emme
Nome dell'undicesima lettera dell'alfabeto, più volte ripetuto da D., con diverso valore simbolico, nella Commedia.
In Pg XXIII 33, descrivendo la turba dei golosi tra i quali è Forese Donati, D. osserva che chi nel viso de li omini legge ‛ omo ' / ben avria quivi conosciuta l'emme, con riferimento all'opinione sostenuta da teologi e predicatori medievali che nel volto umano si legge la parola omo: supponendo la e. (naturalmente non la m latina ma la gotica maiuscola, simile a due O unite al centro e leggermente aperte in basso), la M formata dunque dalle arcate sopracciliari congiunte al centro dalla linea del naso e completata ai due lati dai limiti esterni delle cavità orbitali e dagli zigomi, e le O formate dagli occhi, iscritte secondo l'uso epigrafico medievale negli spazi interni della e.: " H [del latino homo] vero non ponitur, quia non est litera sed aspiracionis nota " (Chiose, ediz. Luiso, Firenze 1904, 106 E sì che non mancò chi riuscì a leggervi anche l'H o addirittura " homo dī ", cioè " homo dei " (cfr. Scartazzini). D., che non mostra di aderire a questa credenza popolare (chi... legge), la richiama per sottolineare la magrezza del volto di quei peccatori, dal quale sono del tutto scomparse le O, invisibili in fondo alle orbite scarne, mentre particolare risalto ne la faccia... tanto scema / che da l'ossa la pelle s'informava acquistava il profilo della presunta ‛ emme '.
In Pd XVIII la lettera e., sempre nella rappresentazione grafica sopra indicata, è richiamata tre volte (vv. 94, 98, 113) nel quadro di una complessa e non del tutto chiara allegoria. È all'arrivo nel cielo di Giove, dove le anime sfavillanti dei beati si dispongono prima a raffigurare una dopo l'altra, in rapida successione, le lettere del motto biblico " DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM ", quindi, spiccando con aureo fulgore contro lo sfondo argenteo di Giove, ne l'emme del vocabol quinto si fermano ordinate (v. 94); infine, all'arrivo di altre luci che scendono sulla sommità (il colmo) de l'emme, e vi si posano, per poi muoversi ancora come faville che si sprigionano nel percuoter d'i ciocchi arsi, la e. si modifica successivamente, rappresentando prima un giglio, da ultimo un'aquila.
M. Caetani ha chiarito, attraverso un attento esame dell'uso grafico e del disegno del sec. XIII, i modi attraverso i quali dalla e. iniziale sia possibile passare al giglio, chiaramente indicato nel verso 113 come seconda fase della metamorfosi della e. (L'altra bëatitudo che contenta / pareva prima d'ingigliarsi a l'emme), e poi all'aquila, entrambi immaginati nella loro stilizzata raffigurazione araldica. Meno sicuro è il valore simbolico di queste diverse fasi. Molto probabile è che la e. iniziale voglia indicare ‛ Monarchia ' (meno che voglia indicare ‛ Mondo ', che troverebbe un puntò di riferimento in Pd XX 8, ma che proprio per questo sarebbe una ripetizione nell'ambito di una stessa immagine e meno sembra adattarsi al più probabile significato allegorico di tutta la visione), come l'aquila è indubbiamente il simbolo dell'Impero, in cui D. vede realizzata la più alta giustizia umana, direttamente ispirata da Dio. Contestata dai più (e cfr. tra gli altri il Pézard, nel commento al v. 113) è invece l'ipotesi del Parodi (accolta però dal Vandelli, dal Chimenz, ecc.) che la figura intermedia del giglio voglia simboleggiare la monarchia di Francia, mentre nella trasformazione di questo in aquila si vedrebbe il segno della caduta di ogni pretesa francese di sottrarsi all'autorità dell'Impero (il Torraca, che per altro contesta, come il Porena e altri, ogni valore di simbolo anche alla prima e., osserva: " Ingigliarsi: la M, che si usava al tempo di Dante... somigliava al giglio fiorentino... Dante foggiò il verbo per rilevare l'eleganza di quella M, che pareva al tempo stesso un giglio; ossia il garbo, la grazia, con cui s'erano ordinati gli spiriti "). Il Pézard proporrebbe la lezione ‛ insiglarsi '.
Il più probabile significato allegorico di tutta l'immagine sembra dunque questo: gli spiriti giusti, dopo aver scolpito in lettere d'oro contro lo sfondo argenteo di Giove il primo versetto del libro biblico della Sapienza, enunciato come il principio fondamentale che regola la società umana, si fermano a rappresentare la e., iniziale di ‛ Monarchia ', per indicare che solo questa può realizzare la massima giustizia sulla terra (lustitia potissima est solum sub Monarcha: ergo ad optimam mundi dispositionem requiritur esse Monarchiam sive Imperium, Mn I XI 2). Sarebbero questi, secondo il Buti, " li minori officiali e le persone singulari e private che erano valute nel mondo nelli atti e nell'amore della iustizia ": ai quali, provenienti da una regione imprecisata ancora più alta (E vidi scendere..., v. 97), e perciò più vicina all'Empireo, altri spiriti si aggiungono per operare la trasformazione della e. in aquila - e sarebbero questi, secondo il Buti, " li regi e l'imperatori del mondo, che sono stati nel mondo sopra li altri e governatoli co' la iustizia " -, a significare che la più alta giustizia trova la sua origine e il suo fondamento in Dio stesso. Benvenuto osserva ancora che la formazione dell'aquila con gli spiriti di giusti re e reggitori vuol sìgnificare che tutti i regni del mondo dipendono e s'integrano nel romano impero, in cui si realizza la volontà divina della giustizia in terra (Unde rette illud scriptum est: " Romanum imperium de Fonte nascitur pietatis ", cioè da Dio, Mn II V 5). Il sacrosanto segno (Pd VI 32) riafferma dunque e che la perfetta giustizia può trovarsi solo nella Monarchia, e particolarmente nella sua più alta manifestazione, l'Impero, e che in questo essa si realizza soltanto perché trae origine direttamente da Dio.
Come simbolo di ‛ mille ' in cifre romane, ma con valore indeterminato, per significare una grande quantità, e. è ripetuto in Pd XIX 129 Vedrassi al Ciotto di lerusalemme / segnata con un I la sua bontate, / quando 'l contrario segnerà un emme, nel senso che allo " zoppo " Carlo II d'Angiò, re titolare di Gerusalemme, saranno notate con un I, cioè con " uno ", le sue opere buone, e con e., cioè con " mille ", le opere malvage: " Le due lettere sono la prima e l'ultima della parola Ierusalem, che quasi certamente deve aver suggerito a Dante la bizzarra trovata del rapporto numerico tra i meriti e le colpe del Ciotto, anche in dispregio di quel vano titolo regale " (Chimenz).
Bibl. - M. Caetani, Proposta di una più precisa dichiarazione intorno ad un passo della D.C., Roma 1852 (e numerose rist.); E. G. Parodi, in " Bull. " XI (1904) 250 ss., XV (1908) 278.