature, il padre lo fece assumere adolescente come vice impiegato nell’azienda del senatore Antonio de Reali, da cui venne ben presto licenziato perché scoperto a improvvisare caustiche caricature dei clienti per divertire i colleghi.
Nel 1882 sposò Cesira Borghini, ventunenne insegnante di Ancona, da cui ebbe cinque figli, tutti chi più chi meno legati alla scena, se non altro per spettacoli in famiglia: Giuseppe, Anna, Silvia, Elettra (attrice professionista), e Carola, madre a sua volta dell’attore Alvise Battain, una delle voci più belle nel doppiaggio italiano. Il fatto di non essere figlio d’arte lo penalizzò ulteriormente agli inizi, nel tempo ottocentesco delle ditte basate sul capocomicato, grado che racchiudeva in sé la responsabilità e i poteri adeguati del primattore, del direttore, dell’impresario-proprietario. Il debutto avvenne precocemente nel 1867 nelle formazioni filodrammatiche in città. Nel 1871 venne scritturato da una modesta compagnia a Loreo (che nel 1921 gli intitolò il piccolo teatro), nella provincia di Rovigo. Per cinque anni girò da una troupe all’altra, in condizioni miserrime e sconsolanti, fame devastante e repertori dozzinali, spesso davanti a sale vuote, a mal partito con i drammoni in versi. Una vita di stenti, ma che gli consentì intanto di rafforzarsi nella pratica scenica e di abituarsi al contatto vincente con il pubblico, perfezionando le tecniche per farlo ridere.
Nel 1877 venne incorporato nella prestigiosa ditta diretta da Angelo Moro-Lin, con la paga di 5 lire come generico, e si ritrovò così nella drammaturgia finalmente dialettale, su e giù per l’Italia intera. Alcune lettere tra i due svelano le richieste di aumento dell’attore e la riluttanza a cedere da parte del direttore. In compenso negli ultimi anni della sua vita, coincidenti con il declino fisico ed economico, Moro-Lin venne aiutato dal suo antico principiante. Zago si fece notare sin dalla prima uscita con questa compagnia, a Napoli nella parte di Nicoleto nella goldoniana La bona mare, ovvero Sior Nicoleto mesa camisa e i so amori in cale de l’Oca. Nella troupe in questione rimase sette anni. Si fece apprezzare per le interpretazioni nel repertorio di Giacinto Gallina, tra cui il piccolo fornaio in Mia fia e Nardo il veccchio paralitico ne I oci del cuor, ma fu pure un sorprendente Pantalone nel Bugiardo di Goldoni, a testimoniare l’estrema versatilità del suo temperamento recitativo.
Nel 1883, alla morte di Marianna Torta, moglie di Moro-Lin, Zago formò una ditta con Carlo Borisi, direttore artistico lo stesso Gallina, e amministratore Enrico, fratello del commediografo, prima donna Amalia Borisi, consorte di Carlo. Nel 1884, al Teatro Filodrammatico di Trieste, venne accolto con entusiastici applausi dalla sala con esplicite allusioni irredente. Nel 1886 fece parte per pochi mesi della troupe di Gaetano Benini, padre del grande Ferruccio, coetaneo di Emilio, ma privo della sua esplosiva carica comica, portato piuttosto a registri intimisti e crepuscolari. Nel 1888 si unì all’ex cantante lirico Guglielmo Privato, dai moduli pastosi e ridanciani non disgiunti da doti danzerine, molto adatti al vaudeville, in un’efficace alchimia di talenti, salutata con enfasi apologetica nel 1895 a Verona dal giovane critico Renato Simoni. Il sodalizio durò sino al 1902, anno della morte di Privato. Da qui si decise a siglare personalmente con il proprio nome la nuova compagnia, divenendo capocomico assoluto e rilanciando con orgoglio autori veneti, da Riccardo Selvatico a Luigi Sugana, da Ernesto Andrea De Biasio a Libero Pilotto, mentre Gallina gli veniva sottratto per i diritti dal collega rivale Benini, e solo in un secondo tempo ripristinato.
Il 18 e 19 maggio del 1905 si affiancò a Firenze per serate straordinarie al meneghino Eduardo Ferravilla e al napoletano Eduardo Scarpetta per Tre pecore viziose, commedia di quest’ultimo. Nel 1911 venne invitato in una lunga tournée in Sudamerica, qui portò per la prima volta in quel lontano continente una compagnia veneziana imitando i mattatori di fine secolo, anche nei loro incredibili emolumenti. D’altra parte, si mostrò sempre molto attento ai propri lauti introiti, a volte accusato di pagare poco i suoi attori. Tra Argentina, Uruguay e Brasile, davanti a platee gremite dai tanti italiani emigrati, provocò un vero delirio in particolare, oltre ai vari repertori goldoniani e galliniani, con il sanguigno L’avvocato difensor di Giuseppe Morais e con il bozzettistico In pretura di Giuseppe Ottolenghi.
Nel 1914 un suo quadro, firmato dal triestino Glauco Cambion, venne acquistato dalla Regina madre per la XI Esposizione internazionale di Venezia. Nel 1915 scelse per la ditta l’etichetta di Compagnia-Cooperativa Veneziana Carlo Goldoni. Durante la Grande Guerra diede recite di beneficenza per i combattenti.
Di solito, non si faceva leggere i copioni dagli autori, perché leggevano bene e lo ingannavano, diceva. Lo faceva lui, di notte. E tagliava spesso impietosamente, con liti furiose con i drammaturghi, come Luigi Sugana. Il 22 agosto del 1920 inviò una lettera piena di orgoglio alla Gazzetta di Venezia, in risposta a un’intervista rilasciata sul Corriere della sera da Dario Niccodemi, in cui l’autorevole regista della prima dei Sei personaggi rivendicava il diritto da parte delle compagnie primarie italiane di allestire Goldoni. L’attore veneziano gli ribatteva che «per quanta facilità abbia poi il comico italiano ai dialetti, specie per il nostro, pure se non si è un prodotto ‘di laguna’ non si ha certo quella spontaneità, quella spigliatezza di dire che richiede Goldoni, dove basta un inciso, un accento sbagliato per provocare l’ilarità generale». Per lui, stare in scena si basava sulla semplice osservazione e sulla naturalezza, in chiave antiintellettualistica e antiscuola: «Ho recitato cercando di non recitare», sentenziava nel suo Mezzo secolo d’arte (cit., p. 158). Tra i ruoli preferiti, figuravano quelli ovviamente goldoniani, come il gorgogliante Todaro e il rugoso, aggressivo Lunardo nei Rusteghi, in quanto la sua strategia precipua era il rilancio di Goldoni in Italia, fino allora abbastanza trascurato. Del resto, per lo più recitava a soggetto, anche per mancanza di memoria, esasperando i suggeritori, proprio come le grandi maschere settecentesche. E sempre a Goldoni dedicò la sua autobiografia. Fu lui a far debuttare il Bepi Canal del citato In pretura nel 1889, tanto ammirato dalla Regina Margherita, così come il vecchio dell’ospedaletto in I oci del cuor galliniano nel 1879. Risultò memorabile altresì come Momolo Paneti deto Brisiola nel Moroso de la nona sempre di Gallina, e come Pasqual nei Recini da festa di Selvatico, prediligendo macchiette e vecchierelli.
All’apice della carriera Zago venne considerato un’autentica star nazionale, doge per i suoi concittadini, omaggiato da Adelaide Ristori, da Eleonora Duse e da Ernesto Rossi, sovraccarico di onorificenze, il cavalierato nel 1888, commendatore della Corona d’Italia nel 1910 e il cavalierato dei Ss. Maurizio e Lazzaro nel 1921. Con simili titoli, pretendeva di essere salutato dagli ammiratori. Nella varie case abitate, in particolare nell’ultima, a S. Canciano, accumulò cimeli teatrali, dagherrotipi, locandine e foto di scena, album con la raccolta di recensioni che lo riguardavano, a partire dal 1879, giovane filodrammatico.
Intervistato il 4 marzo 1921 dal cronista della Gazzetta di Venezia, si vantava di non essersi specializzato in una parte determinata, perché contrario alla «stupidaggine dei ruoli assoluti», preferendo passare da un carattere all’altro. Il 21 marzo dello stesso anno il teatro Goldoni lo festeggiò per i suoi cinquant’anni di carriera. Era sulla breccia, come scarrozzante di giro, dal 1871. Per l’occasione presentò dell’avvocato veneziano Il curioso accidente. L’anno dopo ridiede La famegia del santolo per il venticinquesimo della morte di Gallina, utilizzando la vecchia formula della serata d’onore. Spesso si riservava la farsa finale, in chiusura di serata, a garantirsi il protagonismo nella ricezione dello spettatore. Nel 1923, pur avendo diradato le uscite, accettò di inserirsi in qualche replica con la compagnia di Albertina Bianchini, sua amata allieva, e nel maggio del 1927 fece il Pantalone nel Bugiardo con Antonio Gandusio, davanti a compensi troppo alti per essere respinti. E in tutte le piazze, allorché sfilava nella gondola questo minuto e straripante Pantalone, il pubblico si alzava per decretargli un tributo di venerazione. Sempre al teatro Goldoni, la città gli organizzò una festa trionfale il 7 luglio del 1929. Si scoprì financo il suo busto di marmo, con deroga a firma di Mussolini dalla legge che vietava monumenti ai viventi. Ma Zago vi partecipava ormai solo come uno spettro piangente, dal palco centrale in prima fila, per poi ascoltare il discorso celebrativo di Renato Simoni. Era stato infatti colpito da una paralisi cerebrale che lo spense pochi mesi dopo, il 18 novembre dello stesso anno, il colpo di grazia sotto forma di un collasso glicemico. E questa morte, in una Venezia gelida, fece rizzare in piedi tutto il Goldoni all’annuncio dato del suo decesso da Annibale Betrone, in quel momento sulla scena. E i cronisti elaborarono il lutto mescolando agiografia a un senso compiaciuto di apocalisse, descrivendo il piccolo corpo in coma, devastato da nefrite e diabete. Il feretro, avvolto nel rosso vessillo di S. Marco, venne trasportato solennemente alla chiesa parrocchiale di S. Canciano. Fu sepolto a S. Michele, tra le tombe dei suoi Gallina e Selvatico.
Fonti e Bibl.: Un consistente materiale riguardo all’attore è confluito, per donazione dei nipoti, nel fondo Emilio Zago, conservato nella Biblioteca di Casa Goldoni a Venezia. Indispensabile il suo autobiografico Mezzo secolo d’arte, Bologna 1927.
G. Bevilacqua, E. Z., in Comoedia, XI-XII (1929-1930), pp. 13 s.; M. Pavia, E. Z. Un piccolo, ma grande attore, Messina 2008. Citato e analizzato di continuo, ma in un contesto generale relativo al palcoscenico veneto, in E.F. Palmieri, Del teatro in dialetto, a cura di G.A. Cibotto, Venezia 1976; N. Mangini, Il teatro veneto moderno 1870-1970, Roma 1992; P. Puppa, Cesco Baseggio. Ritratto dell’attore da vecchio, Verona 2003.