Emozione
Il termine emozione indica genericamente una reazione complessa di cui entrano a far parte variazioni fisiologiche, che interessano funzioni vegetative (circolazione, respirazione, digestione, secrezione), motorie (ipertensione muscolare) e sensorie, comportamenti espressivi, che riguardano in particolare la mimica facciale, ed esperienze soggettive variamente definibili (stati affettivi, sentimenti). Rilevanti dal punto di vista biologico-evolutivo per la loro capacità di stimolare risposte adattative a situazioni di emergenza, le emozioni svolgono un ruolo nei processi cognitivi fondamentali (percezione, pensiero, memoria) ed entrano nei meccanismi di formazione dell'identità, nello sviluppo della personalità, nella costruzione delle relazioni sociali.
1.
Tutte le forme di comportamento, emozioni comprese, si basano sull'attività del cervello e del sistema nervoso. Una conoscenza generale del cervello e dei processi neurali che sono implicati nelle emozioni, oltre a consentire una valutazione più completa del ruolo chiave da esse svolto nell'evoluzione e nello sviluppo umano, può fornire indicazioni utili sulla loro struttura, sulle loro funzioni, sul loro controllo e sulla loro regolazione.
Conforme all'idea che le emozioni si siano sviluppate in una fase iniziale e siano diventate importanti nel corso della sopravvivenza e dell'adattamento è il fatto che esse sono radicate in parti molto antiche del cervello: il tronco encefalico, il mesencefalo, il talamo, l'amigdala e l'ipotalamo. Tutte queste strutture sono situate fra il midollo spinale e la neocorteccia che, in termini evoluzionistici, sono rispettivamente la componente più antica e quella più recente del sistema nervoso della nostra specie. La funzione relativamente semplice, sebbene vitale, del midollo spinale è quella di trasmettere comandi motori ai muscoli volontari del corpo e di ritrasmettere al cervello le informazioni raccolte dai recettori sensoriali localizzati nei muscoli e nella pelle; quando agisce indipendentemente dagli emisferi cerebrali, il midollo spinale è in grado di mediare soltanto il comportamento riflesso. Al contrario, la neocorteccia ospita la maggior parte delle cellule e dei neuroni che servono ai processi cognitivi (percezione, pensiero, memoria), che identifichiamo con la mente umana e che Darwin chiamò la 'cittadella dell'evoluzione'. Così le strutture del cervello decisive per le emozioni occupano una posizione cardine nel sistema nervoso, fra le strutture più rilevanti per la mente e quelle più rilevanti per l'azione. Molti processi neurali implicati nell'emozione possono comunque operare senza coinvolgere la neocorteccia. I topi (o qualsiasi mammifero) possono acquisire una paura condizionata o appresa quando uno stimolo condizionato (un suono, una luce) è presentato in tandem con uno stimolo non condizionato (scossa elettrica). Le neuroscienze hanno dimostrato che da ripetuti accoppiamenti del suono e della scossa l'animale può imparare l'associazione fra di essi senza il coinvolgimento della neocorteccia, come si è evidenziato sperimentalmente o tagliando le vie nervose fra le strutture sottocorticali del sistema uditivo e la corteccia uditiva, oppure eliminando la corteccia uditiva stessa. Questi esperimenti hanno consentito di individuare una via delle emozioni completamente sottocorticale, identificando in alcuni nuclei del talamo, dell'amigdala, dell'ipotalamo e della sostanza grigia centrale del tronco encefalico le strutture fondamentali della via neurale sottocorticale per l'attivazione delle emozioni (v. apprendimento: Sperimentazione animale e approccio psicobiologico).
Gli studi hanno mostrato anche che diverse strutture cerebrali sono coinvolte nel processo neurale di valutazione (che determina il significato emozionale di uno stimolo) e nella mediazione del comportamento espressivo delle emozioni e che quest'ultimo implica due diverse strutture: l'ipotalamo media le risposte legate alla paura del sistema nervoso autonomo (come i cambiamenti della pressione sanguigna e del battito cardiaco) e la sostanza grigia centrale del tronco encefalico quelle comportamentali (come l'irrigidimento). Altre ricerche hanno dimostrato, inoltre, che l'ipotalamo è implicato anche in alcuni aspetti dell'espressione delle emozioni, compresa la mimica facciale.
I risultati di queste ricerche hanno portato a comprendere meglio le emozioni e i loro effetti sulla cognizione e sull'azione. In primo luogo, l'attivazione dell'emozione può verificarsi senza mediazione cognitiva, e dunque a livello preconscio. In secondo luogo, poiché la via sottocorticale è più breve (in termini di neuroni e numero di sinapsi), l'emozione mediata per via sottocorticale può fornire una risposta rapida, quasi automatica allo stimolo; in alcuni casi, per es. laddove lo stimolo è un segnale di pericolo, una risposta così rapida può essere decisiva per la sopravvivenza. In terzo luogo, sebbene le strutture sottocorticali possano fornire una valutazione grossolana dello stimolo sufficiente a una risposta immediata, è necessario l'intervento della corteccia per valutare gli aspetti più sottili dello stimolo e programmare il comportamento per farvi fronte. In quarto luogo, la corteccia e certi processi cognitivi da essa mediati sono necessari perché si possano efficacemente estinguere o regolare le risposte emotive acquisite, mentre esperienze emotive mediate per via sottocorticale o preconscia tendono a divenire ricordi indelebili. Infine, numerose strutture cerebrali hanno funzioni specializzate in relazione alle emozioni; danni in queste aree possono creare, infatti, un deficit specifico nel funzionamento delle emozioni: alcune ricerche neuropsicologiche hanno dimostrato, per es., che danni a certi nuclei dell'amigdala causano nel paziente la perdita della capacità di riconoscere le espressioni facciali delle emozioni, cosicché un soggetto di questo tipo può riconoscere una persona, ma non sa discernere che cosa senta; un danno più esteso all'amigdala provoca una grave perdita delle capacità sociali ed emotive, compresa anche quella di identificare il pericolo e di rispondervi in maniera adeguata.
2.
L'idea che le emozioni fondamentali abbiano una loro espressione caratteristica è presente fin nei primi documenti scritti e probabilmente fin dalle origini della vita sociale dei Mammiferi. L'ordine sociale dipende dalla comunicazione e l'espressività è stata una forma di comunicazione di molto anteriore alla comparsa di qualsiasi linguaggio. Ciò nonostante, nel secolo successivo alla pubblicazione del fondamentale trattato di Darwin sull'argomento (The expression of the emotions in man and animals, 1872), la ricerca sul tema non progredì molto e non dette risultati consistenti. Sebbene alcuni studi sui nati ciechi suggerissero che certe espressioni sono innate, i principi dominanti del comportamentismo pretendevano che le relazioni fra stimoli specifici e specifiche espressioni fossero dimostrate: non essendo frequenti tali relazioni, questa linea di ricerca però non ebbe buon esito. Gli studi sulle capacità delle persone di riconoscere le emozioni dalle fotografie di espressioni facciali ebbero come risultato un'alternanza di successi e fallimenti, e l'accoglienza di questo tipo di ricerche fu generalmente negativa. Verso la fine degli anni Sessanta del 20° secolo, alcuni studiosi, basandosi su una categorizzazione delle emozioni e facendo ricorso a criteri oggettivi per ottenere fotografie rappresentative delle varie categorie di espressioni, ottennero solide prove del fatto che le categorie di emozioni e le fotografie delle espressioni potevano essere accoppiate da persone appartenenti a culture diverse, sia non alfabetizzate sia alfabetizzate (nord e sudamericane, europee, asiatiche, africane). Queste scoperte, insieme con i primi studi sui nati ciechi e con la successiva ricerca sui neonati, fornirono un sostegno inequivocabile all'ipotesi di Darwin che un numero limitato di espressioni di emozioni sono innate e universali. Gli effetti del successo di queste ricerche sulle espressioni facciali si estesero all'intero campo delle emozioni, producendo un notevole incremento di conoscenza nel settore.
Lo studio dell'espressione delle emozioni ha fornito una notevole quantità di informazioni. Gioia, sorpresa, tristezza, collera, ripugnanza, disprezzo e paura hanno espressioni innate e universali. La ricerca sull'età evolutiva suggerisce che ciò vale anche per l'interesse. Le espressioni di interesse, di ripugnanza e un tipo di espressione di gioia (il sorriso neonatale) sono presenti alla nascita, così come la capacità di eseguire i movimenti muscolari richiesti in tutte le altre espressioni. Espressioni di tristezza e di collera sono presenti a partire dai primi due o tre mesi di vita. L'espressione (e l'esperienza) della paura non emerge prima dei sei-sette mesi, probabilmente perché deve svilupparsi prima la capacità del bambino di avvertire e comprendere il pericolo. L'espressione del disprezzo emerge nel secondo o terzo anno di vita, dopo che il bambino ha acquisito la capacità di paragonare sé stesso agli altri. I bambini, già a tre mesi di vita, sanno comunque distinguere le espressioni negative da quelle positive e cogliere la differenza tra una faccia animata e una priva di espressione. Essi rispondono con un atteggiamento negativo o di evitamento a espressioni di emozioni negative. In particolare i bambini si rifanno alle espressioni della madre come guida per il loro comportamento nelle situazioni ambigue. Partendo da questa linea di ricerca si può arguire che un eccesso di espressioni negative o una mancanza di espressione da parte dei genitori può creare difficoltà alla crescita del bambino: studi su bambini con madri depresse tendono a confermare questa ipotesi. Espressioni di emozioni positive nel rapporto madre-bambino sono associate allo sviluppo di un attaccamento sicuro, il quale, a sua volta, è associato a una buona salute mentale, mentre un eccesso di espressioni di emozioni negative si collega a un attaccamento insicuro e a un carattere difficile, tendenti entrambi ad aumentare il rischio di problemi di salute mentale.
Come osservarono C. Darwin, W. James e molti altri prima di loro, è possibile manipolare l'espressione delle proprie emozioni e in tal modo influenzare le proprie esperienze emotive. Questa idea è stata sottoposta a verifica sperimentale nel 1974 da J. Laird. Il risultato di questo e di altri esperimenti simili fu la dimostrazione che, quando a dei soggetti si fanno muovere i muscoli facciali in modo tale da produrre l'espressione di un'emozione, essi tendono a provare l'emozione corrispondente, anche se sono tenuti all'oscuro della natura e degli scopi dei movimenti muscolari eseguiti.
Effetti ancora più evidenti si possono ottenere quando un'espressione volontaria controllata dal soggetto è impiegata per accrescere o diminuire un'esperienza emozionale in atto. Così, se ci sono forti ragioni perché i soggetti nascondano i loro sentimenti, reprimendo le espressioni in risposta a uno stimolo che sollecita emozioni, essi mostreranno una risposta fisiologica attenuata e avvertiranno uno stato emotivo di minore intensità.
3.
Ci sono due scuole di pensiero riguardo ai processi implicati nell'attivazione delle emozioni. La prima asserisce che tutti gli stati emotivi, o per lo meno la maggior parte di essi, sono il risultato di qualche forma di cognizione. Alcuni sostenitori di questa teoria ritengono che tutte le esperienze emotive siano determinate da processi di valutazione. L'emozione che una persona prova è una funzione del modo in cui quella persona stima o valuta lo stimolo o la situazione. Valutare uno stimolo come vantaggioso conduce a emozioni positive, mentre valutarlo come dannoso porta a emozioni negative. Processi cognitivi aggiuntivi o una valutazione più elaborata dello stimolo o dell'agente determina la qualità specifica dell'emozione (per es., tristezza o collera). Alcuni studiosi che spiegano l'esperienza emotiva in termini di cognizione enfatizzano il ruolo delle attribuzioni causali: le esperienze emotive sono funzioni della percezione dell'individuo rispetto all'evento che provoca l'emozione. Se, per es., una persona fa del male a un'altra comportandosi in modo aggressivo, questa probabilmente si arrabbierà; ma se alla base del comportamento aggressivo vi è la perdita di controllo causata da un handicap fisico, la seconda persona proverà non rabbia, ma pena per l'altro.
La seconda posizione riconosce l'importanza della cognizione nel causare le emozioni, ma sostiene che vi sono anche attivatori non cognitivi. Nell'ambito di questa posizione sono stati descritti quattro tipi di sistemi di attivazione delle emozioni. Il primo è costituito da sistemi neurali la cui attività spontanea suscita direttamente sentimenti emotivi; tali sistemi neurali dipendono dalle informazioni presenti nei geni che controllano la soglia oltre la quale si attiva ciascuna delle emozioni primarie. Così certe persone sono più inclini a provare interesse e gioia e sono tipicamente descritte come persone felici. La loro emotività positiva è una caratteristica stabile, mentre per altri è una caratteristica stabile l'emotività negativa, che li rende più vulnerabili rispetto alla depressione o all'ostilità.
Il secondo tipo di sistema attivatore delle emozioni è sensomotorio, in quanto le informazioni critiche che conducono all'emozione provengono da processi sensori e motori. La fonte principale di attività sensomotoria capace di suscitare il sentimento è il comportamento espressivo. Che il comportamento espressivo influenzi i sentimenti era già chiaro, come s'è detto, sia a Darwin sia a James, e psicologi contemporanei hanno fornito prove empiriche del fatto che le espressioni facciali e la postura contribuiscono a generare un sentimento.
Il terzo tipo di sistema è definito affettivo, a indicare che stati pulsionali fisiologici (fame, sete, sesso, dolore) possono attivare le emozioni. Qualsiasi stato pulsionale di una certa intensità può abbassare la soglia di attivazione di un'emozione ed è dimostrato che certe condizioni fisiologiche, come il dolore, producono un'attivazione diretta. Per es., il dolore acuto dell'inoculazione (tramite ago e siringa) determina espressioni di collera in bambini piccoli ancor prima che essi abbiano la capacità cognitiva di capire la causa del dolore o di anticiparla. I processi affettivi (motivazionali) comprendono sia le emozioni sia le pulsioni fisiologiche, ed è stato provato che un'emozione o un particolare stato d'animo può causarne un altro. Un esempio si ha quando un lungo periodo di tristezza (come nel lutto e nella depressione) conduce alla collera: la sensazione di ritardo mentale e motorio tipica della tristezza può, infatti, essere percepita successivamente come una costrizione, che, a sua volta, produce frustrazione e collera. L'ira prodotta dalla depressione è spesso ostilità diretta verso sé stessi che può tradursi in autolesionismo e, in casi estremi, in suicidio. Altri studi e osservazioni cliniche indicano che la vergogna può aumentare la probabilità che emerga un comportamento iroso e ostile. La persona che prova vergogna può avere retrospettivamente la sensazione di aver subito un'offesa e l'offesa induce appunto ira. Il quarto sistema che attiva le emozioni è costituito da processi cognitivi quali i processi di valutazione e attribuzione causale precedentemente descritti. Gli umanisti e gli scienziati hanno da sempre saputo che l'immaginazione e la memoria possono attivare le emozioni. Queste forme di cognizione e molte altre, come il paragone, l'anticipazione e l'inferenza, possono provocare emozioni. La cognizione è un attivatore molto importante e frequente delle emozioni, ma una comprensione completa della genesi dei sentimenti nella coscienza richiede che si considerino anche gli altri sistemi.
4.
Quando gli studiosi si basavano sulla misurazione dell'attività del sistema nervoso autonomo per classificare le emozioni, la ricerca era focalizzata sulle funzioni delle emozioni in situazioni di emergenza, per es., la mobilitazione di energia in preparazione a un volo (paura) o a uno scontro fisico (ira-rabbia). Lo stesso lavoro che portava a interpretare le emozioni come risposta a situazioni di emergenza suggeriva anche che le emozioni sono stati transitori. Oggi, invece, è risaputo che le emozioni hanno molte altre funzioni e possono protrarsi per un lungo periodo di tempo. Le emozioni che si prolungano nel tempo, definite stati d'animo, caratterizzano la depressione e l'ansia cronica. Il perdurare nel tempo di tali stati d'animo suggerisce che essi sono parte integrante di tratti della personalità, e la ricerca ha dimostrato la validità di tale ipotesi. Le persone che hanno di frequente emozioni positive e raramente emozioni negative sono, con ogni probabilità, estroverse e socievoli. Invece, coloro i quali provano frequentemente sentimenti di ira, ripugnanza e disprezzo hanno, con molta probabilità, una personalità ostile e aggressiva. Gli individui che provano spesso paura, vergogna e timidezza sono, probabilmente, degli ansiosi cronici. Quando la tristezza costituisce l'emozione dominante in un modello che comprende vergogna, collera e senso di colpa, caratteristica della personalità sono l'inclinazione alla depressione e il suo periodico manifestarsi. I tratti della personalità basati sull'emozione sono molto utili per definire l'identità personale. Come osservò James, l'individualità è radicata nei sentimenti e la comprensione dei sentimenti di una persona è necessaria per capirne e prevederne il comportamento. Sebbene non ci siano dati certi sul fatto che le emozioni costituiscano i processi motivazionali di base che organizzano i tratti della personalità e ne assicurano la coerenza, tuttavia è provata l'esistenza di relazioni fra la misurazione di specifiche esperienze emotive e tratti della personalità.
5.
È generalmente accettato che le emozioni sono coinvolte nei problemi di salute mentale e nelle psicopatologie. Tuttavia, questa affermazione non è molto significativa perché le emozioni, positive o negative che siano, sono sempre implicate in ogni comportamento volontario dell'individuo e, anche limitandola alle emozioni negative, essa non aiuta a comprendere i problemi di comportamento. La stessa classificazione delle emozioni come positive e negative è più una questione di convenienza che una regola della scienza del comportamento. D'altronde le cosiddette emozioni negative sono anche intrinsecamente adattative: per es., condividere la tristezza rafforza i legami familiari e comunitari, l'ira potenzia la difesa della propria integrità e della giustizia sociale e il senso di colpa incrementa lo sviluppo della responsabilità e fa nascere il desiderio di riparare gli errori commessi. A causa di tale natura intrinsecamente adattativa delle emozioni in circostanze normali, c'è disaccordo riguardo al ruolo che le emozioni giocano nel comportamento abnorme. Tradizionalmente gli psichiatri si riferivano al pensiero e alle azioni devianti come a problemi emotivi. Ma ciò implica che le emozioni siano fra le cause primarie dei disordini del comportamento e questo è in contrasto con un principio basilare sia della teoria cognitivista, sia di quella biosociale delle emozioni. Infatti, le teorie cognitiviste sostengono che le emozioni sono determinate dalla cognizione (valutazioni, attribuzioni e altri processi cognitivi): se la cognizione è la causa primaria delle emozioni, allora le emozioni non possono essere la causa primaria del comportamento anormale. Le teorie biosociali dell'emozione riconoscono che la cognizione causa le emozioni, ma riconoscono anche vari altri sistemi non cognitivi di attivazione delle emozioni e che in circostanze normali le emozioni sono adattative. L'intrinseca qualità adattativa delle emozioni implica che il loro ruolo nei problemi di comportamento sia subordinato ai modelli di cognizione e di azione. In questa cornice, le emozioni sono implicate in psicopatologia in virtù del loro legame con modelli disadattati di pensiero e di azione. Nondimeno, ci sono circostanze insolite in cui le emozioni sembrano giocare un ruolo causale più diretto. Per es. la depressione, con il suo modello di tristezza, collera verso sé stessi, vergogna e senso di colpa, sembra manifestarsi senza cause esogene apparenti (ambientali o sociali) o, per lo meno, le cause esogene sono tali per cui non hanno un effetto apprezzabile sulla maggior parte delle altre persone. Tale depressione endogena (autogenerata) può verificarsi a causa di un disequilibrio in certi ormoni o neurotrasmettitori; un disequilibrio, quindi, di natura fondamentalmente biologica, e, in alcuni casi, la predisposizione verso di esso nasce da un particolare gene che si eredita. Il disequilibrio nei neurotrasmettitori cerebrali, come l'epinefrina e la norepinefrina, può generare direttamente il modello di emozioni tipico della depressione, senza mediazione cognitiva. In questo caso, le condizioni ambientali, i pensieri della persona e le emozioni sollecitate dal pensiero possono giocare solo un ruolo secondario. Questi ultimi fattori tuttavia non dovrebbero essere sottovalutati perché lo stress dovuto a emozioni negative legate all'ambiente o sollecitate da un evento può aumentare significativamente la probabilità che una predisposizione genetica si esprima di fatto in una depressione.
A livello di senso comune la nostra interpretazione degli stati interiori altrui si fonda su segni esteriori: parole, espressioni, atteggiamenti, reazioni fisiologiche ecc. La connessione fra manifestazioni esteriori e stati soggettivi, già problematica nei contesti che ci sono familiari, lo diviene ancora di più di fronte a categorizzazioni degli stati d'animo e a stili di pensiero e di comportamento diversi dai nostri. L'antropologo muove necessariamente da mappe linguistiche, condotte, rappresentazioni: indici di natura culturale la cui inevitabile mediazione rende difficoltoso l'accesso a quella dimensione interiore della quale è legittimo ritenere che essi possano costituire riflessi parziali e perfino infedeli. Inoltre, la sfera emotiva individuale è inestricabilmente connessa con gli eventi del mondo esterno e con le relazioni interpersonali, e gli uni e le altre presuppongono strategie valutative e processi di conferimento di senso, vale a dire, ancora una volta, dinamiche di natura culturale.
Alcuni studiosi hanno operato una distinzione fra emozioni fondamentali o primarie ed emozioni complesse. Nel primo gruppo vengono collocate emozioni come l'ira e la paura, cioè stati d'animo strettamente connessi con la sopravvivenza, già presenti nei bambini piccoli e nei primati non umani, che, possedendo un carattere universale, sarebbero facilmente riconoscibili in tutte le culture; nel secondo gruppo si collocano invece la vergogna, l'invidia, il senso di colpa, cioè emozioni che comportano la presenza di valori, conoscenze e obiettivi acquisiti all'interno di un gruppo umano particolare.
Ciò rimanda, in definitiva, alla questione dell'universalità/variabilità culturale della dimensione emotiva, problema che si è imposto agli studiosi nel momento in cui la vita affettiva ha cominciato a configurarsi come un ambito autonomo della riflessione antropologica. L'antropologia, infatti, pressoché dai suoi esordi, ha parlato di emozioni e sentimenti, ma lo ha fatto utilizzando l'affettività come un fattore in grado di corroborare ipotesi e dare conto di altri fenomeni (per fondare la differenza fra gli altri-emotivi e noi-razionali, per spiegare il comportamento magico-religioso, per dare conto dell'efficacia delle pratiche magiche o della funzione sociale dei rituali); oppure, giudicando che gli stati d'animo soggettivi non fossero di sua pertinenza, si è impegnata nella descrizione di espressioni codificate dei sentimenti, come i rituali del lutto.
Gli interrogativi sulla percezione soggettiva degli stati emotivi (qualità, intensità, autenticità) e sull'azione esercitata su di essi da valutazioni culturali e messinscena sociali hanno avviato un dibattito sul carattere relativo o universale delle emozioni e in definitiva, dato il ruolo svolto dalla vita affettiva nella definizione dell'umano, della stessa natura umana. Per es., M.E. Spiro (1984), appellandosi alla comune eredità biologica, afferma che alla pluralità delle culture non corrisponde una reale pluralizzazione della natura umana.
Al contrario, C. Geertz (1973) contestualizza e pluralizza questa nozione e riflette sull'inflessione inevitabilmente locale assunta da concetti come quelli di 'persona', 'Sé', 'emozione'. Geertz osserva che la specializzazione scientifica dell'Occidente, convertendo l'organismo, la psiche, la società e la cultura in altrettanti livelli separati, ha prodotto una 'concettualizzazione stratigrafica' dell'umano che non ha riscontro nei processi evolutivi propri della specie Homo sapiens. Il progressivo impoverimento del patrimonio istintuale della nostra specie e l'ingresso nell'ordine simbolico hanno conferito alle risorse culturali il carattere di veri e propri elementi costitutivi dei comportamenti umani, i quali hanno finito per essere governati dall'interazione di parametri biologici, sociali e culturali. Questo, afferma Geertz, vale anche per i comportamenti affettivi dell'uomo "l'animale più emotivo che ci sia", la cui sensibilità ‒ più intensa di quella di altre specie, più soggetta a variazioni individuali ‒ è stata sottomessa a "un ordine riconoscibile, significativo, così che sappiamo non solo sentire ma anche sapere che cosa sentiamo ed agire conseguentemente" (Geertz 1973, trad. it., p. 131). Se idee, atteggiamenti e sentimenti non costituiscono 'attività private' degli esseri umani ma 'manufatti culturali', diventa problematico postulare l'esistenza di una natura umana indipendente dalla cultura.
La critica di Geertz alla rappresentazione stratigrafica dell'umano e alla concezione della sfera emotiva come dimensione privata ha interessanti pendant nell'antropologia implicita delle società studiate dagli antropologi. Le società tradizionali ci propongono infatti concezioni sintetiche nelle quali la dimensione socioculturale è difficilmente separabile da quella psicologica e quest'ultima si fonde a sua volta con quella fisica, producendo rappresentazioni caratterizzate dall'assenza della dualità mente/corpo, dalla localizzazione delle emozioni in certe parti dell'organismo e dal conferimento di attributi psichici agli organi e alle membra del corpo umano. Queste idee ci sono in una certa misura familiari (anche noi parliamo di sangue che va alla testa o si gela nelle vene, tempie che scoppiano, capelli che si rizzano, ginocchia che tremano), ma nelle società tradizionali esse assumono di solito un carattere più sistematico e sembrano presupporre vere e proprie 'psicologie fisiologiche' (Hallpike 1979).
La vita affettiva delle società tradizionali, se da un lato è mediata da rappresentazioni che la radicano nella dimensione organica, dall'altro presenta un'inflessione decisamente sociocentrica. L'introspezione e l'interesse per gli stati emotivi altrui sembrano poco praticati in queste società, le quali prestano maggiore attenzione al carattere pubblico, piuttosto che a quello strettamente privato, degli stati emotivi, e agli effetti delle emozioni e delle loro manifestazioni esteriori sui rapporti interindividuali e sulla vita collettiva. In alcuni casi, questa attenzione è rivelata dal fatto che il discorso sulla dimensione emotiva si articola attorno a nozioni centrali che rimandano chiaramente alla vita collettiva e all'ambito delle relazioni interpersonali. Nella cultura dei pintupi dell'Australia, per es., una nozione di questo tipo è quella di walytja, "parentela". Come osserva R. Myers (1979), certi termini pintupi sembrano, a prima vista, agevolmente traducibili per mezzo di equivalenti come felicità, compassione, afflizione, imbarazzo, ma il loro senso effettivo può essere colto solo se prendiamo atto del fatto che essi vengono essenzialmente riferiti a situazioni pubbliche, piuttosto che a stati privati della coscienza e a considerazioni di carattere introspettivo: alla fine, essi rimandano sempre alla nozione di parentela e, per il tramite di questa, a quelle di cooperazione, solidarietà, identità comune, partecipazione alla vita collettiva. Nella cultura balinese, una spia significativa della teatralizzazione della vita collettiva è costituita dalla centralità dello stato emotivo lek, nel quale si esprime il timore che un comportamento inadeguato possa dissolvere l'illusione estetica della messinscena sociale e far affiorare la personalità individuale dietro la maschera dell'identità pubblica standardizzata.
Riflettendo sullo stile balinese, Geertz osserva che le maschere che gli individui indossano, lo spettacolo e le parti in cui si impegnano "costituiscono non la facciata ma la sostanza delle cose non meno che del sé" (Geertz 1977, trad. it., p. 80). In altri termini, sarebbe un errore interpretare i comportamenti dei balinesi attribuendo loro l'idea di una frattura fra Io sociale e Io interiore. A conclusioni analoghe perviene M.Z. Rosaldo (1984) riflettendo sulla nozione di rinawa, "cuore", che per gli ilongot identifica una cosa che agisce nel (e reagisce al) mondo, ma i cui moti restano nascosti, inesplicabili e opachi. Rosaldo si rifiuta di cogliere nel dato ilongot la spia di una contrapposizione fra un Sé individuale unico, spontaneo e autentico e una maschera sociale alla quale la personalità individuale resterebbe irriducibile: rappresentazione propria della nostra idea del Sé e della sfera affettiva, ma estranea agli ilongot. E ancora, gli zapotechi dicono che "noi vediamo la faccia, ma non sappiamo cosa c'è nel cuore", gli ommura giudicano gli stati interiori altrui del tutto inaccessibili, e un proverbio degli azande ricorda che "non possiamo guardare dentro una persona come guardiamo dentro un cesto".
Tutti questi dati indicano che, a partire dalle nozioni di lek e rinawa (e di altre che possiedono potenzialità analoghe), si potrebbe forse seguire la traccia di una universale distinzione fra vita interiore e finzione sociale, fra psicologia e sociologia del Sé, al di là degli specifici attributi di questa nozione in contesti culturali differenti; e alle dichiarazioni degli zapotechi, degli ommura e degli azande si potrebbe conferire lo statuto di sagge riflessioni sull'inaccessibilità della vita interiore, piuttosto che interpretarle come la spia (oltre che di un atteggiamento sociocentrico) di una vita interiore diversa dalla nostra. D'altra parte, non possiamo escludere in via di principio che la cultura svolga in effetti una funzione decisiva anche nella costituzione di quel particolare oggetto che è il Sé. La vera differenza fra gli altri e noi, è stato osservato, non riguarda tanto il livello dei processi, mentali e affettivi, quanto, piuttosto, quello dei prodotti ideazionali, cioé delle metafore e delle idee che sottendono l'azione dei membri di un certo gruppo umano (Shweder-Bourne 1984). La distinzione fra processi e prodotti, avvertono però i due studiosi, non va intesa come una sottovalutazione dell'azione esercitata dalle visioni del mondo, dato che esse, in definitiva, mediano il rapporto fra gli oggetti dell'attività interiore e i modi in cui questi oggetti vengono pensati e sentiti. I prodotti ideazionali e le messe in scena sociali potrebbero modificare la percezione soggettiva degli stati d'animo, trasformandone il senso, riducendone sensibilmente l'intensità o, al contrario, rendendo le emozioni più vere (consistenti, tangibili) per gli stessi soggetti. In ogni caso, come afferma Geertz, il problema non è se ogni cultura abbia tutto, ma la misura in cui possiede questo tutto, il grado in cui le cose sono elaborate e diventano determinanti.
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