ENDIMIONE (Ενδυμίων, Endymion)
Giovane pastore di grande bellezza, di cui la leggenda greca narrava che fosse stato amato dalla Luna (Selene). Questo amore divino per il bel giovanetto, secondo la forma più diffusa della leggenda, era localizzato sul monte Latmo in Caria, a poca distanza da Mileto e da Eraclea; ivi la dea, scesa a comtemplare il giovane dormiente, gli avrebbe dato un eterno sonno per poterlo furtivamente venire a baciare. Ma con E., sia in rapporto con tale lungo sonno, sia indipendentemente da esso, si connettono parecchie altre leggende. Egli, che ora appare quale figlio di Aetlio e di Calice, ora quale figlio dello stesso Zeus, viene da Zeus precipitato nell'Ade perché, ospitato nell'Olimpo, ha osato levare gli occhi su Era. Oppure, ricevuto da Zeus, ne ottiene di poter stabilire egli stesso il momento della propria morte. O anche, ospitato in cielo, ottiene da Zeus, per intercessione di Selene, di poter domandare quel che vuole, ed egli domanda eterno sonno accompagnato con l'immortalità e la giovinezza. Una forma della leggenda racconta come fosse stato E. ad accendersi di Selene, la quale da principio lo avrebbe disprezzato; ma poi, possedendo egli le pecore più bianche, gli avrebbe concesso il suo amore. Curiose alcune spiegazioni razionalistiche degli antichi, secondo una delle quali l'amore di Selene per Endimione significherebbe il contributo che al crescere dell'erba dà la notturna rugiada che si produce per le emanazioni della luna; mentre secondo un'altra E. sarebbe stato un cacciatore che avrebbe cacciato di notte con Selene (ossia al lume della luna) e dormito di giorno, sicché sarebbe passato per colpito da eterno sonno; e una terza infine fa di Endimione il primo meteorologo che avrebbe studiato di notte le fasi della luna.
L'arte antica trattò sovente il mito di E., specie in pitture parietali e in rilievi. Notevole fra questi un rilievo del Museo capitolino in Roma.
Bibl.: L. v. Sybel, in Roscher, Lexikon der griechischen un römischen Mythologie, I, i (1884-86), col. 1246 segg.; E. Bethe, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I (1893), col. 2557 segg.