empatia
Termine con cui si è soliti rendere in italiano quello tedesco di Einfühlung (anche tradotto con «simpatia simbolica»), usato in estetica e in psicologia per indicare la capacità di porsi nella situazione di un’altra persona con nessuna o scarsa partecipazione emotiva (quest’ultima è invece presente nel sentimento di simpatia).
La teoria dell’Einfühlung, formulata, sulla traccia di Herder, da Vischer (Über das optische Formgefühl, 1873) e da Lipps (Ästhetik, 1903), si diffuse soprattutto in seguito all’apparizione della fortunata opera di W. Worringer Abstraktion und Einfühlung (1908; trad. it. Astrazione e empatia). Secondo l’estetica di Vischer e di Lipps, l’uomo attribuisce bellezza alle forme nelle quali riesce a trasferire o proiettare il proprio senso vitale: il godimento estetico è pertanto godimento oggettivato di noi stessi. Ma per Worringer questa teoria è idonea a farci comprendere soltanto l’arte classica e quella rinascimentale, che nascono da un sentimento di immedesimazione con le forme organiche, mentre nulla ci può dire circa l’arte dei popoli primitivi e delle civiltà preclassiche e orientali, in cui prevale un sentimento antinaturalistico. Accanto al bisogno di e., va dunque postulata l’esistenza di un impulso originario di astrazione, che tende all’inorganico, al regolare, al geometrico. Insistendo sui fondamenti psichici dell’esperienza estetica, la teoria dell’Einfühlung ha dato un notevole impulso al costituirsi di una psicologia dell’arte, anche se gli studi in questo campo si sono poi orientati principalmente verso l’analisi dei fenomeni percettivi, secondo ipotesi assai più prossime alla teoria della pura visibilità (➔ Fiedler, Konrad).
La problematica della comprensione empatica ha acquisito nuova centralità a partire dai primi anni Novanta del Novecento nell’ambito della filosofia della psicologia e della filosofia della mente (oggi rientranti nella scienza cognitiva). Fermo restando il riferimento ai modelli storici della comprensione empatica (il Verstehen di Simmel e Dilthey in Germania, il re-enactement di Collingwood in Gran Bretagna), questo rinnovato interesse, e l’ampio dibattito che ne scaturì, presero le mosse da alcuni sviluppi della filosofia analitica del linguaggio e della mente, in partic. da una celebre tesi di Quine. In Word and object (1960; trad. it. Parola e oggetto) Quine aveva sottolineato come l’attribuzione dei cosiddetti atteggiamenti proposizionali o stati intenzionali (credenza, desiderio, speranza, ecc.), attraverso i quali nella psicologia del senso comune normalmente spieghiamo il comportamento dei nostri simili secondo il classico modello mezzi-scopi, si basi essenzialmente su una simulazione di tipo empatico. Per Quine, nel discorso indiretto, e più in generale nell’attribuzione di atteggiamenti proposizionali, l’enunciazione delle tipiche locuzioni «X crede che...», «X desidera che...», mediante cui si fa riferimento agli stati mentali del soggetto di cui si intende spiegare il comportamento, deriverebbe dalla nostra proiezione in quello che, dall’osservazione del suo comportamento, immaginiamo debba essere lo stato mentale del soggetto. In altri termini, le attribuzioni di credenza e desiderio si baserebbero sull’ipotesi che il soggetto da interpretare proferisca enunciati e abbia percezioni, credenze, desideri e in genere atteggiamenti proposizionali simili a quelli che avremmo noi se ci trovassimo al suo posto. Questa «virtuosità drammatica», come si esprime Quine, è così connaturata al nostro modo di interpretare gli altri che non esitiamo ad attribuire credenze, desideri e sforzi persino a creature prive dell’uso della parola. La simulazione empatica costituisce per Quine (Pursuit of truth, 1990), nonostante il suo comportamentismo, una modalità epistemica naturale con la quale correntemente e spesso inconsciamente attribuiamo credenze, desideri e percezioni. L’influenza di questa tesi quineana è difficilmente sopravvalutabile. Utilizzata e sviluppata sin dai primi anni Ottanta da S. Stich per l’analisi semantica degli enunciati di credenza (From folk psychology to cognitive science, 1983; trad. it. Dalla psicologia del senso comune alla scienza cognitiva), essa è alla base della ripresa del concetto di simulazione empatica nella filosofia della mente. Nel tentativo di render conto metodologicamente di una pratica la cui efficacia empirica, per quanto controversa, è stata molto spesso sottolineata, questa ripresa intende contrastare essenzialmente un modello alternativo delle attribuzioni di atteggiamenti proposizionali difeso dai filosofi della mente di orientamento funzionalista (D.K. Lewis, Fodor), il modello correntemente denominato teoria della teoria (theory theory). Secondo questo modello, tali attribuzioni, intese come descrizioni di antecedenti causali (ragioni, motivi) di un comportamento già osservato o anche di un comportamento imminente (e quindi predicibile), si baserebbero su un insieme di generalizzazioni o leggi di senso comune (correlanti stati mentali con altri stati mentali o con comportamenti) che costituiscono una vera e propria «teoria della mente», per quanto implicita e rozza. Con l’apprendimento e la socializzazione ciascun individuo acquisirebbe questa teoria (detta folk psychology), imparando a usare le sue leggi come regole di inferenza sia per spiegare sia per predire il comportamento dei suoi simili. Per contro, i difensori della simulation theory mettono in evidenza come le nostre capacità esplicative e predittive del comportamento umano siano in larga misura basate su un’attività di simulazione immaginativa (di solito espressa controfattualmente) degli stati mentali altrui e delle azioni (verbali e non verbali) che ne conseguono. Tra i proponenti e difensori della simulation theory vanno ricordati R. Gordon, A.I. Goldman e J. Heil.