ENFITEUSI
(XIII, p. 983; App. I, p. 561; II, I, p. 856; IV, I, p. 695)
La più recente e ormai consolidata politica legislativa in tema di e. prosegue la strada dell'abbandono di tale antichissimo istituto. La tendenza all'inclusione delle e. rustiche nella disciplina dei contratti agrari, manifestatasi chiaramente agli inizi degli anni Ottanta, comporta l'esaurimento delle funzioni economiche di tale istituto che, secondo la disciplina del codice civile, a tutt'oggi conferisce all'enfiteuta un diritto reale di utilizzazione del fondo, del terreno e del sottosuolo identico a quello del proprietario, ma non gli conferisce il diritto-dovere di esercizio dell'impresa, tanto è vero che non solo può cedere il suo diritto (art. 965 c.c.) ma può anche locare il fondo a terzi (art. 956 c.c.). La legge del 14 giugno 1974 n. 270, riprendendo il cammino tracciato dalla l. 18 dicembre 1970 n. 1138, ha ribadito la tesi largamente diffusa nella dottrina giuridica fondata sul ruolo dell'impresa nel contratto agrario e quindi sulla sua autonomia rispetto ad altri tipi di contratto. Si spiega così il generale sfavore per ogni contratto agrario associativo in cui si realizzi la presenza di portatori di interessi contrastanti: quelli della proprietà e quelli del lavoro. In questo senso va interpretata l'inclusione delle e. rustiche e dei livelli veneti nel ''Progetto di testo unico dei contratti agrari'', preparato nel 1984 per iniziativa dell'Istituto Giuridico Italiano.
Il crescente e determinante rilievo dell'impresa ha da tempo ispirato una complessa legislazione (l. 25 febbraio 1963 n. 327 e l. 22 luglio 1966 n. 607) che assimila all'e. tutti i contratti agrari di tipo enfiteutico. Tale assimilazione infatti ha avuto essenzialmente il fine di rendere applicabile a tali contratti la disciplina relativa all'affrancazione del fondo. Evidentemente l'e., che si può definire classica, non può essere trasformata in contratto agrario, ma ormai i diritti dell'enfiteuta rustico hanno subìto una tale trasformazione che si può affermare che essi costituiscono un presupposto dell'impresa agricola, anche se, in via puramente teorica, si possono avere enfiteuti non coltivatori o addirittura locatari. In effetti, com'è stato diffusamente notato in dottrina, l'indirizzo legislativo e giurisprudenziale afferma la prevalenza assoluta dell'affrancazione sulla devoluzione, salvo l'ipotesi di devoluzione a favore del coltivatore diretto. Su ciò va sottolineato che l'art. 9 della l. 18 dicembre 1970 ("L'affrancazione del fondo si opera in ogni caso anche quando si tratti di enfiteusi urbane, mediante il pagamento di una somma pari a 15 volte l'ammontare del canone") è rimasto indenne dalla sentenza d'incostituzionalità pronunciata dalla Corte costituzionale il 6 luglio 1974 (che pure aveva colpito gli artt. 3, 4, 5, 6, 7, 8 della stessa legge), e che tale indirizzo è confermato dall'art. 2 della l. 14 giugno 1974: "L'enfiteuta può detrarre dal capitale di affranco le somme liquide versate al concedente in relazione alla costituzione dell'enfiteusi, anche se non risultino dal contratto. Può, altresì, conteggiare le differenze tra il canone determinato ai sensi della presente legge e quello effettivamente pagato, relativamente alle annualità non ancora definite". In tale contesto vanno collocate e interpretate le norme che hanno assimilato all'e. e dichiarati perpetui i rapporti ad meliorandum in uso nel Lazio (l. 25 febbraio 1963 n. 327 e l. 22 luglio 1966 n. 607), in conseguenza e a testimonianza di un processo di modificazione profonda dell'attività agricola rispetto a regole secolari. Tutto ciò ha inciso anche sul punto basilare, ai fini dell'affrancazione, della determinazione del canone. Bisogna tuttavia distinguere. Per i rapporti costituiti precedentemente alla data del 28 ottobre 1941 bisogna riferirsi a quanto disposto dalla citata l. 22 luglio 1966. Per quelli costituiti successivamente va notato che, secondo le ll. 1138 del 1970 e 270 del 1974, in ogni caso il canone non può risultare inferiore alla quindicesima parte dell'indennità di espropriazione. Rimane peraltro pienamente in vigore quanto disposto dall'art. 961 c.c. in materia di pagamento del canone e 963 in tema di perimento totale o parziale del fondo con la possibilità, in questo secondo caso, di congrua riduzione del canone. L'orientamento del legislatore è evidente: il diritto dell'enfiteuta all'affrancazione prevale, anche quando si siano verificate le condizioni previste dal codice a favore del concedente per chiedere la devoluzione del fondo. Infatti il secondo comma dell'art. 972 del c.c. deve ritenersi abrogato nella parte in cui subordina l'esercizio del diritto di affrancazione alle condizioni previste dall'art. 971, essendo stati il primo, il secondo e il terzo comma dell'art. 971 abrogati dall'art. 10 della l. 18 dicembre 1970 n. 1138.
La disciplina inerente al canone e all'affrancazione, qual è stata progressivamente e radicalmente riformata rispetto all'antico schema dell'istituto, ha trovato nella sostanza appoggio nella Corte costituzionale che pure ha censurato su molti punti l'operato del legislatore. Ciò appare chiaro prendendo le mosse dalla sentenza n. 37 del 21 marzo 1969. Il legislatore in effetti proprio su tale base ha potuto perseguire il processo tendente a uniformare, intervenendo prima di tutto sul canone e sull'affrancazione, tutti i rapporti agrari ad meliorandum. Le sentenze della Corte costituzionale n. 145 del 18 luglio 1973 e n. 53 del 6 marzo 1974 hanno mostrato di condividere la politica legislativa, limitandosi a suggerire i criteri che la Corte giudicava equi per l'affrancazione delle e. agrarie, ribadendo nello stesso tempo la differenziazione da quelle urbane ed edificatorie. Anzi l'argomentazione centrale sviluppata dalla Corte finiva per rafforzare il processo tendenzialmente distruttivo dell'enfiteusi. Prendendo le mosse dal principio della libertà dell'iniziativa economica privata, la Corte rilevava la radicale differenza esistente tra la scelta del proprietario che abbia ritenuto di concedere un fondo in e., costituendo un diritto reale di godimento in favore del concessionario, e la scelta del proprietario che abbia invece inteso costituire un rapporto puramente obbligatorio, tanto di scambio che associativo, concludendo un contratto di affitto o di colonìa parziaria. Per completare il quadro normativo è necessario ricordare infine alcune ulteriori disposizioni, fino a quelle fissate dall'art. 54 della l. 3 maggio 1982 n. 203. Ricordato che la l. 14 giugno 1974 n. 270 aveva fissato la misura minima del canone dei rapporti enfiteutici costituiti dopo l'entrata in vigore del 3° libro del c.c., una questione controversa è stata risolta dalla l. 22 maggio n. 233 (interpretazione autentica degli artt. 1 e 6 della l. 25 febbraio 1963 n. 327). Di notevole importanza infine è la norma contenuta nell'art. 54 della citata l. 203/1982 applicabile ai rapporti costituiti in base ai contratti agrari e in cui siano prevalenti gli elementi del rapporto enfiteutico, categoria presa in considerazione dall'art. 13 della l. 607 del 1966. Si tratta di un testo largamente insufficiente − com'è stato da più parti rilevato − per genericità e incompletezza, che va tuttavia interpretato alla luce di un più che consolidato orientamento legislativo in favore dell'attività coltivatrice, nella direttiva cioè che porta dall'e. verso la proprietà. Tale orientamento non può essere considerato infine scalfito dalla sentenza (n. 406 del 1988) della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della l. 14 giugno 1974 nella parte in cui non prevede che il valore di riferimento prescelto per la determinazione del canone enfiteutico "sia aggiornato periodicamente mediante l'applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenere adeguata con una ragionevole approssimazione la corrispondenza con l'effettiva realtà economica". In realtà la Corte ha voluto, nel mantenere fermi i poteri amplissimi dell'enfiteuta, riconoscere che il concedente ha diritto a una giusta ed equa valutazione del suo diritto, che pur attenuato va concretamente riconosciuto. La norma dichiarata incostituzionale aveva ancorato il canone enfiteutico a un valore monetario che, con il passare degli anni, non corrispondeva più ai valori attuali. Pur non essendo ragguagliabile al valore di mercato la somma pagata al proprietario per l'affrancazione, tale somma non può essere meramente simbolica. Rimane pertanto ben salda la linea legislativa di fondo che ha considerato e considera l'enfiteuta come la parte socialmente più meritevole di tutela.
Bibl.: G. Galloni, Rilievo dell'impresa nella valutazione costituzionale della nuova disciplina enfiteutica, in Giur. costit., 1974, p. 569 ss.; P. Iannelli, La nuova enfiteusi, Napoli 1976; Commentario alla legge sui contratti agrari, a cura di A. Canozza, L. Costato, A. Massait, Padova 1983; P. Iannelli, Progetto di Testo unico sui contratti agrari ed enfiteusi rustiche, Ferrara 1984; A. Zimatore, La tipizzazione dei contratti agrari. Il modello dell'enfiteusi, Catanzaro 1988.