endecasillabo
Il verso dantesco, e in particolare l'e., ha attirato fortemente l'attenzione degli studiosi fino a spingerli a una serie d'importanti considerazioni sui rapporti più generali fra poesia e metro, fra ritmo e parola, fra significante e significato. Pur senza scendere nei particolari di quanto è stato dibattuto, ricordiamo una serie di minuziose indagini dell'e. dantesco operata specialmente nei primi decenni di questo secolo (esasperando talora la funzione del suono degli elementi vocali del verso: Frascino, Amrein); a cui si contrappose l'atteggiamento idealistico: partendo dall'identificazione dell'intuizione e della poesia, la lingua viene assorbita dalla categoria estetica o dall'atto creatore, per cui si giunge a negare la validità, se non l'utilità, di estrarre qualsiasi forma tecnica della poesia. Per più di un trentennio lo studio delle forme metriche venne trascurato, anzi quasi del tutto abbandonato. Più tardi però, di un atteggiamento del genere qualche studioso accoglie alcuni assiomi positivi, come la necessità di non separare il metro dagli altri elementi significanti e dal significato, mentre respinge risolutamente la parte negativa, cioè l'agnosticismo in fatto di tecnica. Così il Casella, prendendo le mosse da una serie di osservazioni tecniche scaturite dall'approntamento di un nuovo testo della Commedia, sente fortissima la necessità di riportare metrica e ritmo al momento espressivo: ogni analisi metrica astratta dal contesto cade in un facile impressionismo, proprio perché è il valore contestuale che qualifica la versificazione. Così il Fubini, partendo da un robusto approfondimento di posizioni idealistiche, insiste sulla legittimità di una indagine metrica, come strumento di indagine critica, tenendo ben fermo che il verso risulta insieme dagli accenti, dai suoni, dal significato delle parole, dalle parole la cui varia composizione e lunghezza hanno un particolare valore. Più recentemente, i saggi danteschi del Contini (nessuno dei quali dedicati espressamente a problemi metrici), proponendo le operazioni del dantismo moderno " sotto l'etichetta di critica verbale ", tendono a privilegiare fortemente l'indagine metrica, naturalmente correlata con gli altri mezzi euristici della critica stilistica: il ritmo del verso, le sue varie velocità sono strettamente coerenti ai significati e ai contesti, anche se poi sarà necessario che il critico eviti " che mirabili simmetrie e combinazioni numeriche, che figure allitterative, ricami di dentali o labiali calunnino la legalità d'una ricerca strutturale, trasformando l'accidente in necessità e perseguendone l'applicazione su tutta l'estensione della massa espressiva ". Di qui, una serie di lavori sul verso dantesco, cioè, in sostanza, sull'e. dantesco, che hanno ulteriormente approfondito l'indagine metrica, connettendola con la situazione sintattica, col significato, con la realtà poetica nel suo più ampio complesso (Pazzaglia, Scaglione, Beccaria).
Osserva il Fubini che il verso Di quà, di là, di giù, di sù li mèna (If V 43) " è un tipico verso giambico, che, con tutti gli accenti che si succedono in ritmo regolare, ci dà l'idea delle anime dei lussuriosi portati in balia dei venti "; ma anche in con l'àli alzàte e fèrme al dòlce nìdo (V 83), le sillabe accentate sono le stesse, eppure " il verso è differente: non monosillabi, ma parole lunghe; là una rapina fatale, qui il volo diritto e sicuro delle colombe; il verso è differente in quanto quegli accenti cadono in parole di diversa estensione, di diverso colore, di diverso valore sentimentale, e ottengono un effetto diverso ". E si aggiunga, a confronto del citato If V 43, che gir non sa, ma qua e là saltella (XII 24), ugualmente monosillabico, con simile riferimento ad avverbi di luogo, eppure così diverso per la diversa interpunzione e la diversa immagine, per cui al posto di " una rapina fatale " si ha invece qualcosa di rattenuto ed esitante. Insomma, suono, sequenza di accenti, qualità delle parole, sintassi, figure retoriche, immagini, concetto appaiono intimamente congiunti, per cui si deve continuamente insistere sulla loro assoluta compresenza, anche se poi sia necessario distinguerli per un'opportunità propedeutica. Così, indicando il forte valore fonosimbolico dei suoni nei versi danteschi, dovremo sempre tener conto della loro funzionalità contestuale; ad esempio, i commentatori richiamano di solito il valore onomatopeico e simbolico del verso (e della terzina relativa) e cigola per vento che va via (If XIII 42): ma va subito aggiunto che quasi tutte le allitterazioni del canto sono concentrate sulle affricate o sulle sibilanti, in allusione appunto al soffio di sangue e parole: se state fossimo anime di serpi; allor soffiò il tronco forte, e poi / si convertì quel vento in cotal voce; nudi e graffiati, fuggendo si forte; soffi con sangue doloroso sermo (vv. 39, 91-92, 116, 138). E ancora: " Con ogni probabilità Dante ha consapevolmente gravato di valori fonosimbolici l'accavallarsi delle allitterazioni che troviamo per es. in If XXIX 82-83 e sì traevan giù l'unghie la scabbia, / come coltel di scardova le scaglie. Senonché, la suggestione di suono è operante se è ad un tempo suggestione di senso " (Beccaria). Non mancano cioè versi in cui si trovano sequenze di suono senza nessun riferimento all'immagine; le quali sequenze non sono allora significative, e magari possono essere del tutto casuali: e vero frutto verrà dopo 'l fiore, Pd XXVII 148.
In conclusione, lo studio dell'alternanza dei fonemi nel verso può portare, più di ogni altra analisi formale, a continue prevaricazioni, e potrà avere un suo valore quando condotta caso per caso: si ricordano, ad esempio, le giuste osservazioni da più parti fatte sulle i di plenilunïi sereni / Trivïa ride (Pd XXIII 25-26), ma forse può essere già azzardato definire il verso Priscian se va con quella turba grama (If XV 109) " un vers de onze noires syllabes qui bâillent en voyelles graves " (Pézard). Analisi di questo tipo risalgono del resto fino al Bembo, di cui si ricordano le osservazioni sul verso petrarchesco " Fior, fronde, erbe, onde, antri, aure soavi ".
2. Già nelle canzoni dantesche ritenute prime in ordine cronologico, di solito l'e. domina e si alterna a rari settenari: la preferenza dell'e., come è stato osservato, è un dato della lirica fiorentina precedente, da Chiaro a Monte; in particolare Chiaro fu uno dei primi a dare " l'esempio della grande stanza tutta di endecasillabi distribuiti in quattro periodi metrici " (Casini; e v. CANZONE); e soltanto nella canzone Poscia che amor del tutto m'ha lasciato (e nella stanza isolata Lo meo servente core, ricca di elementi arcaici; v. STANZA) si ha l'e. franto dalla rima interna, cioè iniziante con un trisillabo, segnato dalla rima rispondente al verso precedente: i continui provenzalismi di questa canzone, alcuni dei quali senz'altra attestazione in D., costituiscono l'equivalente lessicale di una tale struttura metrica (V. CANZONE 5.).
Una continua riflessione teorica, come è ben noto, accompagna la poesia dantesca, anche per quel che riguarda l'e. e la versificazione. Si ricordi la definizione dantesca dell'endecasillabo: Quorum omnium [versi] endecasillabum videtur esse superbius, tam temporis occupatione, quam capacitate sententiae, constructionis et vocabulorum; quorum omnium specimen magis multiplicatur in illo, ut manifeste apparet; nam ubicunque ponderosa multiplicantur, [multiplicatur] et pondus... Et sic recolligentes praedicta endecasillabum vidétur esse superbissimum carmen, VE II V 3, 8. Naturalmente, nella ricerca dantesca della tragedia, si tiene sempre ferma l'opera dei poeti a D. precedenti, dei suoi colleghi in poesia e della sua stessa opera: in tutti, l'e. appare appunto il verso adoperato nella situazione tematica e retorica più alta; superbissimum carmen quindi, sia per la durata ritmica, sia per la capacità di pensiero, di costrutto e di vocaboli. Nel Convivio del resto i versi sono definiti quel parlare che 'n numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade (IV II 12; per un ampio chiarimento su tempo regolato, v. Pazzaglia, Il Verso). D. cioè sente parimenti, nella sostanza del verso, il tema, l'ordinamento lessicale e sintattico, la struttura retorica e quella ritmico-metrica (ricordiamo anche le parole in riferimento all'ultimo verso di Voi che 'ntendendo: ponete mente la sua bellezza, ch'è grande sì per construzione, la quale si pertiene a li gramatici, sì per l'ordine del sermone, che si pertiene a li rettorici, sì per lo numero de le sue parti, che si pertiene a li musici, Cv II XI 9). Da questo punto di vista, l'esame dell'e. potrebbe indurre all'esame della poesia senz'altro di Dante. Naturalmente gli aspetti più propriamente linguistici e retorici dell'e. sono esaminati, in questa Enciclopedia, nelle singole voci di retorica, di lessico e di sintassi (e così ovviamente per quanto è del pensiero e dei temi): qui si partirà di solito da un punto di vista metrico del singolo verso, per cui è d'obbligo il rinvio a TERZINA; CANZONE; BALLATA; SONETTO; e anche per la trattazione della rima, così assolutamente determinante la struttura verbale e spesso l'esistenza stessa dell'e., si veda RIMA. Qui diremo appena che l'e. della Vita Nuova e delle Rime alla Vita Nuova assimilabili, mentre evita parole fortemente caratterizzate ed espressive, tende a terminare con rime poco vistose, anche banali (basti ricordare, in Donne ch'avete intelletto d'amore, la frequenza in rima di forme verbali in -ire, participi in -ati, -ato, -ata) e a esporre in rima i termini emblematici della spiritualità lirica stilnovistica (gentile: umìle; mercede: fede; amore: core; amore: onore; amore: segnore; linea e limitatezza che saranno continuate dalla rima petrarchesca: Bigi, La rima). Non così naturalmente l'e. delle petrose, in cui l'agevolezza de le... sillabe (Cv I X 13) in rima è ridotta al minimo, mentre si fanno frequenti le rime con una consonante liquida dopo una muta o l'accoppiamento di due liquide, espressamente condannate in VE II VII 5, II XIII 13 (v. CANZONE). Nella Commedia, una delle particolarità notevoli dell'e. diverrà non soltanto l'assoluta libertà dei suoni in rima, e insieme l'evidente accumulo di certi suoni a seconda delle necessità tematiche, ma anche la ricerca di effetti improvvisi e discordanti, talora violentemente energici, fino a esporre in rima latinismi e gallicismi inusitati, parole nuove o fortemente metaforiche, termini vistosamente popolari.
3. Il fatto che il tema, l'immagine siano assolutamente correlate con il suono e il movimento del verso, non significa che non sia possibile cogliere, nell'e. dantesco, una serie abbastanza numerosa di figure sintattiche ritornanti in consimili figure ritmiche (vedine un'ampia esemplificazione in Frascino, Suono): Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto (Pg XXI 82); Nel tempo che Iunone era crucciata (If XXX 1); Io cominciai: " Poeta che mi guidi... ", (II 10); I' cominciai: " Maestro, tu che vinci... ", (XIV 43), ecc.; e ancora l'avvio comparativo E come, o talora la posizione del gerundio entro il verso. Anche a questo proposito si può ben parlare di echi di D. entro Dante. Non va tuttavia trascurato che tali clausole sono più facilmente reperibili nelle parti di velocità ritmica più evidentemente narrativa, quasi insomma una serie di clausole che possono, sia pure assai da lontano, richiamarci le clausole di tipi poetici e narrativi assai diversi e lontani (da quelle dei cantari, e quindi dei poemi cavallereschi, a quelle delle favole pastorali o magari del romanzo). La cosa appare anche più evidente per Già era (o Era già) con cui cominciano 6 canti della Commedia (If XVI e XXVII e Pg II, V, VIII e XXII), e vedi Già eran, Pd XXI (e Già nel primo verso di Pg XXVIII, Pd XVIII). In questi casi si avrà insomma, più che una prevalenza del ritmo sul significato, un usufruire della stessa clausola in situazione consimile, appunto come passaggio narrativo: si pensi ai tipi Dimmi...; Ma dimmi...; O anima che...; Ahi quanto...; O quanto...; Ricorditi...; Luogo è...; Tal era io...; fino a giungere alla ripetizione di versi interi: ché, quando fui sì presso di lor giunto, Pg XIII 55; ma quand'i' fui sì presso di lor fatto, XXIX 46; Non fece al corso suo sì grosso velo, If XXXII 25; non fece al viso mio sì grosso velo, Pg XVI 4.
4. Il fatto che D., e i teorici del verso di poco a lui posteriori, Antonio da Tempo e Gidino da Sommacampagna, non abbiamo mai trattato degli accenti del verso (e dell'e. in particolare), ha indotto qualcuno (Marigo) a ritenere che l'accento non viene preso in considerazione perché troppo ovvia ed evidente è la sua importanza. Il Sesini giunge invece ad affermare che qualsiasi seguito di parole di undici sillabe, con la decima accentata, è " metricamente parlando, bello brutto che sia, un verso endecasillabo ". Appare invece probabile, poiché altri aspetti della prosodia, quali la struttura della canzone, sono minuziosamente esaminati, che il sistema accentuativo fosse sentito da D. e dai suoi contemporanei come non rigorosamente fissato; senza per questo giungere ad accettare la posizione piuttosto negativa del Sesini. Del resto, il fatto che D. in alcuni versi adotti un sistema di accenti lontano dai tre tipi più frequenti, fa ritenere che la canonizzazione di quei tre tipi appunto sia petrarchesca, o postpetrarchesca; anche se poi in realtà l'e. dantesco appare su quei tre tipi fondamentali saldamente incardinato.
Intanto, nell'edizione del '21 si aveva Iacob porgere la superna parte (Pd XXII 71) con accento di 3ª e 8ª, ma l'edizione Petrocchi propone Iacobbe porger, ristabilendo l'accento di 4ª, con buoni argomenti ecdotici e linguistici: il Migliorini analizza attentamente i casi (che l'edizione Petrocchi risolverà in tal senso) di caòsso (If XII 43), amècche (XXXI 67), Nembrotto (XXXI 77), Rachele (IV 60), così da leggersi, dato che il tipo ossitono in consonante vale, con tacita epitesi, per una sillaba in più. E non c'è da spendere parole sul tipo abbastanza frequente con tre gole caninamente latra, di If VI 14 (lasso, però che dolorosamente, Rime LXVII 4; e altra andava continüamente, If XIV 24; cotanto glorïosamente accolto, Pd XI 12; che l'uno e l'altro etternalmente spira, X 2; non sonò si terribilmente Orlando, If XXXI 18), data la lettura canina-mente, propria della lingua antica, per cui vedi il verso così quelle carole, differente- / mente danzando, Pd XXIV 16.
Forse anche in un verso come per lo furto che frodolente fece (If XXV 29), oltre che accenti di 3ª e 8ª sarà da vedersi un accento di 6a su frodo, anche per l'evidente giuoco furto / frodo.
E. con accenti di 5ª non mancano nella tradizione fiorentina anteriore a D., da Monte a Chiaro (Contini, Esperienze), sia pure in numero assai limitato. Nel D. lirico ha accento di 5ª almeno vestito di novo d'un drappo nero, Rime LXXII 9: la situazione ritmica pare anche più caratterizzata ove si tenga conto dell'enjambement col verso precedente: che venia / vestito... (nonché dalla testura franta di altri versi, quali quelli della terzina di chiusura); e sarà sullo stesso schema, ove si voglia accentare che, il verso la vipera che Melanesi accampa, Pg VIII 80. Di 3ª e 8ª appare il verso partirassi col tormentar ch'è degna, Rime LXVIII 36. Il verso parea che di quel bulicame uscisse (If XII 117) offre o un accento di 5ª o un singolare accento su di: la struttura metrica di questo verso va messa in relazione con il contesto ritmico di tutta la terzina (Poco più oltre il centauro s'affisse / sovr'una gente che 'nfino a la gola / parea che di quel bulicame uscisse), in quanto appare notevole che il verso chiuda una terzina in cui i primi due hanno accenti di 4ª e 7ª. Ma tutto il contesto ritmico dell'episodio del centauro rivela un'intenzione di faticoso e di rattenuto: numerosi altri versi con accenti di 4ª e 7ª (vedi oltre, 5.) 109, 110, 113, 125 e 128; ma forse di maggior rilievo (relativamente alla media dantesca) la presenza di versi con forte accento secondario sulla 9ª sillaba (vedi oltre, 6.): che fé Cicilia aver dolorosi anni, v. 108; e di costoro assai riconobb'io, v. 123; che da quest'altra a più a più giù prema, v. 130; La divina giustizia di qua punge, v. 133; a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, v. 137; e in ultimo si veda il verso, sempre dello stesso episodio, le lagrime, che col bollor diserra (v. 136), in cui si ha un accento principale su col, o uno schema uguale a quello del citato la vipera che Melanesi accampa.
Potrebbe far pensare a un accento di 5ª che diedi al re giovane i ma' conforti, di If XXVIII 135 (e la tradizione manoscritta ha largamente medicato il verso con Giovanni): ma in realtà un accento principale su re, seguito da uno su giovane, non può escludersi, anzi, nello stesso canto si veda il v. 103 E un ch'avéa l'úna e l'altra man mozza (e si aggiunga almeno che fa li miéi spiriti gir parlando, Vn XXVII 4 10). Notevoli appaiono anche versi come già surto fuor de la sepulcral buca (Pg XXI 9); ebber la fama che volontier mirro (Pd VI 48); grave a la terra per lo mortal gelo (Pg XII 30), con accenti di 4ª e 9ª: più probabilmente nel primo (si dovrà sospettare un accento sull'articolo almeno in Vidi Cammilla e la Pantasilea, If IV 124), mentre negli altri due si può forse pensare ad accenti rispettivamente su che e per. Fra i versi latini della Commedia, in uno si hanno accenti di 3ª e 8ª, e ‛ Beati misericordes! ' fue, Pg XV 38; più singolare appare In exitu Isräel de Aegypto, II 46. Più di trenta e. di 5ª sono stati contati nel Fiore, e anche su questa frequenza qualcuno (Fasani) ha puntato per escludere D. come autore dell'opera.
5. Il Fornaciari ha identificato una serie di funzioni dell'e. di 4ª, 7ª, 10ª, che appaiono pertinenti: un tale schema è frequente in versi alludenti a situazioni di particolare rilievo, e appare importante che editori classicheggianti ne ridussero la presenza nelle Stanze polizianesche, mentre alcuni trattatisti fra Seicento e Settecento ne condannarono l'uso. Ampia può essere l'esemplificazione di presenze in situazioni particolarmente concitate (vedine un lungo elenco in Frascino, Suono, pp. 73-77): ma che mi val, c'ho le membra legate?, If XXX 81; ch'elli ha sofferta, e guardando sospira, XXIV 117; o in momenti di " fretta, velocità e impeto nei movimenti ": dicono e odono e poi son giù volte, If V 14; ed el sen gì, come venne, veloce, Pg II 51; o in situazioni di particolare contrasto e sforzo: e s'io non fossi impedito dal sasso, Pg XI 52; batte col remo qualunque s'adagia, If III 111; graffia li spirti ed iscoia ed isquatra, VI 18.
L'osservazione può comunque acquistare maggior rilievo ove sia spostata su piano statistico: ad esempio, nel canto XIII dell'Inferno, escludendo i versi della caccia agli scialacquatori, si ha un verso su sei con accenti di 4ª e 7ª: " or bene, la metà precisa dei diciotto versi della caccia hanno accento di 4ª e 7ª, e tre hanno accento secondario rilevante di 3ª: tutto ciò si traduce naturalmente in una velocità rapida e disuguale insieme, qualcosa di inatteso e di estramamente mosso che succede all'alta e solenne retorica di Piero: similmente a colui che venire / sente 'l porco e la caccia a la sua posta, / ch'ode le bestie, e le frasche stormire, If XIII 112-114 " (Baldelli, Canto XIII); e così nel XIV dell'Inferno (vv. 51-60), nei dieci versi delle parole di Capaneo, quattro hanno gli accenti di 4ª e 7ª, cioè 52, 53, 58 e 59. D'altra parte, talora un tale ritmo è scelto a chiudere terzine o episodi dal lento avvio, quasi a dare un improvviso suggello di violenta intensità: Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, / perch'una li s'avvolse allora al collo, / come dicesse ‛ Non vo ' che più diche ', If XXV 6; sia però ben chiara la riserva che un tale schema ricorre in casi non particolarmente segnati: seco mi tenne in la vita serena, If VI 51; vedi Beatrice con quanti beati, Pd XXXIII 38; l'alto trïunfo del regno verace, XXX 98.
6. Qualcosa di simile si può sostenere per l'accento secondario di 9ª, quando sia rilevante, che, venendo a urtare con quello di 10ª, evidenzia la parola su cui cade: sarebbe quella ch'è nel mio cor penta?, Rime LXXI 3; che furo a l'osso, come d'un can, forti, If XXXIII 78; come fa donna che in parturir sia, Pg XX 21; Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento, If XIV 28; o gente umana, per volar sù nata, Pg XII 95; grave a la terra per lo mortal gelo, v. 30; fuor d'una ch'a seder si levò, ratto, If VI 38; dei quali versi naturalmente andrà giudicata la posizione nel particolare contesto ritmico e semantico: dell'ultimo verso citato, si dovrà dire che ratto è in forte posizione di enjambement con quanto segue (ch'ella ci vide passarsi davante); del penultimo, si noti che l'evidenziato mortal si oppone al celestial del verso precedente, a sua volta messo in rilievo dalla posizione iniziale e dall'enjambement (Vedëa Brïareo fitto dal telo / celestïal giacer, da l'altra parte, / grave..., Pg XII 28-30). Ma, in genere, spesso anche altri accenti forti che vengano immediatamente prima o immediatamente dopo un accento principale danno al verso un'intensità faticosa, evidenziando la parola portatrice di un tale accento.
Dopo l'accento di 6ª: mi parea lor veder fender li fianchi, If XXXIII 36; che mugghia come fa mar per tempesta, V 29; che lascia dietro a sé mar si crudele, Pg I 3; per li grossi vapor Marte rosseggia, II 14; quant'i' veggio dolor giù per le guance, If XXIII 98; da la cintola in sù tutto 'l vedrai, X 33. Nei quali versi il dato ritmico prende, al solito, rilievo, in concomitanza di altre presenze testuali: si pensi, cominciando dall'ultimo verso citato, la tante volte notata grandezza di quel tutto di Farinata, che è purtuttavia da la cintola, mentre i due accenti contigui sono su vocali uguali, con effetto singolarmente intensificante; nel primo verso citato, il rilievo di fender è l'equivalente ritmico dei valori semantici di agute scane del verso precedente; nel secondo, mar drammaticamente risponde a mugghia, che è il ‛ muggito ' del loco d'ogne luce muto, ove mugghia si lega a muto per opposizione semantica e per coordinazione allitterante; nel terzo, la situazione ritmico-semantica è singolarmente completante, e per il ritmo e per i significati, del primo verso della terzina Per correr miglior acque alza le vele, in cui si hanno ugualmente accenti di 6ª e 7ª, evidenziando (miglior) acque in parallelo oppositivo appunto con mar (si crudele). Si è anche parlato spesso di serie giambiche del verso dantesco (F. Garlanda, Amrein, Casella): cotai si fecer quelle facce lorde, If VI 31; così convien che qui la gente riddi, VII 24; così forando l'aura grossa e scura, XXXI 37; veder mi parve un tal dificio allotta, XXXIV 7; che ciascun'ombra fece in sua paruta, Pg XXVI 70; mi volsi al savio duca, udendo il nome, XXVII 41; e. giambici che paiono frequenti " non appena si accenna a uno svolgimento comparativo del pensiero ", e che " a mezzo di un lungo periodo... vengono ad articolare con forza graduata il ritmo, scolpendolo con vigore e allentandone la tensione " (Casella): Pg VI 40 e 82, VIII 25, IX 10 e 82, X 25 e 27, XI 112 e 136, XII 4, XIII 70, XV 137, XVI 7... Come anche di serie anapestiche: e li orecchi ritira per la testa / come face le corna la lumaccia, If XXV 131-132.
7. Come si è osservato, ogni accento secondario congiunto con una determinata cesura, o con l'assenza della cesura, con diverse presenze vocaliche e consonanti, dà al verso una sfumatura di suono particolare, da correlarsi con i valori denotativi e connotativi delle parole e del contesto: l'esame va fatto, a questo punto, quasi caso per caso. Ma fra le tante posizioni d'accento, ce n'è almeno un'altra (a cui chi ha studiato il verso di D. non ha prestato attenzione) chiaramente significativa, ed è l'accento di prima. Un tale accento è largamente usufruito da D. in situazioni d'intensità prorompente o di oratorietà particolarmente alta e solenne. Come spesso i grandi lirici, D. nelle sue rime sente di particolare importanza l'avvio, il primo verso, per il suo valore quasi emblematico: Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: Donne ch'avete intelletto d'amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento..., Vn XIX 2. E il grande verso con accenti di 1ª, 4ª, 7ª sarà, per tutta la canzone con cui comincia la poesia della lode a Beatrice, come un punto di continuo riferimento ritmico, sì che la prima e la quarta strofe cominceranno rispettivamente con Angelo clama in divino intelletto, v. 7; Dice di lei Amor: ‛ Cosa mortale ', v. 43; e ancora, donne e donzelle amorose, con vui, v. 13; escono spirti d'amore infiammati, v. 52; solo con donne o con omo cortese, v. 67; per non citare i molti altri versi con accento di 1ª e gli altri di posizione diversa: nei tre consecutivi 31, 32, 33, Dico..., vada..., gitta..., gli accenti di 1ª ottengono un loro effetto particolare situandosi sui tre verbi che parallelamente avviano i versi.
Assai numerose quindi le liriche che si avviano con un accento di 1ª, ma il fatto prende maggior rilievo ove si estenda ad altre strofe, come si è notato in Donne ch'avete; e così l'alta retorica di Doglia mi reca (Rime CVI), ne guadagna rilievo e intensità (inizio della seconda strofa: Omo da sé vertù fatto ha lontana, v. 22; della terza: Servo non di signor, ma di vil servo, v. 43; della quinta: Come con dismisura si rauna, v. 85; della sesta: Fassi dinanzi da l'avaro volto, v. 106). Numerosi anche i canti della Commedia che cominciano con accento di 1a; e anche qui il fatto prende spicco in contesti ritmici omologhi od oppositivi: si pensi al famoso avvio (Fubini) in cui la terzina ha accenti di 1a su parole sdrucciole: Vergine madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d'etterno consiglio, Pd XXXIII 1-3; così il forte rilievo dell'io del primo verso di If XXXII S'ïo avessi le rime aspre e chiocce, si esalta con l'io del v. 4 io premerei di mio concetto il suco (e del resto i due versi successivi ai citati hanno accento di 1ª); si aggiungano inizi di particolare violenza, come l'apostrofe Godi, Fiorenza (If XXVI 1), o anche Ecco la fiera (XVII 1). La funzione che può assumere l'accento di 1a si coglie, fra le tante situazioni, chiarissima nella struttura ritmica delle parole di Pier delle Vigne: Uomini fummo...; ben dovrebb'esser...; Io son colui...; fede portai...; tanto ch'i' ne perde'...; L'animo mio...; Quando si parte...; Cade in la selva...; quivi germoglia...; Surge in vermena.,.; fanno dolore...; Qui le strascineremo, If XIII 37, 38, 58, 62, 63, 70, 94, 97, 99, 100, 102, 106. O si pensi anche a celebri similitudini, che dall'accento di 1ª prendono non poca della loro energia e violenza: Come 'l ramarro... / folgore par... / livido e nero..., If XXV 79-83 (e nello stesso canto, Ellera abbarbicata mai non fue, v. 58). E lo stesso si ha spesso in situazioni di particolare concitazione retorica: ancora nello stesso canto: Taccia Lucano... Taccia di Cadmo, v. 94, 97; e in Pd VI: Poscia che...; cento e cent'anni...; Cesare fui, v. 1, 4, 10; in profezie: Alte terrà...; Giusti son due..., If VI 70, 73; in invettive: Cerca...; guarda...; giusto...; Vieni...; Vien...; Vieni...; vedova...; Cesare...; Vieni..., Pg VI 85, 94, 100, 106, 109, 112, 113, 114, 115.
8. Per quello che è della cesura, moltissimi sono gli e. danteschi scarsamente tagliati; ma in molti altri la cesura è fortissima, fino a coincidere con una pausa sintattica: ma el gridò: " Nessun di voi sia fello ! ", If XXI 72; sì ruinò, che nulla la ritenne, Pg V 123; Oh Bëatrice, dolce guida e cara!, Pd XXIII 34; Ecco l'angel di Dio: piega le mani, Pg II 29: " la pausa fondamentale, quella che caratterizza il ritmo della terzina dantesca e, facendola velo trasparente del pensiero, le conferisce la sinuosa pieghevolezza e la mobile agilità di cosa viva, resta sempre la pausa che, dopo l'accento di 4ª, frange l'endecasillabo precisamente quando la linea melodica, più o meno tesa nella successione varia di endecasillabi a tesi e ad antitesi, accenni al riposo o vi s'indugi: punto di raccordo dove si stringe o s'allenta o si scioglie la fine maglia del periodo " (Casella, Sul testo). L'e. risulta così frequentemente rotto in due parti ritmicamente distinte; ma vedi cesura (e dieresi e dialefe, su cui principalmente ancora Casella, Sul testo). Comunque, anche nel caso della cesura, come della dieresi e della dialefe, bisognerà badare al contesto ritmico e generale: si badi a situazioni eccezionali, in cui la cesura procede monotona per tutta la terzina, sia dopo il quarto accento: Siede la terra dove nata fui / su la marina dove 'l Po discende / per aver pace co' seguaci sui, If V 97-99; sia dopo il sesto accento: O voi che siete due dentro ad un foco, / s'io meritai di voi mentre ch'io vissi, / s'io meritai di voi assai o poco, XXVI 79-81. Altra situazione ritmica rilevante appare essere il frangimento del verso in una scrie di monosillabi, spessi di accenti: e disse: ‛ Or va tu sù, che se' valente! ' , Pg IV 114; " A ciò non fu' io sol ", disse, " né certo... ", If X 89; avendo più di lui che di sé cura, XXIII 41; di qua, di là, di giù, di sù li mena, V 43; mo sù, mo giù e mo recirculando, Pd XXXI 48; naturalmente ogni caso va studiato anche a sé, e già in relazione alle parole dello stesso verso che non sono monosillabi (si pensi all'ultimo verso citato, che si chiude proprio a contrasto, con un gerundio di cinque sillabe: " un endecasillabo a battute giambiche, che s'attenuano in un'ampia voluta ", Casella, Sul testo).
Numerosi, sia nel D. lirico sia nella Commedia, i versi che hanno una loro fisionomia particolare per la presenza di battute dialogiche che ne frangono singolarmente l'andamento, e spesso sono in lunga sequenza: ed elli a lei rispondere: " Or aspetta / tanto ch'i' torni "; e quella: " Segnor mio ", / come persona in cui dolor s'affretta, / " se tu non torni? "; ed ei: " Chi fia dov'io, / la ti farà "; ed ella: " L'altrui bene / a te che fia, se 'l tuo metti in oblio? "; / ond'elli: " Or ti conforta; ch'ei convene... ", Pg X 85-91; Di sùbito drizzato gridò: " Come? / dicesti " elli ebbe " ? non viv'elli ancora?... ", If X 67-68. Per converso, l'enjambement può dare all'e. una continuità al di là della sua durata; la struttura sintattica porta il verso a continuarsi su sé stesso, con effetti assai complessi che investono anche tutta la struttura della stanza o della terzina (e talora combinandosi con cesure e pause interne che variano ulteriormente la situazione: ma per un'analisi dell'enjambement, vedi TERZINA; STANZA): Io non so chi tu se' né per che modo / venuto se'qua giù; ma fiorentino / mi sembri veramente quand'io t'odo, If XXXIII 10-12; Così parlommi e poi cominciò ‛ Ave, / Maria ' cantando, e cantando vanio, Pd III 121; Mai non t'appresentò natura o arte / piacer, quanto le belle membra in ch'io / rinchiusa fui, e che so ' 'n terra sparte, Pg XXXI 49. Del resto, specialmente per le necessità narrative e ritmiche della Commedia, assai spesso il verso tende a prolungarsi sintatticamente, a rendere ritmicamente tangibili l'unità e l'autonomia della terzina: già il Lisio aveva osservato come la terzina venisse a costituire l'ordine del procedimento della Commedia dato che soltanto duecento otto terzine non si concludono con la fine della frase; mentre un settimo dei versi continua sintatticamente nel verso seguente (un quinto secondo i nuovi calcoli dello Scaglione), contro appena un sedicesimo dei versi delle liriche.
Ma sono da prendere in considerazione anche simmetrie e opposizioni di parole o di coppie di parole della stessa o di differente lunghezza, con strutture continuamente varianti dall'allineamento al chiasmo. Ecco una serie di coppie poste in posizione chiastica: l'alto trïunfo del regno verace, Pd XXX 98; qual fummo in aere e in acqua la schiuma, If XXIV 51 (e sottilmente chiastico sarà anche le donne e ' cavalier, li affanni e li agi, Pg XIV 109); coppie simmetriche: che ' lieti onor tornaro in tristi lutti, If XIII 69; come per acqua cupa cosa grave, Pd III 123. Coppie sinonimiche od oppositive di parole della stessa lunghezza assumono nell'e. dantesco anche valore ritmico (al solito, sia in posizione chiastica che simmetrica, se spesso congiunte da allitterazioni): e cantando e scegliendo fior da fiore, Pg XXVIII 41; Quello infinito e ineffabil bene, XV 67.
Per non parlare della ripetizione della stessa parola: pur me, pur me, e 'l lume ch'era rotto, Pg V 9; che Dio consenta quando tu consenti, Pd V 27; se non etterne, ed io etterno duro, If III 8; non pianger anco, non piangere ancora, Pg XXX 56 (cui segue ché pianger ti convien per altra spada); o di situazioni allitteranti, pur basate su immagini abbastanza frequentate nell'antica lirica, del tipo fiorian Fiorenza in tutt'i suoi gran fatti, Pd XVI 111. L'e. dantesco spesso tende quindi a un rilievo ritmico e retorico fortissimo, in cui l'allitterazione ha grande importanza (che ' marinari in mezzo mar dismago, Pg XIX 19; ma vedi ALLITTERAZIONE); e così parole in rima o in consonanza e assonanza: e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle, If I 38; verso di quella, che nulla nasconde, Pg XXVIII 30; e con ardente affetto il sole aspetta, Pd XXIII 8; tanto ch'io possa intender che tu canti, Pg XXVIII 48; frequente in gente antica e in novella, Pd XXXI 26; si fan sentir coi sospiri dolenti, If IX 126; disperato dolor che 'l cor mi preme, XXXIII 5; fuor se' de l'erte vie, fuor se' de l'arte, Pg XXVII 132.
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