ENCAUSTO
Sistema di pittura con i colori mescolati alla cera e che quindi per essere usati devono venir liquefatti dal calore (v. enkaustès).
La letteratura sull'e. nell'antichità è altrettanto copiosa quanto discorde, riconoscendo e negando volta a volta la tecnica ad e. nella generalità di determinati ambienti per lo più geograficamente o topograficamente delimitati, come ad esempio Pompei o il Fayyūm (v.). La tecnica dell'e. è descritta da Plinio (Nat. hist., xxxv, 149): "Si sa che fin dalla antichità vi furono due maniere di dipingere ad e.: con cera e con spatola su avorio, ossia a stecca. Le due tecniche durarono sole, finchè si cominciarono a dipingere le navi da guerra. Questo fu il terzo sistema, per cui si discioglie la cera al fuoco e si sparge col pennello; pittura che nelle navi resiste al sole, alla salsedine e ai venti". Nello stesso libro al capitolo 122, Plinio, pur dicendo di non sapere chi fosse stato il primo a dipingere ad e., fa una preziosa differenza tra "dipingere a cera ed encausticare una pittura". Questa encausticatura di un dipinto, procedimento diverso cioè dalla semplice pittura a cera, è ricordata anche da Vitruvio (vii, 9, 3): "... si spalmi sulla parete, quando è asciutta, della cera punica liquefatta al fuoco e stemperata con un poco d'olio; poi la si levighi con uno scaldino pieno di brace in modo da uguagliare la superficie e fare penetrare la cera; infine sulla superficie si strofini una candela e si sfreghi poi con un panno pulito con il procedimento normale per la gànosis". Press'a poco ripete le stesse cose un luogo di Plinio (Nat. hist., xxxiii, 118) dove è confermata anche l'analogia del procedimento pittorico con quello usato per lucidare i marmi (gànosis). Circa l'antichità del procedimento per la pittura delle navi lo si è voluto ricollegare al passo di Omero nel catalogo delle navi (Il., ii, 144, 637 e Plin., Nat. hist., xxxiii, 115) nel quale il poeta ricorda l'uso di dipingere in rosso i vascelli. Per quanto la cosa sia verosimile non è però del tutto sicura, in quanto si poteva usare del colore misto alla pece, che poteva essere anche esso resistente agli agenti atmosferici e alla salsedine. Non molto chiara è la differenza che poteva esistere fra i due primi metodi elencati da Plinio: se il pennello, infatti, per spalmare i colori appare solo in un secondo tempo, in qual modo si spalmava la cera nel primo metodo, se la spatola era specificata solo per la seconda maniera? La chiave del piccolo enigma si trova forse nel riferimento all'uso di dipingere le navi. In esse infatti la pittura aveva uno scopo puramente decorativo e non narrativo, decorava non descriveva, e quindi doveva consistere in colori spalmati con grandi spatole a coprire fianchi e carene, a rallegrare di vivaci tinte gli aplustri, forse anche a delineare grandi occhi apotropaici sulle prue. In tal caso erano più che sufficienti, anzi particolarmente adatte allo scopo, grandi spatole che permettevano di spalmare bene i colori, premendoli e facendoli aderire al fasciame ligneo della nave. Il secondo modo di dipingere, in ebore cestro, era invece riservato alla pittura più fine, ai quadretti di avorio (press'a poco delle miniature, data la superficie piana ottenibile con quella materia), e per questo era necessaria la spatoletta assai fine, che doveva essere piatta da un lato per spalmare il colore e doveva dall'altro avere una punta che permettesse le necessarie rifiniture disegnative: ecco quindi il vericulum, asticella appuntita da un lato e appiattita dall'altro, detta anche cestrum che consentiva ogni rifinitura e raffinatezza. Per un tal genere di pittura non occorreva avere i colori completamente liquefatti, ma bastava che l'amalgama della cera e del colore avesse una certa plasticità che si poteva anche ottenere con un calore molto moderato. Con il terzo metodo, nel quale il colore si doveva spandere con il pennello, e che costituì un progresso tecnico notevolissimo, i colori dovevano essere liquefatti al momento dell'uso e dovevano rimaner tali fino a che non fossero stati definitivamente spalmati sul supporto del dipinto: ecco quindi la necessità dei bracieri e delle tavolozze metalliche con vaschette per i colori, suscettibili di esser poste sul fuoco, come appaiono nel sarcofago di Kerč e nella tomba di St.-Médard-des-Près. Le recenti esperienze di E. Schiavi convincono anche della possibilità di ottenere una emulsione di cera e acqua che consentiva di usare per la pittura un normale pennello. Questa tecnica fu certo adoperata per dipingere su tela e su tavola: qualche riserva invece va fatta sulla possibilità di usarla nell'affresco. Sembra, anzi, che tale tecnica esiga un supporto già asciutto; perciò dove si incontrano saldature dell'intonaco indicanti le "giornate" di lavoro, sarà ben difficile supporre tale tecnica (per esempio Casa di Livia, Farnesina, ecc.).
La critica ha voluto vedere molto spesso tecniche ad e. in dipinti murali, specie pompeiani. Bisogna a questo proposito dire che le analisi non hanno affatto dimostrato la presenza di cere nell'impasto dei colori, quando invece sezioni di colore la hanno mostrata in superficie a mo' di vernice, e che la lucentezza delle superfici si deve pertanto o ai processi di arrotatura cui venivano sottoposti gli intonaci ancor freschi (v. affresco) ovvero alla encausticatura o verniciatura a cera descritta da Plinio e Vitruvio, processo tecnico, che come abbiam visto, è nettamente distinto dall'e. vero e proprio. Talvolta gli esempi addotti si sono poi rivelati delle semplici falsificazioni (come la famosa Musa di Cortona: C. Albizzati, in La critica d'arte, vii, 1937, p. 22). Non è da escludere che una tecnica ad e. potesse venir usata per quei pannelli (ligneis formis inclusi) che andavano inseriti al centro delle pareti e che venivano posti in opera a decorazione ultimata (A. Maiuri, in Rendic. Acc. Italia, i, 1940, p. 138). Altro punto molto discusso dalla critica è quello della eventuale presenza di olî e resine nella cera impiegata per macinare i colori. Tuttavia le ultime esperienze eseguite alla Versuchanstalt für Maltechnik di Monaco, riportate anche da Stout (in Technical Studies, i, 1932, p. 82) sembrano escludere nel modo più assoluto l'esistenza di elementi estranei alla cera, almeno nelle pitture a e. provenienti dall'Egitto. Il particolare trattamento che gli antichi imponevano alla cera vergine, con le successive bolliture nell'acqua di mare addizionata di nitro, con cui trasformavano la cera vergine nella cosiddetta cera punica, ne aumentava il punto di fusione e la rendeva adatta alle esigenze della pittura. La commistione con olî è del resto ricordata dalle fonti solo per l'encausticatura.
Di pitture antichissime ad e. non se ne conosce alcuna e per i periodi anteriori all'ellenismo siamo ridotti alle sole menzioni delle fonti. Da Plinio, nei passi già ricordati, si apprende che i più antichi pittori che avessero adoperato l'e. apparivano essere Polignoto, Nikanor e Mnasilaos, di Taso il primo, di Paro gli altri; se riflettiamo a ciò in relazione alle altre notizie che dicono la tecnica ad e. particolarmente resistente alle intemperie e alla salsedine, e al fatto che nei secoli posteriori essa sarà largamente documentata in Egitto, ove le piene del Nilo sottopongono gli oggetti alle sollecitazioni di vigorose alternanze del grado di umidità, vedremo come l'uso nei centri insulari della tecnica ad e. sia giustificata da particolari condizioni del clima. Ma l'artista che maggiormente si distinse nella pittura ad e. fu Pausias nel IV sec. a. C.; ed è interessante notare come Plinio che ne dà la notizia (Nat. hist., xxxv, 122) ricordi nello stesso tempo come encausticatore Prassitele, il che potrebbe anche significare che Pausias encausticasse, cioè verniciasse a cera i suoi dipinti, così come Prassitele dava la gànosis alle sue statue. Il processo di encausticatura per le statue dipinte con colori a tempera era anche in uso nella bottega di Lisippo (Cagiano de Azevedo, in Boll. Ist. Rest., 5-6; 1951, p. 107). Dipinte a cera, o meglio forse encausticate, sono le stele di Pagasai, modeste opere di artigianato, ma interessanti per la loro tecnica.
Veri e. sono alcuni ritratti del Fayyūm, dipinti a scopo funerario, che il clima egiziano ci ha conservato. Si tratta di un cospicuo numero di ritratti dipinti su tela o su legno - generalmente di sicomoro - dalla fine del I a tutto il IV sec. d. C. Alcuni sono dipinti a tempera, come quello del museo di Firenze, altri invece sono dipinti certamente ad encausto. Fra questi ve ne sono di quelli in cui i colori sono stati spalmati con il pennello (Vienna, Kunsthistorisches Museum, Collezione Graf, n. 67), altri a spatola (Vienna, ibidem, n. 23). Ve ne sono infine di dipinti a tempera ed encausticati in seguito; tra questi uno splendido esempio nel Museo del Louvre (Sala delle Stagioni). La tecnica della pittura a cera si mantenne in vita anche in età bizantina, come si desume da molti epigrammi della Anthologia Palatina.
Al momento della scoperta delle pitture di Ercolano e di Pompei si accesero molte discussioni fra i dotti sulla loro tecnica, e prevalse l'opinione che si trattasse di e., tantoché, nel fervore delle polemiche, l'Académie des Inscriptions di Parigi bandi nel 1775 un concorso che aveva appunto per tema la tecnica dell'encausto. In tale occasione, emerse il Caylus con la sua famosa memoria letta all'Accademia, dal titolo Mémoire sur la peinture à l'encaustique. A breve distanza di anni, seguirono gli studi dell'abate Requeno e del Fabbroni. Ancora oggi l'argomento appassiona alcuni studiosi, e anche recentemente si sono avuti studî al riguardo da parte del defunto Venturini Papari, di Augusti, di Aletti e di E. Schiavi.
Bibl.: C. Ph. de Caylus, Prima memoria sulla pittura encaustica a cera, letta all'Accademia delle Iscrizioni di Parigi, 1752; de Caylus-Majault, Mémoire sur la peinture à l'encaustique, Parigi 1775; P. V. Requeno, Saggi sul ristabilimento della antica arte dei greci e romani, Parma 1787; A. Fabbroni, Antichità vantaggi e metodo della pittura encausta, Roma 1797; H. Cross - C. Henry, L'encaustique et les autres procédés de la peinture chez les anciens, Parigi 1884; E. Berger, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte der Maltechnik, Monaco 1904; G. L. Stout, in Technical Stud., I, 1932, p. 82; E. Dow, in Technical Stud., V, 1936, p. 3; A. P. Laurie, in Technical Stud., VI, 1937, p. 17; C. L. Burdick, in Technical Stud., VII, 1938, p. 183; S. Augusti, in Pompeiana, Raccolta di studi...., Napoli 1950; E. Aletti, La tecnica della pittura greca e romana e l'e., Roma 1951; M. Cagiano de Azevedo, in Boll. Ist. Centr. Rest., 11-12, 1952, p. 199; E. Schiavi, Ritrovamento della tecnica pittorica greco-romana ad encausto, in Atti e Mem. Acc. Sc. e Lettere di Verona, VI, III, 1957, con ampia bibliografia; W. Klinkert, Bemerkungen z. Technik d. Pompeian. Wanddekoration, in Rom. Mitt., LXIV, 1957, p. 111 ss.; M. Cagiano de Azevedo, in Boll. Ist. Centr. Rest., 33, 1958, p. 9 ss.