Enea Silvio Piccolomini
Nel panorama storiografico del Quattrocento, Enea Silvio Piccolomini è importante in primis perché, come agente politico, fu testimone di molteplici eventi di portata internazionale, dei quali egli rese conto nella sua vasta produzione storica e memorialistica. Le sue opere furono, inoltre, caratterizzate dal suo vivace ingegno, dalla sua naturale curiosità, dai suoi molti interessi, dalla sua spregiudicatezza e dalla sua grande capacità ritrattistica. Piccolomini fu innovativo anche nel modo di combinare geografia, descrizione etnografica e storia: non a caso con la sua Germania pose le fondamenta del patriottismo tedesco. Tuttavia, non sempre il suo senso critico appare saldo.
Enea Silvio Piccolomini nacque a Corsignano, vicino a Siena, il 18 ottobre 1405. Crebbe in un ambiente rustico e modesto, visto che la sua famiglia, appartenente al partito nobiliare, era stata espulsa da Siena nel 1385. Nel 1423 si recò a Siena per studiare diritto e lettere classiche. Uno dei suoi professori di diritto fu Mariano Sozzini, con cui strinse anche amicizia. Nel 1429 si spostò a Firenze, dove seguì le lezioni di Francesco Filelfo e dove rimase per due anni.
Nel 1432 diventò segretario del cardinale Domenico Capranica, che accompagnò al Concilio di Basilea. La sua carriera successiva fu rapida e movimentata: per ragioni politiche o economiche fu spesso costretto a cambiare datore di lavoro. Al servizio del cardinale Niccolò Albergati, nel 1435, venne inviato in missione diplomatica in Scozia. Dal 1436 ricoprì alcuni incarichi ufficiali in seno al concilio (come scrittore e membro di vari comitati), divenendo famoso per le sue orazioni. Nel 1439 fu nominato segretario di Felice V, l’antipapa eletto dal concilio, e lo rimase per tre anni.
Alla fine del 1442 lasciò il servizio presso Felice V per un nuovo incarico presso la cancelleria del re di Germania, Federico III, a Wiener Neustadt. Per conto del sovrano svolse alcune importanti missioni diplomatiche: nel 1445, a Roma, ottenne un riavvicinamento tra papa Eugenio IV e Federico III. Nella medesima occasione Piccolomini si riconciliò personalmente con il pontefice, ammettendo nel corso di un’udienza i suoi precedenti errori (ossia la sua posizione conciliarista e il fatto di essere stato al servizio di Felice V) e riconfermando la sua piena adesione alla Sede apostolica.
A seguito di ciò la sua carriera ecclesiastica ebbe un nuovo impulso: ordinato suddiacono nel 1445, fu consacrato sacerdote nel 1447 e nello stesso anno ricevette la nomina a vescovo di Trieste. Nel 1450 fu trasferito alla sede vescovile di Siena.
Piccolomini, però, continuò a lavorare in Austria per la cancelleria di Federico III, tanto da seguire la delicata preparazione della sua incoronazione a imperatore, avvenuta a Roma nel 1452. Alle diete imperiali tenutesi in quegli anni a Ratisbona, Francoforte e Wiener Neustadt, egli promosse, ma senza successo, una crociata contro i turchi che nel 1453 avevano preso Costantinopoli.
Nel 1455 lasciò definitivamente l’impero per tornare in Italia e nel 1456 fu creato cardinale da papa Callisto III. Solo due anni dopo, nel 1458, venne eletto papa con il nome di Pio II e, nella sua nuova dignità, si allontanò completamente dalla sua originaria posizione conciliarista, divenendo uno strenuo difensore della monarchia papale. Nel 1460 emanò la bolla Execrabilis, con la quale condannò ogni appello al concilio contro le decisioni pontificie. Tra i suoi compiti più urgenti vi fu quello di organizzare una crociata contro i turchi, per la preparazione della quale riunì a Mantova, nel 1459, un congresso dei principi cristiani. Tale iniziativa ebbe però poco successo: il papa non riuscì infatti a convincere le potenze europee della necessità della crociata. Essa rimase così un progetto centrale, ma sostanzialmente fallito, del suo papato. Il 14 agosto 1464 Piccolomini, gravemente malato, morì ad Ancona mentre aspettava la partenza della flotta veneziana contro i turchi.
«È una sorte avversa dalla quale io sono afflitto, che io non sappia sottrarmi alla storia e impiegare in modo più utile il mio tempo» (De gestis Concilii Basiliensis commentariorum libri II, ed. D. Hay, W.K. Smith, 19922, praefatio, p. 2). La sorte avversa (ma è una fortuna per noi) della quale si doleva il giovane Piccolomini è non sapersi sottrarre dallo scrivere la storia dei tempi in cui egli stesso viveva e di cui si faceva «specchio»: come ha osservato correttamente Jacob Burckhardt,
ben pochi sono gli altri, nei quali l’immagine di quel tempo e della sua cultura spirituale si trovi così viva ed intera, e […] assai pochi altresì s’accostarono, al pari di lui, al tipo normale dell’uomo del primo Rinascimento (Die Cultur der Renaissance in Italien, 1860, 18692, p. 237; trad. it. 1968, p. 275).
Gli scritti di Piccolomini riflettono non solo gli eventi da lui vissuti, ma anche il suo percorso intellettuale: da studente, impegnato nello studio del diritto e nella lettura dei classici, a segretario di cardinali e principi, da pensatore antipapale a papa.
Negli studi critici non è mai stato facile trovare una spiegazione esaustiva del capovolgimento dell’atteggiamento politico e personale di Piccolomini. Prima di interpretarlo, seguiamo questo percorso guardando il caso concreto di due scritti di storia: le due versioni della sua storia del Concilio di Basilea.
La prima versione, il De gestis concilii Basiliensis commentariorum libri II, fu scritta negli anni 1439-1440. Nel primo libro, che inizia con la dieta di Norimberga del luglio 1438, Piccolomini presenta in tono apologetico il processo contro papa Eugenio IV e difende le scelte, le posizioni e la vittoria della maggioranza conciliare, che arrivò alla decisione di deporre il papa. Il secondo libro, meno lungo e meno concitato nella narrazione, racconta l’elezione del papa del concilio, Felice V.
Come mai egli scelse di non descrivere i primi otto anni del concilio che, ricordiamo, iniziò nel 1431? La scelta non deriva, come rivendicato da Piccolomini, dalla sostanziale inattività del concilio durante i suoi primi anni (egli afferma: «non ho potuto scrivere nulla, poiché nulla si era fatto», De gestis, cit., p. 6). Piuttosto è da pensare che Piccolomini si sia concentrato su quegli eventi che avevano messo in dubbio l’autorevolezza e la credibilità del concilio stesso, scrivendone una difesa molto mirata. Egli si sofferma a lungo sull’idea che il concilio avesse autorità anche sul pontefice romano (cfr., per es., p. 34: «è evidente, come abbiamo detto, che il papa è sottoposto al concilio»). Il secondo libro presenta le discussioni che avevano preceduto l’elezione di Felice V e ne descrive anche molto dettagliatamente il conclave. Così facendo Piccolomini rendeva noti tutti i fatti che, altrimenti, potevano sembrare opachi a chi non vi avesse assistito (cfr. p. 240). L’immagine data dei padri del concilio è quella di uomini onesti e senza ambizioni personali, pronti a sacrificarsi per la fede e il bene della Chiesa, proprio come i primi martiri cristiani (p. 128; cfr. O’Brien 2008, p. 70). Papa Eugenio invece è descritto, in un’orazione del cardinale Louis Aleman che Piccolomini riporta in esteso, come «devastatore della Chiesa» (De gestis, cit., p. 122).
Alla metà degli anni Quaranta del Quattrocento Piccolomini compì la sua famosa svolta, schierandosi al fianco di Eugenio IV, diventando vescovo e poi, nel 1458, lui stesso papa. I suoi primi scritti divennero allora per lui motivo di imbarazzo. È quindi verosimile che distruggesse la copia autografa del suo De gestis (come presumono, a p. XXX della loro introduzione al De gestis, cit., Denys Hay e Wilfrid Kirk Smith). Copie manoscritte delle sue opere erano però già molto diffuse. Se ne rese conto pubblicamente nella sua bolla di ritrattazione, In minoribus agentes, del 1463 (bolla che comunque rappresenta, in tarda retrospettiva, una conferma formale della sua svolta compiuta negli anni Quaranta):
Le parole scritte e appena pronunciate volano via senza che si possano più richiamare. I miei scritti non sono più in mio potere, che ormai sono giunti nelle mani di molti e sono letti ovunque (in Bullarum, diplomatum et privilegiorum sanctorum Romanorum pontificum […], 5° vol., a cura di F. Gaude, 1860, p. 173; per la prima frase cfr. Orazio, Epistulae 1, 18, 71).
Negli anni 1450-51 Piccolomini rimaneggiò in modo radicale la sua storia del concilio. Spiega così in una lettera:
è opportuno che nel trattato sul Concilio di Basilea io cambi molte cose, in quanto esso non ha avuto quell’esito che io pensavo; per questo motivo, è pericoloso scrivere la storia di ciò che è ancora in corso di svolgimento, mentre degli eventi passati si può scrivere senza pericolo (lettera al cardinale Juan Carvajal, 9 febbraio 1450, in Der Briefwechsel, hrsg. R. Wolkan, 2° vol., 1912, p. 100).
Il risultato fu un nuovo trattato, De rebus Basileae vel stante vel dissoluto concilio gestis commentariolum, mandato e dedicato allo stesso Carvajal (in Der Briefwechsel, cit., 2° vol., pp. 164-228). Piccolomini, che nel 1450 fu nominato vescovo di Siena, aveva intenzione di nascondere il più possibile il proprio passato conciliarista. Per questo eliminò qualunque riferimento alle posizioni prestigiose che lui stesso aveva tenuto a Basilea. Allo stesso tempo cercò di proteggere il papato dalle minacce che il concilio gli aveva posto, giustificando l’autorità del papa nella Chiesa. Già in queste due prime opere storiche, quindi, fondeva storia e apologia, fini storiografici e aspirazioni personali legate alla sua carriera ecclesiastica.
Un’altra opera di questo periodo conferma la stessa tendenza di Piccolomini a rielaborare le sue opere a causa dei suoi rapporti sempre più stretti con la curia romana. La sua frammentaria raccolta di biografie di persone famose (De viris illustribus), conservata in un solo manoscritto autografo che contiene anche una versione del De rebus Basileae […] gestis, capovolge sistematicamente alcuni atteggiamenti precedenti di Piccolomini. Egli, per es., presenta come traditori e promotori di cause ingiuste sia Ludovico Pontano sia Niccolò Tedeschi, due giuristi che, invece, al Concilio di Basilea aveva personalmente ammirato (De viris illustribus, edidit A. van Heck, 1991, pp. 3, 7; cfr. Bianca 1993, p. 33). La stesura di queste vite, composte in vari momenti nel corso degli anni Quaranta, fu abbandonata entro il 1450. Se da un lato non si sa perché l’opera sia rimasta incompiuta, è da sottolineare quanto fosse originale e sperimentale, poiché è incentrata su personaggi suoi contemporanei e non su figure del passato, come avveniva invece in altre raccolte umanistiche di biografie. È peraltro da mettere in risalto anche la vivida capacità ritrattistica che emerge sia da questa galleria di ritratti sia, più in generale, dai suoi scritti.
Alle opere sino a ora considerate fece seguito il Dialogorum libellus de somnio quodam (1453-1455 ca.), il quale si profila assai utile per capire l’atteggiamento critico di Piccolomini nel vagliare l’autenticità delle fonti. L’opera racconta un sogno fittizio in cui Piccolomini, durante un viaggio nell’aldilà, incontra varie persone storiche, tra cui san Bernardino da Siena (1380-1444), con cui discute l’autenticità della presunta donazione di Costantino. Qui san Bernardino avverte che le fonti storiche possono ingannare:
Non tutte le cose che sono state scritte sono degne di fede. Certo, le scritture canoniche hanno un’autorità indubbia. Ma negli altri casi bisogna sempre domandarsi chi fu lo scrittore, di quale vita, di quale credenza, di quale importanza, che cosa abbia detto: con quali cose concordi e con quali sia discorde, se dica cose verosimili, se le cose che si leggono concordino con i luoghi e i tempi. Non bisogna credere a caso a chi parla e a chi scrive (Dialogus, hrsg. D.R. Henderson, 2011, pp. 69-70; trad. it. di A. Scafi, Dialogo su un sogno, 2004, p. 196).
In particolare, Piccolomini – per bocca di san Bernardino – rifiuta la tradizione secondo la quale Costantino, malato di lebbra e guarito miracolosamente grazie al suo battesimo, avrebbe in cambio di ciò concesso ai pontefici romani il potere temporale su tutto l’Occidente:
Ho letto anch’io quelle cose […] sulla lebbra di Costantino […], ma non ci ho creduto, anche se i libri di devozione di cui si serve la Chiesa di Roma riportano spesso questo motivo. Ma non trovo niente sull’argomento in autori sicuri e conosciuti (p. 196).
Piccolomini, basandosi indubbiamente su argomenti proposti in precedenza da Lorenzo Valla e da Niccolò Cusano (però senza specificare che si riferiva a loro), negava quindi la veridicità storica della donazione di Costantino; ma ciò non equivaleva a negare il potere temporale dei papi. A proposito del potere temporale concesso dagli imperatori ai pontefici, egli affermava piuttosto: «Se non lo ha donato Costantino, lo ha donato un altro imperatore» (Dialogus, cit., p. 76; trad. it. 2004, p. 206). A conferma di ciò Piccolomini si soffermava anche sulle prime donazioni territoriali da parte dei Carolingi, con le quali, a partire dall’8° sec., era stato creato gradualmente lo Stato della Chiesa. Il papato aveva ricambiato facendosi artefice della translatio imperii dagli imperatori bizantini ai Carolingi, atto al quale era autorizzato dalla plenitudo potestatis, dalla «massima autorità sulla Terra», propria del vicario di Cristo (Dialogus, cit., p. 85; trad. it. 2004, p. 214).
Piccolomini giunge a formulare una giustificazione generale del potere secolare della Chiesa che si inserisce perfettamente nella sua svolta postconciliarista. Dal punto di vista del metodo storico è notevole che egli, pur avendo in quel momento già un ruolo nella gerarchia ecclesiastica, riesca a liberarsi da tradizioni secolari, basate su un documento falso ma ancora ufficialmente riconosciuto dalla Chiesa romana. Solo verso la fine del Cinquecento la stessa Chiesa rinuncerà completamente al riconoscimento della donazione di Costantino. Per dare un esempio, lo storico Carlo Sigonio fu costretto ancora nel 1578, dai censori curiali, a difendere la donazione in un’opera di storia (De occidentali imperio). Ma mentre Piccolomini non era l’unico a mettere in dubbio la donazione (ricordiamo Valla e Cusano), sembra particolarmente originale il fatto che egli tragga le conseguenze politiche e teoriche di quest’affermazione, sostituendola con la plenitudo potestatis che deriva da san Pietro e affermando la legittimità sia della translatio imperii, sia della creazione dello Stato della Chiesa (cfr. Henderson 2008, pp. 291-92).
La Historia austrialis fu composta in tre redazioni, le prime due delle quali, scritte tra il 1453 e il 1455, appartengono all’ultimo periodo che Piccolomini trascorse nell’impero prima di tornare definitivamente in Italia nel maggio 1455. Insieme al Dialogorum libellus essa chiude quindi il suo periodo letterario a Nord delle Alpi. Soprattutto con la seconda redazione della Historia austrialis (1454-1455), Piccolomini creò il modello umanistico di un’opera storica incentrata su un territorio nazionale e il suo popolo (Landesgeschichte). L’opera si apre con un’epistola dedicatoria all’imperatore Federico III; seguono un’introduzione con la discussione del nome e della topografia dell’Austria, una descrizione della città di Vienna e la presentazione della ‘preistoria’ dell’Austria. Specialmente nella descrizione di Vienna, Piccolomini si mostra un osservatore appassionato delle particolarità etnologiche del popolo. Nella terza redazione, stesa dopo il ritorno in Italia, ma prima che Piccolomini diventasse papa (cioè nel periodo tra il 1455 e il 1458), egli aggiunge un grande excursus sulla storia della casa degli Hohenstaufen.
L’opera corrisponde ai criteri della storiografia umanistica sia nel suo stile sia nelle sue intenzioni. Piccolomini attinge allo stile degli storici antichi romani (come Sallustio e Cesare), senza tuttavia aderire troppo strettamente a un solo modello. Per quanto riguarda l’uso delle fonti, egli dimostra senso critico filologico e anche un certo scetticismo verso le leggende. Si distanzia, inoltre, dall’idea medievale di storia della salvezza dell’uomo (cfr. l’introduzione di Martin Wagendorfer alla Historia austrialis, hrsg. J. Knödler, M. Wagendorfer, 2009, pp. XXIII-XXIV).
Per la ‘preistoria’ dell’Austria, usa e critica severamente una cronaca del 14° sec., composta da un autore ignoto (la Österreichische Chronik von den 95 Herrschaften), per la cui traduzione dal tedesco ricevette l’aiuto di Johannes Hinderbach, l’amico consigliere dell’imperatore che più tardi diventò vescovo di Trento (cfr. l’introduzione di Wagendorfer, cit., pp. XXXVII-XXXVIII; per le critiche, Historia austrialis, cit., p. 287: «storia […] assurda e falsa»). Per l’excursus sulla storia degli Hohenstaufen fino alla loro estinzione nel 1268 (Historia austrialis, cit., pp. 336-426), Piccolomini usò fonti come i Gesta Friderici e la Chronica di Ottone di Frisinga (m. 1158) e, per il periodo successivo, le Decades di Biondo Flavio. Sembra, tra l’altro, che Piccolomini abbia giocato un ruolo decisivo nella riscoperta di Ottone di Frisinga, cronista medievale di rilievo che era caduto in oblio.
Si ipotizza che la parte, molto dettagliata, relativa alla storia degli Hohenstaufen, venisse inclusa nella terza redazione, scritta durante il cardinalato, perché Piccolomini voleva mostrare all’imperatore come la collaborazione tra papi e imperatori, già sperimentata in passato, potesse fornire un modello per la nuova crociata contro i turchi. Piccolomini selezionava attentamente le informazioni offerte nelle fonti, soprattutto da Ottone di Frisinga, per mettere in rilievo l’operato di Federico Barbarossa e di re Corrado III a favore delle crociate, mentre le informazioni più scomode, relative ai contrasti tra i papi e gli imperatori, vennero tralasciate (cfr. Wagendorfer 2003, pp. 101-42). Per gli eventi connessi a Federico III sino all’anno 1455, Piccolomini si servì dei documenti del carteggio ufficiale della cancelleria dell’imperatore, nella quale egli lavorava (cfr. l’introduzione di Wagendorfer, cit., p. LII).
Possiamo valutare Piccolomini, per quanto riguarda questo testo, come un informatore ambivalente – a volte affidabile, altre meno. Commette errori quando descrive eventi sulla base del ricordo personale; inoltre altera la prospettiva di alcune fonti, per convincere i lettori dei suoi argomenti (cfr. l’introduzione di Wagendorfer, cit., pp. XXVII-XXX).
La Historia austrialis, a causa della sua tarda pubblicazione a stampa (1685), nel Quattro e nel Cinquecento fu recepita in misura minore rispetto a un’altra Landesgeschichte, la Historia bohemica. Nonostante ciò, nella Historia austrialis Piccolomini aveva coniato il modello umanistico per la stesura delle storie nazionali. In seguito, i suoi principi sarebbero stati imitati da molti altri scrittori (cfr. l’introduzione di Wagendorfer, cit., p. CLXXI). Sono particolarmente notevoli, innovativi e influenti sia il fatto che scrivesse da straniero la storia di un altro Paese, sia il modo in cui univa metodicamente la descrizione geografica, etnografica e culturale con la materia storica.
Piccolomini si era interessato alla Boemia già in precedenza, in particolare quando il Concilio di Basilea aveva affrontato il problema degli Hussiti. Nel 1451 fu inviato in missione diplomatica in Boemia come membro della delegazione imperiale e l’anno seguente vi fu nominato legato apostolico da papa Niccolò V. Queste esperienze gli permisero di scrivere la Historia bohemica in poche settimane, durante un soggiorno termale a Viterbo nell’estate del 1458. Rispetto alla precedente Historia austrialis, quest’opera è più omogenea e organica, più centrata sull’argomento e stringente nella struttura e nel contenuto.
Qui emerge meno la figura dell’autore, così come minori sono le curiosità aneddotiche su quei personaggi che avevano un ruolo minore nella storia del Paese (mentre nella Historia austrialis Piccolomini si era soffermato, per es., sulle amanti di Francesco Sforza e del re Alfonso di Aragona: cfr. Montecalvo, in Pius II, 2003, p. 79). Nel complesso la Historia bohemica è stata considerata «il capolavoro storiografico della carriera pre-papale di Piccolomini» (Montecalvo, in Pius II, 2003, p. 81). Quest’opera fu anche il suo scritto di storia maggiormente diffuso, tanto da veicolare un’immagine della Boemia destinata a restare famosa per secoli in tutto il mondo cristiano (cfr. Špička 2007).
L’opera, dedicata al re Alfonso V d’Aragona, si apre con una descrizione geografica del Paese. Seguono sia un tentativo di descrivere le origini della nazione boema, sia la presentazione della storia medievale del Paese fino agli anni a lui contemporanei. Il nucleo più importante della Historia si concentra sul movimento riformatore e rivoluzionario degli Hussiti, del quale Piccolomini spiega la diffusione, denunciandolo però come eretico. Egli giudica le tradizioni sui miti di fondazione e l’origo gentis poco utili per ricostruire la storia, soprattutto quella più remota, di un popolo. Non a caso, critica l’atteggiamento di quanti, per dar loro prestigio, ricercavano le origini di un popolo in un passato mitico. Riguardo ai Boemi, in particolare, ironizza sul fatto che si proclamassero discendenti dagli Sclavi, cioè da uno dei popoli che avevano costruito la Torre di Babele:
Quelli che vogliono imitare i Boemi, cercando la nobiltà di origine nella antichità stessa, rivendicheranno facilmente i loro inizi non più dalla torre di Babele, ma addirittura dall’arca di Noè, e perfino dal paradiso delle delizie e dai primi genitori e dall’utero di Eva, da dove tutti sono usciti. Noi tralasciamo queste cose come vecchie fandonie (Historia bohemica, a cura di D. Martínková, A. Hadravová, J. Matl, 1998, pp. 13-14; cfr. Montecalvo, in Pius II, 2003, p. 69).
La storia nazionale, secondo Piccolomini, non doveva partire dalla creazione del mondo, come accadeva nelle cronache medievali, ma doveva essere narrata dal momento in cui una regione aveva iniziato a essere abitata dal gruppo etnico che vi sarebbe poi rimasto ininterrottamente (Montecalvo, in Pius II, 2003, p. 70). Lo spirito critico di Piccolomini fu, però, meno sistematico di alcuni suoi contemporanei, quale, per es., Biondo Flavio, rispetto al quale ebbe probabilmente minor tempo e pazienza per confrontare e collazionare le fonti. Il metodo di Piccolomini nella critica delle fonti si basava, piuttosto, sul criterio della verosimiglianza. Per es., egli trovò poco credibile, come invece affermato in alcune fonti, che nella Boemia antica sia donne sia uomini andassero in giro nudi: il clima freddo, egli commentava, semplicemente non lo avrebbe permesso (Historia bohemica, cit., p. 16; cfr. Montecalvo, in Pius II, 2003, p. 60).
L’occasione per la stesura della Germania (scritta fra il 1457 e il 1458) fu una lettera inviatagli nel 1457 da Martin Mayr, cancelliere dell’arcivescovo di Magonza. Tramite essa (che Piccolomini ci tramanda in versione probabilmente abbreviata e revisionata da lui stesso), Mayr presentava le lamentele del vescovo circa i rapporti tra la Santa sede e la Germania, che erano arrivate dall’arcivescovo di Magonza:
È noto che si respingono ad occhi chiusi le elezioni dei prelati e si riservano benefici e dignità d’ogni genere ai cardinali ed ai protonotari; e in verità tu stesso hai ottenuto la riserva su tre provincie tedesche […] Si concedono spettative senza numero; si riscuotono le annate – ossia la metà delle rendite – senza alcuna dilazione […] Si dà l’amministrazione delle chiese non a chi più merita, ma a chi più offre. Per raccogliere denaro, si promulgano ogni giorno nuove indulgenze, e, col pretesto dei Turchi, si ordina la riscossione delle decime senza aver prima consultato i nostri prelati (Germania, a cura di M.G. Fadiga, 2009, pp. 135-36; trad. it. di G. Paparelli, 1949, pp. 17-19).
La risposta di Piccolomini consistette in un ritratto della Germania, in cui essa era descritta come ricca e capace di accettare tali interventi e pagare le somme in discussione. Lo scritto era solo in parte rivolto ai tedeschi; in verità, Piccolomini intendeva rendere evidenti le sue capacità diplomatiche anche agli occhi dei suoi colleghi nel collegio cardinalizio. D’altro canto, è un fatto che lo stesso Piccolomini, da poco nominato cardinale, per aumentare le sue entrate volesse ottenere delle prebende in Germania e, in vista di ciò, cercasse di giustificare tale concessione. Tralasciamo qui le motivazioni politiche e personali, per sottolineare che la Germania fu in ogni caso la prima descrizione completa del Paese redatta in età moderna, ponendo i fondamenti sia della storiografia nazionale tedesca sia del patriottismo tedesco; Piccolomini è stato perfino ritenuto il padre della coscienza nazionale tedesca, come unità politica e culturale, nel Quattro e Cinquecento. La lunga esperienza di più di vent’anni passati in Germania non solo gli conferì le conoscenze necessarie per descrivere il Paese, ma lo rese un tramite tra i tedeschi e il mondo italiano. Di fatto, Piccolomini, nella seconda metà del Quattrocento, fu l’autore di maggior successo sul mercato librario in Germania. Era ben più noto degli stessi autori tedeschi e può essere considerato «l’apostolo dell’umanesimo» a Nord della Alpi (cfr. Voigt 1856-1863, 2° vol., pp. 342-58; Worstbrock 19892, coll. 660-61).
Nel procedere nella sua descrizione dei territori d’Oltralpe, Piccolomini paragona due diversi momenti storici: la Germania barbarica dell’antichità e quella cristiana del presente, nella quale la nazione splende per potere e ricchezza sia materiale sia culturale. Unico suo punto debole, scrive Piccolomini, era che essa fosse frammentata in molti potentati locali che, refrattari all’unità politica, non sostenevano l’imperatore (Germania, cit., liber II, p. 216). Nella sezione dedicata ai costumi e alla cultura, Piccolomini loda la Germania per le sue università e l’ospitalità dei suoi abitanti. A suo avviso, solo un elemento barbarico è rimasto: la lingua tedesca (p. 212).
Per il resto erano stati i Romani antichi e la Chiesa cattolica ad aver civilizzato i tedeschi. La Chiesa, in particolare, aveva reso «cristiani gli infedeli, latini i barbari, onesti i viziosi, e aveva salvato i dannati» (Germania, cit., liber III, p. 240). La conquista romana, invece, aveva persino permesso ai Germani di entrare nella storia, dato che senza le descrizioni della Germania fornite dagli storici greci e romani non vi sarebbe neppure stata memoria di quell’antico popolo.
Le fonti per la Germania antica usate da Piccolomini furono il Bellum Gallicum di Cesare, la Geografia di Strabone e la Germania di Tacito (cfr. l’introduzione di Maria Giovanna Fadiga all’edizione della Germania, cit., pp. 53-57), auctoritates quindi della storiografica classica, molto più attendibili delle leggende medievali e delle genealogie fittizie che spesso si usavano per narrare la ‘preistoria’ di un popolo. Da notare che, alla metà del Quattrocento, il testo di Tacito era ancora pressoché sconosciuto. Piccolomini potrebbe essere stato uno dei primi a vedere l’unico manoscritto che ne ha trasmesso il testo, scoperto alcuni anni prima in un monastero tedesco e portato a Roma da Enoch d’Ascoli nel 1455. Né si può escludere che Piccolomini avesse colto il recente ritrovamento come occasione e punto di partenza per redigere il suo testo, del quale lo stesso titolo Germania è apertamente mimetico.
Piccolomini compose poi altre due opere di carattere prevalentemente geografico: il De Europa nel 1458 e il De Asia nel 1461. Ambedue dovevano fare parte probabilmente di una descrizione del mondo (Cosmographia) rimasta incompiuta per la morte dell’autore. Entrambi gli scritti si basano su autori antichi come Strabone, Tolomeo e Plinio il Vecchio. Mentre, però, la descrizione dell’Europa tiene conto anche del continente nella sua realtà contemporanea all’autore (prendendo, tra l’altro, metodicamente spunto dall’Italia illustrata di Biondo Flavio), quella dell’Asia fornisce non molto più di una summa del sapere antico.
L’Asia e anche alcune pagine dell’Europa vennero composte con intento chiaramente polemico: Piccolomini sostiene che gli antenati dei turchi erano violenti, crudeli e spregevoli, fatto che doveva aiutarlo, da papa, a organizzare la sua crociata contro gli stessi turchi. Secondo uno studio recente, per sostanziare questo suo orientamento polemico, Piccolomini avrebbe accuratamente selezionato i passi delle fonti in cui gli Sciti, ritenuti antenati dei turchi, erano presentati in modo negativo, ignorando invece altri brani di segno opposto; uguale atteggiamento avrebbe usato riguardo alle fonti medievali, alcune delle quali (come la cosmografia di Aethicus Ister) di tipo fantastico (cfr. Meserve, in Pius II, 2003). Una connotazione antiottomana era presente anche nell’Europa, che a tal proposito si poneva un obiettivo ideale di non poco conto: descrivere (o piuttosto poter descrivere) una comunità di cristiani, uniti nella religione e nella cultura contro la minaccia turca.
Fra le opere di Piccolomini i Commentarii (1462-1464) rappresentano una vera e propria autobiografia, che dalla giovinezza si estende sino agli anni del pontificato. I Commentarii sono uno dei testi più importanti della letteratura umanistica e costituiscono una fonte di straordinario interesse per la storia italiana ed europea della metà del Quattrocento. Piccolomini vi ripercorre la propria vita, giustificando le sue azioni e fissando un’immagine virtuosa di sé sia come politico, sia come pontefice. L’argomento principale dei Commentarii è, ancora una volta, la preparazione della spedizione contro i turchi. In ciò si ha un interessante punto di contatto con i Commentarii de bello Gallico di Giulio Cesare: anche questi voleva giustificare, con il suo scritto, una spedizione militare e, allo stesso tempo, esaltare la propria figura.
Un altro modello comportamentale è poi rappresentato, per Piccolomini, da Enea: come l’eroe cantato da Virgilio, anche Piccolomini per raggiungere il proprio obiettivo, ossia convincere gli alleati della necessità della crociata, si descrive come costretto a viaggiare di continuo (cfr. Enenkel 2008, pp. 300-29; O’Brien 2009). Così come Piccolomini varia, in modo agile e quasi giocoso, le allusioni al generale Cesare e all’eroe mitico Enea, allo stesso modo riformula e cambia anche le fonti documentarie e storiche che usava per narrare la sua autobiografia. Infatti, Piccolomini era famoso per la grande variatio che usava nelle sue orazioni, così che anche se parlava spesso degli stessi temi usava raramente le stesse parole. In modo simile, nei suoi testi scritti modificava le fonti a sua disposizione a tal punto che ancora oggi con un semplice confronto dei testi diventa quasi impossibile trovare l’originale (cfr. Märtl 2006, p. 248).
Il valore dei Commentarii come documento per la storia degli anni centrali del Quattrocento è evidente, in quanto il loro autore fu testimone oculare o, addirittura, fu coinvolto direttamente negli eventi narrati. È meno evidente invece il loro valore come scritto storico contenente molti excursus sul passato più remoto – questo anche a causa dell’impossibilità di individuare le fonti di tali excursus (come sopra accennato). Per quest’aspetto, che resta da studiare sulla base delle recenti edizioni critiche, basti un esempio. Nel terzo libro dei Commentarii (capp. 26-30; a cura di L. Totaro, 1° vol., 1984, pp. 530-69) si parla della storia di Venezia. Per redigere questa parte Piccolomini si basava su alcuni estratti presi dalle opere di Biondo Flavio e raccolti in un manoscritto che è ancora conservato. Da una lettura dei Commentarii, si possono dunque osservare le modifiche che caratterizzano il modo di lavorare di Piccolomini. Come prima cosa egli trasforma lo stile di Biondo, rendendolo maggiormente aderente al suo. Poi, in contrasto con Biondo (che era personalmente più legato a Venezia), mette in dubbio i miti dello Stato veneziano. Invece di godere di una piena libertas, i veneziani sarebbero stati soggetti all’impero bizantino e poi avrebbero ricevuto privilegi decisivi dal papa senese Alessandro III (1159-81); e anche all’interno dello Stato non vi erano libertà e uguaglianza, ma vigeva un’oligarchia tirannica. Di conseguenza, e anche perché erano ricchissimi, i veneziani erano obbligati, secondo Piccolomini, a partecipare alla crociata contro i turchi (cfr. Märtl 2006, pp. 242-44).
I Commentarii, quindi, sono un’opera affascinante per le variazioni di prospettiva. Piccolomini passa dal resoconto di fatti a lui contemporanei agli excursus storici, a cui aggiunge descrizioni di città e paesaggi, valutazioni di personaggi e aneddoti personali di straordinaria vivacità. Furono editi a stampa per la prima volta, in versione censurata, nel 1584 (cfr. Honegger Chiari 1991) e bisognò aspettare il 1984 per leggerli in versione critica e completa. Rimangono a tutt’oggi la sola autobiografia di un papa stesa in età umanistica, nonché un monumento unico della libertà di espressione del primo Rinascimento. Il testo può essere ritenuto «l’opera storica più moderna e spregiudicata prodotta dalla cultura italiana del ’400» (Prosperi 2006, p. 374).
De gestis concilii Basiliensis commentariorum libri II (1439-1440), ed. D. Hay, W.K. Smith, Oxford 1967, 19922.
De viris illustribus (1440-1450 ca.), edidit A. van Heck, Città del Vaticano 1991.
De rebus Basileae vel stante vel dissoluto concilio gestis commentariolum (1450-1451), hrsg. R. Wolkan, in Der Briefwechsel des Eneas Silvius Piccolomini, hrsg. R. Wolkan, 2° vol., Wien 1912, pp. 164-228.
Dialogus (1453-1455), hrsg. D.R. Henderson, Hannover 2011 (trad. it. precedente di A. Scafi, Dialogo su un sogno, Torino 2004).
Historia austrialis (1453-1458), hrsg. J. Knödler, M. Wagendorfer, Hannover 2009.
Der Briefwechsel des Eneas Silvius Piccolomini (ed. delle lettere fino al 1454), hrsg. R. Wolkan, 3 voll., Wien 1909-1918.
Germania (1457-1458), a cura di M.G. Fadiga, Firenze 2009 (trad. it. precedente parziale, solo del libro II, di G. Paparelli, Firenze 1949).
De Europa (1458), edidit A. van Heck, Città del Vaticano 2001.
Historia bohemica (1458), a cura di D. Martínková, A. Hadravová, J. Matl, Praha 1998.
Descripción de Asia (1461), a cura di D.F. Sanz, Madrid 2010.
In minoribus agentes (bolla di ritrattazione, 26 aprile 1463), in Bullarum, diplomatum et privilegiorum sanctorum Romanorum pontificum Taurinensis editio, 5° vol., a cura di F. Gaude, Augustae Taurinorum 1860, pp. 173-80.
Per i Commentarii (1462-1464) si vedano le edizioni:
Commentarii rerum memorabilium que temporibus suis contigerunt, edidit A. van Heck, 2 voll., Città del Vaticano 1984.
I Commentarii, a cura di L. Totaro, 2 voll., Milano 1984, 20042 (con traduzione italiana).
Commentarii, recensuerunt I. Bellus, I. Boronkai, 2 voll., Budapest 1993-1994.
G. Voigt, Enea Silvio de’ Piccolomini, als Papst Pius der Zweite, und sein Zeitalter, 3 voll., Berlin 1856-1863 (rist. anast. 1967; rimane a tutt’oggi la biografia più dettagliata).
F.J. Worstbrock, Piccolomini, Aeneas Silvius (Papst Pius II.), in Die deutsche Literatur des Mittelalters. Verfasserlexikon, hrsg. K. Ruh, G. Keil, W. Schröder et al., 7° vol., Berlin-New York 19892, ad vocem (con bibl. prec.).
S. Honegger Chiari, L’edizione del 1584 dei “Commentarii” di Pio II e la duplice revisione di Francesco Bandini (Analisi del libro primo), «Archivio storico italiano», 1991, 549, pp. 585-612.
C. Bianca, Pio II e il “De viris illustribus”, «Roma nel Rinascimento», 1993, pp. 25-34.
M. Pellegrini, Pio II, in Enciclopedia dei papi, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2° vol., Roma 2000, ad vocem (con bibl. prec.).
M. Wagendorfer, Studien zur “Historia austrialis” des Aeneas Silvius de Piccolominibus, Wien 2003.
Pius II, “el più expeditivo pontifice”. Selected studies on Aeneas Silvius Piccolomini (1405-1464), ed. Z. von Martels, A. Vanderjagt, Leiden 2003 (in partic. M. Meserve, From Samarkand to Scythia: reinventions of Asia in Renaissance geography and political thought, pp. 13-39; R. Montecalvo, The new Landesgeschichte: Aeneas Silvius Piccolomini on Austria and Bohemia, pp. 55-86).
C. Märtl, Wie schreibt ein Papst Geschichte? Zum Umgang mit Vorlagen in den “Commentarii” Pius II., in Die Hofgeschichtsschreibung im mittelalterlichen Europa, hrsg. R. Schieffer, J. Wenta, Toruń 2006, pp. 233-51.
A. Prosperi, Varia fortuna di Pio II nel Cinquecento, in Enea Silvio Piccolomini. Uomo di lettere e mediatore di culture / Gelehrter und Vermittler der Kulturen, Atti del Convegno internazionale, Basel (21-23 aprile 2005), a cura di M.A. Terzoli, Basel 2006, pp. 357-76, poi in Id., Eresie e devozioni. La religione italiana in età moderna, 1° vol, Eresie, Roma 2010, pp. 247-60.
J. Špička, La “Historia bohemica” di Pio II e la storiografia ceca, in Pio II umanista europeo, Atti del XVII Convegno internazionale, Chianciano-Pienza (18-21 luglio 2005), a cura di L. Secchi Tarugi, Firenze 2007, pp. 281-92.
K.A.E. Enenkel, Die Erfindung des Menschen. Die Autobiographik des frühneuzeitlichen Humanismus von Petrarca bis Lipsius, Berlin 2008.
D.R. Henderson, “Si non est vera donatio …”. Die Konstantinische Schenkung im ekklesiologischen Diskurs nach dem Fälschungsnachweis, in Nach dem Basler Konzil. Die Neuordnung der Kirche zwischen Konziliarismus und monarchischem Papat (ca. 1450-1475), hrsg. J. Dendorfer, C. Märtl, Münster 2008, pp. 283-305.
E. O’Brien, Aeneas Silvius Piccolomini and the histories of the Council of Basel, in The Church, the councils, and reform: the legacy of the fifteenth century, ed. G. Christianson, T.M. Izbicki, C.M. Bellitto, Washington (DC) 2008, pp. 60-81.
E. O’Brien, Arms and letters: Julius Caesar, the “Commentaries” of Pope Pius II, and the politicization of papal imagery, «Renaissance quarterly», 2009, 62, 4, pp. 1057-97.