emotivismo
Insieme delle teorie etiche che nel corso del Novecento, soprattutto in ambito anglosassone, hanno proposto di rendere conto dei giudizi morali in termini di emozioni e di sentimenti. Il tratto che accomuna queste teorie è il loro carattere non-cognitivo. L’etica non è una forma di conoscenza: i giudizi morali non servono a trasmettere informazioni, ma si caratterizzano per la loro forza motivazionale, vale a dire la capacità che possiedono di spingere ad agire. Anticipazioni di questo atteggiamento si sono volute rintracciare, anche da parte degli stessi emotivisti, in autori dei secoli passati, come Hobbes, che parlò del linguaggio «imperativo» del desiderio e dell’avversione, o Hume, per il quale il giudizio morale non è una proposizione speculativa ma un sentimento attivo. L’emergere di etiche emotivistiche nella filosofia contemporanea è legato piuttosto all’affermazione del positivismo logico (➔), al cui criterio di verificabilità si sono ispirati gli autori che hanno considerato i giudizi morali privi di significato in termini di vero o falso, in quanto non suscettibili di verifica empirica. Esponente di questa forma radicale di e. è Ayer (Language, truth and logic, 1936; trad. it. Linguaggio, verità e logica), per il quale, se i giudizi morali riflettono stati emotivi individuali, diventa quanto mai problematico aprire un confronto tra prospettive etiche discordanti sulla base di argomentazioni razionali. Anche per Stevenson i giudizi morali sono di natura emotiva e privata, ma più che essere espressione immediata di sentimenti, essi rinviano piuttosto ad «atteggiamenti», a disposizioni psicologiche ad approvare o disapprovare linee di condotta, e i contrasti tra diversi atteggiamenti morali si sviluppano in maniera analoga ai contrasti che insorgono nella sfera del gusto. Contro la riduzione dei giudizi morali a emozioni, proposte teoriche, come quella di Hare, hanno cercato di ristabilire la natura peculiare del linguaggio morale, connettendola a una forma di razionalità pratica.