DE GIORGI, Ennio
Nacque l’8 febbraio del 1928 a Lecce figlio di Nicola e di Stefania Scopinich.
La madre proveniva da una famiglia di navigatori di Lussino, mentre il padre era insegnante di lettere all’Istituto magistrale di Lecce. De Giorgi ebbe una sorella, Rosa, e un fratello, Mario. Il padre morì prematuramente nel 1930; la madre, con cui ebbe sempre un forte legame, visse fino al 1988. De Giorgi, che non si sposò né ebbe figli, rimase molto legato alla sua famiglia di origine, così come sempre legato in modo profondo rimase alla sua città, di cui per tutta la vita volle conservare la residenza.
Ottenuta la maturità classica al liceo Palmieri di Lecce, nel 1946 De Giorgi si iscrisse alla facoltà di Ingegneria dell’Università di Roma, ma dopo il primo anno passò a quella di Matematica. Fra gli autorevoli maestri che ebbe in quegli anni, strinse un rapporto particolare con Mauro Picone, che aveva suggerito il suo passaggio da Ingegneria a Matematica. Picone fu uno dei più illustri maestri della matematica italiana; dalla sua scuola uscirono grandi personaggi dell’analisi, come Renato Caccioppoli, Gaetano Fichera, Carlo Miranda, Luigi Amerio, Guido Stampacchia. De Giorgi si laureò nel 1950 discutendo con Picone una tesi che riguardava la teoria della misura. Subito dopo la laurea ottenne una borsa di studio presso l’Istituto nazionale per le applicazioni del calcolo e, nel 1951, divenne assistente di Picone preso l’Istituto Castelnuovo di Roma. Nel 1958 vinse la cattedra di analisi matematica bandita dall’Università di Messina, dove prese servizio in dicembre. A Messina rimase un solo anno, perché nell’autunno del 1959, su proposta di Alessandro Faedo, fu chiamato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ricoprì per quasi quarant’anni la cattedra di analisi matematica, algebrica e infinitesimale.
Operare alla Scuola fu per De Giorgi sicuramente un’esperienza eccezionale. Dagli inizi degli anni Sessanta vi si ritrovarono via via alcuni dei protagonisti della vita culturale italiana, sia nella classe di scienze, sia in quella di lettere. Ricordiamo, fra gli altri, Aldo Andreotti, Iacopo Barsotti, Gilberto Bernardini, Enrico Bombieri, Gianfranco Contini, Mario Fubini, Eugenio Garin, Arnaldo Momigliano, Giovanni Nencioni, Giovanni Pugliese Carratelli, Luigi Radicati, Guido Stampacchia, Edoardo Vesentini. L’ambiente culturale della Scuola fu fondamentale per la maturazione professionale di De Giorgi: conversare e confrontarsi con colleghi e allievi, più che frequentare le biblioteche, fu il suo strumento principe di informazione e comunicazione, soprattutto scientifica. Verba manent, scripta volant, diceva talvolta indicando la massa di carte, lettere, articoli e fotocopie che ricoprivano la scrivania del suo studio e che rischiavano sempre di volar via per qualche colpo di vento. Da questo punto di vista è sintomatica la testimonianza di Giovanni Prodi: spesso quando gli esponeva qualche importante teorema di analisi funzionale De Giorgi non manifestava stupore, sembrava che «bastasse segnalargli il risultato perché lo reinterpretasse nel suo quadro mentale e ne riscontrasse immediatamente la validità» (Ennio De Giorgi. Hanno detto di lui..., p. 81).
Alla Normale di Pisa De Giorgi rimarrà legato per tutta la vita, e a Pisa ebbe modo di formare una scuola di analisti (non solo italiani) «il cui valore è universalmente riconosciuto» – come ebbe a dire il suo ‘padrino’ Jean-Louis Lions quando gli fu conferita nel 1983 la laurea honoris causa alla Sorbonne di Parigi. Tra gli altri prestigiosi riconoscimenti ricevuti da De Giorgi: il premio Caccioppoli, appena istituito, assegnatogli nel 1960 dall’UMI (Unione Matematica Italiana); il premio nazionale del presidente della Repubblica italiana nel 1973; il premio Wolf per la matematica dello Stato di Israele nel 1990; la laurea honoris causa in filosofia dell’Università di Lecce nel 1992. De Giorgi fu inoltre socio dell’Accademia nazionale dei Lincei, membro dell’Accademia nazionale delle scienze, detta dei XL, dell’Accademia pontaniana, dell’Accademia delle scienze di Torino, dell’Istituto lombardo, dell’Accademia ligure e della Pontificia accademia delle scienze. Nel 1995 fu nominato socio straniero dell’Académie des sciences di Parigi e della National academy of sciences degli Stati Uniti. Benché ricevesse spesso pressanti inviti da parte di varie università, non furono frequenti i suoi viaggi all’estero. Una sola volta si recò negli Stati Uniti, quando nel 1964 passò quattro mesi fra la Brown e la Stanford University su invito di Wendell Fleming. Fece eccezione Parigi, dove si recò invece quasi ogni anno, invitato da Jean Leray o da Jacques-Louis Lions.
Da sempre coinvolto in varie attività di volontariato, un impegno fortemente determinato dall’intreccio tra la sua visione sapienziale della matematica e le sue profonde convinzioni religiose, dagli inizi degli anni Settanta dedicò grande energia a sostenere i diritti umani, conducendo varie battaglie in difesa di dissidenti politici o religiosi; battaglie nelle quali riusciva a coinvolgere molte persone provenienti da varie e diverse tradizioni politiche e ideologiche. De Giorgi divenne membro attivo di Amnesty International, associazione di cui fondò il Gruppo pisano, cogliendo ogni occasione per illustrare e diffondere la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Uno dei grandi matematici del Novecento, De Giorgi è ricordato sia per la sua abilità di risolvere problemi sia per la sua capacità di proporre nuove teorie e congetture, e nuovi ambiti di ricerca. Questi ultimi, sinteticamente, sono stati la teoria geometrica della misura, il calcolo delle variazioni e la teoria delle equazioni alle derivate parziali. A cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, il principale oggetto di studio di De Giorgi e della sua scuola furono i problemi legati alla Γ-convergenza, un tipo di convergenza per funzionali (un funzionale è una funzione che ha funzioni come argomento). A partire poi dalla metà degli anni Settanta una parte notevole delle sue ricerche fu dedicata alla logica e alla teoria dei fondamenti.
Seguendo la traccia fornita nel dossier su De Giorgi pubblicato in Lettera matematica pristem nel 1998, ricordiamo brevemente alcuni dei momenti più rilevanti della produzione di De Giorgi.
Nel 1955 pubblicò il suo primo risultato importante. In un lavoro di poche pagine, e privo di riferimenti bibliografici, Un esempio di non-unicità della soluzione di un problema di Cauchy, relativo ad un’equazione differenziale lineare di tipo parabolico (in Rendiconti dell’Accademia nazionale dei Lincei, matematica e applicazioni, n. 14, pp. 382-387), presenta un’equazione alle derivate parziali lineare, di tipo iperbolico, con coefficienti regolari che, oltre alla soluzione nulla, ha anche una soluzione non nulla. In altre parole, per tale tipo di equazioni il problema di Cauchy non ha soluzione unica. Il risultato ebbe una notevole eco nel mondo matematico, e gli valse la stima immediata di Jean Leray, il quale nel 1966 costruirà alcuni altri contre-examples du type De Giorgi (Ambrosio, Dal Maso, Forti et al., 1999 [poi sempre BUMI], p. 10).
Il suo risultato più famoso – quello che, è stato detto, determinò l’ingresso di De Giorgi nella stretta cerchia dei grandi matematici di tutti i tempi – fu fornire nel 1957 il tassello mancante alla risoluzione completa del 19° problema di Hilbert: «Le soluzioni dei problemi regolari del calcolo delle variazioni sono sempre necessariamente delle funzioni analitiche?». Nei fatti, la soluzione del problema fu consegnata a un’importante memoria presentata al V congresso dell’UMI dell’ottobre del 1955 (Alcune applicazioni al calcolo delle variazioni di una teoria della misura k-dimensionale, Atti del V Congresso U.M.I., Pavia-Torino 1955, Roma 1956), in cui De Giorgi dimostrò, facendo uso della proprietà isoperimetrica della ipersfera, un risultato di regolarità per i minimi dei funzionali regolari del calcolo delle variazioni. Questo risultato viene oggi comunemente chiamato teorema di De Giorgi-Nash, perché dimostrato da De Giorgi alcuni mesi prima di John Nash, premio Nobel per l’economia nel 1994. Di là dal risultato, le tecniche da lui introdotte per risolvere questo problema sono diventate uno strumento fondamentale di lavoro nella teoria delle equazioni alle derivate parziali. Il contenuto del testo del 1955 sarà meglio precisato in alcuni lavori immediatamente successivi (Sull’analiticità delle estremali degli integrali multipli, in Rendiconti dell’Accademia nazionale dei Lincei, classe di scienze fisiche, matematiche e naturali, 1956, n. 20, pp. 438-441, e Sulla differenziabilità e l’analiticità delle estremali degli integrali multipli regolari, in Memorie dell’Accademia delle scienze di Torino, classe di scienze fisiche, matematiche e naturali, 1957, n. 3, pp. 25-43), nei quali viene fornita una dimostrazione del teorema di regolarità con tutti i dettagli.
La soluzione del 19° problema di Hilbert ebbe un’evoluzione molto particolare che merita di essere raccontata (cfr. BUMI, p. 8). È stato infatti osservato che il fatto che la risoluzione del problema non compaia nel titolo della comunicazione del 1955 fa pensare che De Giorgi non avesse ancora ottenuto tale risultato quando si iscrisse al Congresso. Ciò è confermato da quanto Enrico Magenes ha raccontato circa il modo folgorante in cui fu ottenuta la dimostrazione del teorema di regolarità, durante la commemorazione di Ennio De Giorgi all’Accademia dei Lincei. Nell’agosto 1955, durante una camminata nei pressi del Passo Pordoi, De Giorgi apprese da Stampacchia dell’esistenza del 19° problema. Dovette quindi subito vedere la possibilità di applicare alla risoluzione del problema i risultati delle sue ricerche sulla geometria dei sottoinsiemi degli spazi euclidei pluridimensionali, dal momento che in meno di due mesi fu in grado di presentare al Congresso dell’UMI la sua risoluzione del problema di Hilbert. In una nota del 1968, Un esempio di estremali discontinue per un problema variazionale di tipo ellittico, pubblicata sul Bollettino dell’UMI (n. 1, pp. 135-137), fornì poi l’indicazione di una soluzione debole e discontinua di un sistema uniformemente ellittico. La questione sollevata nel 19° problema di Hilbert, quindi, ha una risposta affermativa nel caso di una equazione, ma ha risposta negativa nel caso di sistemi di equazioni.
Alla fine degli anni Sessanta De Giorgi affrontò l’ambito problematico riguardante il comportamento delle superfici di area minima, espressione introdotta da Giuseppe Luigi Lagrange nel 1762 per indicare superfici che rendono stazionaria l’area rispetto a variazioni della superficie stessa. Da un punto di vista matematico, si tratta del problema di trovare, fissato un contorno C nello spazio tridimensionale, la superficie con l’area più piccola possibile tra le superfici che hanno C come bordo. Il problema può poi essere generalizzato (e si parla del problema di Plateau, sul quale torneremo anche più avanti) considerando superfici a n dimensioni in spazi a (n+1) dimensioni. Sono allora in questione superfici minime n-dimensionali (cioè superfici che minimizzano l’area della superficie rispetto a qualche proprietà: nel caso esemplare delle bolle di sapone, rispetto al volume d’aria contenuto). Come racconta Enrico Giusti (cfr. Ennio De Giorgi: anche la scienza ha bisogno di sognare, 2001 [poi sempre EDG], pp. 287-290), si presenta in questo caso un problema analogo a quello già incontrato nell’affrontare il 19° problema di Hilbert: da una parte, per garantire l’esistenza di soluzioni del problema di Plateau è consigliabile ampliare la classe di superfici che si considerano, ammettendo cioè anche superfici non regolari, con punti angolosi, cuspidi ecc.; dall’altra, una volta trovata una soluzione in questa classe ampliata, si pone il problema di dimostrare che la superficie che realizza il minimo è in realtà una superficie regolare. Ancora una volta l’esistenza e la regolarità sono in contrasto tra loro: più si amplia la classe delle superfici, più è facile dimostrare l’esistenza del minimo, al prezzo però di complicare notevolmente il problema della regolarità. In accordo con il principio secondo cui è conveniente mettersi nella situazione più ampia possibile, prendendo come superfici gli oggetti più generali per i quali si possa parlare di area, De Giorgi propose di utilizzare le frontiere degli insiemi n-dimensionali che possono essere approssimati con insiemi poligonali di perimetro finito (una classe di insiemi introdotta da Caccioppoli). De Giorgi li userà in primo luogo per l’esistenza di superfici minime in ogni dimensione. In questa classe così generale, la dimostrazione dell’esistenza del minimo non è difficile. Molto più ardua è la dimostrazione della regolarità. Un primo risultato positivo fu ottenuto da De Giorgi nel 1968, in un lavoro effettuato in collaborazione con Bombieri e Miranda, in cui si dimostrò la regolarità dei grafici di area minima. Per questi ultimi risolse anche un annoso problema, generalizzando un risultato ottenuto da Sergei N. Bernstein nel 1915, il quale dimostrava che nello spazio tridimensionale gli unici grafici minimi sono piani. De Giorgi estese il risultato a spazi di dimensione minore o uguale a 8, e poi, in un lavoro del 1969, scritto con Bombieri e Giusti, dimostrò che il risultato era falso per spazi di dimensione maggiore o uguale a 9. Come De Giorgi disse in una conferenza del 1987, per ben comprendere le caratteristiche delle usuali bolle di sapone tridimensionali era stato necessario considerare qualcosa che, in modo immaginifico, può essere chiamato una bolla di sapone in uno spazio di otto dimensioni. Si era così scoperto che le superfici di misura minima presentano un dato comportamento fino allo spazio a otto dimensioni e, di là da questo tipo di spazi, improvvisamente cambiano. E aggiungeva: «Si potrebbe pensare che sia del tutto irrilevante il problema delle superfici minime in spazi a più di tre dimensioni per il fatto che si tratta di spazi non ‘visibili’. Emerge, così, una delle caratteristiche dell’analisi, cioè la fiducia verso l’esplorazione del mondo invisibile per capire a fondo gli eventi visibili» (EDG, p. 169).
Nel 1973 uscì un lavoro di De Giorgi e Sergio Spagnolo dedicato alla Convergenza degli integrali dell’energia per operatori ellittici del secondo ordine (in Bollettino dell’U.M.I., n. 8, pp. 391-411). Il tema del lavoro era la G-convergenza, una teoria sviluppata da Spagnolo sul finire degli anni Sessanta e così chiamata in quanto convergenza delle funzioni di Green. Il quadro della G-convergenza, che era di tipo operazionale, si avviò verso una caratterizzazione variazionale, cara a De Giorgi, quando l’orizzonte si complicò per l’apparizione del problema fisico dell’omogeneizzazione. Come racconta Spagnolo, il problema dell’omogeneizzazione «si presenta in problemi di elettrostatica o conducibilità termica in materiali eterogenei, dove nell’ambito di una sostanza principale – come il ferro – si trovano numerose piccole impurità, cioè inclusioni di un altro materiale – come il carbone – disposte con regolarità, cioè in modo sostanzialmente periodico. La complessità di tali problemi ne rendeva impossibile la soluzione diretta. La strategia fu di affrontare un problema vicino: il problema limite al tendere all’infinito del numero delle inclusioni. Quest’ultimo, detto anche l’omogeneizzato, è per sua natura un problema a coefficienti costanti, che vanno determinati caso per caso» (EDG, p. 298). Il lavoro del 1973 sulla convergenza delle energie affronta tali problemi facendo da ponte fra la G-convergenza e la Γ-convergenza. Successivamente, infatti, De Giorgi estese il precedente lavoro sui funzionali dell’energia al caso dei funzionali dell’area, e per studiare il comportamento asintotico dei corrispondenti problemi di minimo venne introdotta la Γ-convergenza, una convergenza variazionale, che sarà formalizzata nel 1975 in un lavoro con Tullio Franzoni (Su un tipo di convergenza variazionale, in Rendiconti dell’Accademia nazionale dei Lincei, classe di scienze fisiche, matematiche e naturali, n. 58, pp. 842-850). La definizione, semplice, ma di portata vastissima, stabilisce che una successione {fk(x)} di funzioni definite su uno spazio topologico X, e a valori reali, o reali estesi, è Γ-convergente verso f se in ogni punto x0 dello spazio X sono verificate queste due condizioni: per ogni successione di punti {xk} convergente a x0 si ha lim infk fk(xk) ≥ f(x0); esiste almeno una di tali successioni {xk} per cui {fk(xk)} converge a f(x0). Oltre a includere come caso particolare la vecchia nozione di G-convergenza, tale definizione «consente, al variare dello spazio X, di inquadrare in modo unificante praticamente tutte le strutture topologiche esistenti, oltre ad alcuni importanti concetti logico-funtoriali» (BUMI, p. 13). Gli anni Settanta videro un grande sviluppo di questa teoria, concepita per descrivere successioni di problemi di calcolo delle variazioni, i limiti delle loro soluzioni, il problema variazionale limite. Questi furono gli anni di massima espansione della ‘scuola’ di De Giorgi e la teoria viene sviluppata in innumerevoli direzioni. Per il suo carattere fondamentale, la Γ-convergenza è ormai diventata uno strumento di uso comune, noto anche in ambito applicativo, nella descrizione di transizioni di fase, perturbazioni singolari, elasticità non lineare.
Come si è detto, le prime pubblicazioni di De Giorgi risalgono all’inizio degli anni Cinquanta e sono frutto dello stretto rapporto con il suo maestro Picone. Sono infatti legate a temi dei corsi di analisi funzionale e di calcolo delle variazioni, come, per es., il problema di mostrare l’esistenza di punti limite per ogni successione di chiusi di uno spazio compatto di Hausdorff, oppure la questione del minimo di un funzionale quadratico per funzioni vettoriali reali di una variabile reale.
Il calcolo delle variazioni è un’ampia e variegata branca dell’analisi matematica che comprende tutti i problemi in cui si cerca il minimo o il massimo di una data grandezza, definita da un determinato numero di parametri, che può essere finito o infinito.
Presentando i temi del calcolo delle variazioni in una conferenza del 1996, dedicata a celebrare il cinquantenario della morte di Leonida Tonelli (EDG, pp. 215-222), De Giorgi si sofferma sul problema che aveva cominciato ad affrontare, come abbiamno visto, fin dalle sue prime pubblicazioni: quello delle superfici di area minima (il cosiddetto problema isoperimetrico). In tale problema, che ha una storia millenaria, ci si chiede, per es., di mostrare che, tra tutte le figure di perimetro fissato, il cerchio è quella che racchiude l’area massima così come la sfera, tra tutti i solidi aventi una data area della superficie laterale, è quello avente il volume massimo. Che la soluzione fosse il cerchio, o la sfera, nessuno aveva mai dubitato: mancava soltanto una dimostrazione soddisfacente, che risolvesse il problema nella massima generalità, e questa è ciò che fornì De Giorgi negli anni Cinquanta del secolo scorso (del fatto che nello spazio la soluzione sia la sfera abbiamo un’evidenza ‘sperimentale’ quando osserviamo che le bolle di sapone tendono istantaneamente, se libere da vincoli, ad assumere forma sferica, per rendere minima la loro tensione superficiale). Analogamente, quando si passa a considerare spazi a n dimensioni, questo tipo di risultato viene generalmente enunciato dicendo che, tra tutti gli insiemi di uno spazio euclideo n-dimensionale, la sfera è quello che, a parità di misura (n-1)-dimensionale della frontiera, ha misura n-dimensionale massima.
Accanto al problema isoperimetrico se ne può ricordare un altro che ha avuto una genesi più recente, proposto dal fisico belga Joseph Plateau che, intorno alla metà del 19° sec., mise in luce interessanti proprietà delle superfici utilizzando fili di ferro e acqua saponata: date una o più curve chiuse nello spazio, trovare, tra tutte le superfici di cui le curve date costituiscono il bordo, quella che ha area minima. Molte ricerche nel 20° sec. sono state dedicate a questo problema, con l’obiettivo di definire le superfici ammissibili per il problema, di specificare che cosa si intenda per ‘contorno’, di dimostrare che il problema ha soluzione. È in questo senso che De Giorgi considerava il calcolo delle variazioni «un ramo molto fluido della matematica»; è questa la caratteristica che lo spingeva a paragonarlo più che a un «palazzo da costruire», utilizzando materiali e procedimenti già disponibili, a una «foresta da esplorare», con la necessità di inventare le procedure definizionali e dimostrative adeguate. Come disse nella stessa conferenza del 1996, «nel calcolo delle variazioni non ci si può limitare ad apprendere le definizioni, dare alcuni assiomi e poi applicarli ai vari casi concreti; in realtà, nel calcolo delle variazioni crescono assieme problemi e teorie, e spesso il medesimo problema viene affrontato all’interno di quadri teorici sempre più ampi, che vengono adattati allo sviluppo e all’estensione dei problemi stessi» (EDG, p. 215).
Un altro aspetto che rendeva il calcolo delle variazioni particolarmente attraente per De Giorgi era quello di essere un ambiente in cui affrontare in modo naturale i problemi che nascono dall’interazione fra matematica e varie scienze applicate. Per es., nell’ambito delle scienze economiche, avendo a che fare con i cosiddetti problemi di ottimizzazione, che consistono nel rendere massima una certa qualità o quantità (un profitto, un beneficio ecc.) sotto opportuni vincoli, oppure nel rendere minimi i costi nel raggiungimento di certi obiettivi, diventa una questione importante quella di individuare quale sia una ‘metrica’ adatta a determinati problemi. In molti problemi di calcolo delle variazioni una delle scelte fondamentali da fare è proprio quella di stabilire quale nozione di distanza si vuole introdurre in una determinata classe di oggetti. E De Giorgi sottolineava che, ovviamente, non esiste una nozione univoca di distanza, valida per tutti i problemi variazionali possibili. Un altro aspetto riguarda poi il concetto stesso di ‘soluzione di un problema variazionale’. Quasi tutti i problemi trovano il loro ambiente naturale in classi di curve, superfici e funzioni che sono a priori abbastanza regolari o che comunque, se presentano qualche singolarità, hanno in ogni caso spigoli o vertici ben delimitati. I cosiddetti metodi diretti del calcolo delle variazioni (sviluppati soprattutto grazie all’opera di Tonelli) raramente forniscono un teorema di esistenza del massimo o del minimo originariamente cercato: in genere essi conducono a un risultato di esistenza per i massimi o i minimi non del problema di partenza, bensì per opportune forme ‘rilassate’ del problema iniziale. Il problema rilassato è un problema definito su una classe molto più ampia di oggetti rispetto al problema di partenza, e questa classe più ampia gode di solito di quelle proprietà di semicontinuità che consentono l’uso diretto del calcolo delle variazioni. De Giorgi vedeva questa fase come un’ampia generalizzazione di un’idea di Caccioppoli, consistente nel trattare figure poco regolari cercando di approssimarle in una metrica opportuna, tramite poligoni (se siamo nel piano) o tramite poliedri (se siamo nello spazio), prima di costruire il rilassato del funzionale ‘perimetro’ (nel caso di poligoni) o ‘area laterale’ (nel caso dei poliedri). Dopo il rilassamento di un certo funzionale, la seconda fase consiste nella ricerca della dimostrazione dell’esistenza dei minimi del funzionale rilassato. La terza fase procede in senso inverso, producendo un lavoro di regolarizzazione in cui si dimostra che quelle soluzioni assai generali e a priori poco regolari, quando realizzano un minimo diventano di fatto molto regolari; fatto che permette spesso di minimizzare anche il funzionale di partenza.
Alla Scuola Normale di Pisa De Giorgi teneva lezione di solito il martedì e il mercoledì mattina. Dalla metà degli anni Settanta, mentre il corso del martedì continuò a essere dedicato al calcolo delle variazioni e alla teoria geometrica della misura, il corso del mercoledì divenne un seminario in cui discutere e approfondire le tematiche logiche e fondazionali. Il punto di partenza di queste discussioni furono alcune riflessioni sulla sua propria attività matematica. De Giorgi era colpito dal fatto che in matematica si riesce a studiare il finito solo pensandolo immerso in una cornice infinita: benché per gli usi pratici di tutte le scienze siano largamente sufficienti i numeri con meno di cinquanta cifre decimali, non sarebbe possibile avere una teoria soddisfacente di questa classe di numeri senza una teoria generale che ha il suo ambiente naturale nell’insieme infinito di tutti i numeri. Tutto ciò che noi riusciamo a vedere nel finito ci appare, per così dire, incomprensibile e disarmonico, se non lo pensiamo come parte di un quadro più ampio di grandezza infinita (cfr. Ennio De Giorgi. Selected papers, 2006, p. 725). La matematica ‘esplora’ una regione dai confini per certi versi indeterminati, che sta a cavallo tra l’universo degli oggetti visibili e quello degli oggetti invisibili e cerca, in una certa misura, di riconoscere un’armonia tra questi oggetti. De Giorgi amava ricordare i passi del libro dei Proverbi in cui si dice che mentre il Signore creava il mondo, la Sapienza gli era vicina e gioiva della bellezza di tutte le cose che venivano create. E aggiungeva che, certo, la matematica non ha la pretesa di avere la grandezza che è propria della Sapienza, ma in qualche modo pensa di essere una scienza che si diletta a ritrovare un ordine nel mondo. Secondo De Giorgi, alla radice dell’applicabilità della matematica alla fisica, alla chimica, all’economia, alla biologia ecc. c’è proprio questa idea della Sapienza che racchiude in sé e armonizza arte, scienza, giustizia. La matematica è uno dei rami di questa Sapienza; quello che forse è in un contatto più stretto e più profondo con tutti gli altri.
Accanto ai testi sapienziali, fondamentale è stata la riflessione sui teoremi di incompletezza ottenuti da Kurt Gödel nel 1931. Questi dimostrano, in primo luogo, che nessun sistema finito di assiomi riuscirà mai a caratterizzare completamente e univocamente la struttura dei numeri interi, che pure è l’oggetto matematico più semplice che noi conosciamo, e, in secondo luogo, che la matematica non è in grado di fondare sé stessa: la convinzione che i postulati fondamentali della matematica non sono contraddittori deve essere attinta dal matematico al di fuori della scienza formalizzata, da qualche altra forma di sapere o sapienza. Questo secondo aspetto ci dice che, se da un lato, per quanto cioè riguarda il suo sviluppo e la dimostrazione dei suoi teoremi, la matematica si presenta con una sua spiccatissima autonomia, dall’altro manifesta una sostanziale incapacità di dimostrare dall’interno la propria non contraddittorietà, cioè la possibilità di un proprio sviluppo interno.
Un elemento di natura generale su cui pure De Giorgi richiamava spesso l’attenzione è che mentre esiste una totale unanimità fra i matematici su che cosa voglia dire che ‘un teorema è sensato’, ossia scritto in modo coerente alle regole interne della matematica, o che una dimostrazione è ‘giusta’ o è ‘sbagliata’, è invece possibile che esistano molte concezioni diverse sul significato, il valore, il senso delle motivazioni che hanno spinto un matematico a dimostrare un certo teorema o ad adottare un certo sistema di postulati. Di fronte a questa situazione, la riflessione di De Giorgi si sviluppa, per così dire, in due tempi. Dapprima, con riferimento all’atteggiamento che il matematico può adottare circa la natura degli enti che studia, considera il contrasto fra il punto di vista ‘realistico’ (o ‘platonistico’) e quello ‘nominalistico’ (o ‘formalistico’). Quest’ultimo è caratterizzato come quello per cui gli enti matematici sono puri nomi. In altre parole, secondo la concezione nominalistica non esistono in realtà numeri, punti, rette, spazi, piani e così via. Esistono soltanto certe frasi in cui ogni tanto al posto giusto si trovano le parole punto, numero, retta, spazio e così via. Esistono delle dimostrazioni, cioè delle sequenze di frasi che rispettano certe regole e in cui queste parole sono ripetute dove occorre: alla fine si ottiene una tesi, che è un’altra frase in cui pure appaiono queste parole. E oltre a questo non c’è nulla. De Giorgi ritiene che il punto di vista formalista sia interessante, anche per chi non lo condivida, dato che la meditazione su questo punto di vista ha indubbiamente favorito l’elaborazione della logica moderna, lo sviluppo dei sistemi formali, del calcolo dei predicati, delle teorie della deduzione e così via. Tuttavia, se è certamente vero che il punto di vista formalista semplifica radicalmente il problema di rispondere alle domande concernenti il ‘senso’ dell’attività matematica, è però altrettanto vero che si trova in difficoltà nello spiegare l’applicabilità della matematica. Secondo De Giorgi, è una caricatura quella che dipinge il matematico come intento a cercare una catena di passaggi formali del tipo descritto sopra; per lui il matematico ha ben chiaro che intende cercare quel ben determinato numero che soddisfa certe condizioni, un numero che c’è anche se non ha ancora trovato il suo valore, che c’è prima che qualcuno l’abbia pensato e scritto. Così pure il matematico sa che ci sono numeri che materialmente nessuno scriverà mai. D’altra parte, se è vero che l’atteggiamento realistico rende maggior ragione del fatto che la matematica è applicabile, della diffusa convinzione che di ogni realtà, per quanto complessa, si possa elaborare un modello matematico, è però anche vero che l’atteggiamento realista si trova davanti domande cui non è facile rispondere. A cominciare da quella concernente il significato dell’affermazione di esistenza dell’infinito, e in generale di che cosa voglia dire ‘esserci’ per un oggetto matematico. Tuttavia, il fatto che questo quadro infinito sia in gran parte sconosciuto non ci deve portare a negarne l’esistenza. Nella visione di De Giorgi, come già detto, il matematico indaga i confini incerti di collocazione degli oggetti visibili e invisibili, e questa esplorazione non è possibile se non adottando, almeno implicitamente, il postulato dell’immensità della realtà. Se non pensando, cioè, che sia l’universo visibile sia l’universo invisibile siano in gran parte inesplorati, siano molto più grandi di quanto non siano le nostre cognizioni; e che la matematica, ancora oggi, debba porsi come esplorazione del mondo visibile e di quello invisibile più che come contemplazione di una costruzione ormai ben definita. A questo proposito, una frase che De Giorgi amava ripetere negli ultimi anni, considerandola la cifra della sua generale posizione filosofica, era quella che William Shakespeare fa rivolgere da Amleto al suo amico Orazio: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia» (Amleto, Atto I, scena V).
Ma De Giorgi aggiungeva che questa capacità di immaginare mondi diversi non deve mai andare disgiunta dalla capacità di comunicare i propri sogni; sottolineando che una comunicazione non ambigua richiede anche la conoscenza del linguaggio, delle regole interne proprie delle diverse discipline. Questa attenzione linguistica, che fa da sfondo ai suoi interessi logico-fondazionali, non ha però coloriture riduzioniste o unificatorie. Pur non rinunciando al rispetto di alcune regole minime di coerenza e di precisione, sottolineava che bisogna saper rispettare i linguaggi, i metodi, i criteri propri di ogni disciplina.
Interviene a questo punto il secondo momento della riflessione di De Giorgi, incentrato questa volta sull’opposizione fra realismo e costruttivismo, nella fattispecie sul ‘dilemma’ fra scoperta e invenzione. In maniera originale e interessante, De Giorgi cerca di coniugare insieme le due attività, sulla base del fatto che in entrambe c’è l’idea di ‘qualcosa che si trova’. Ora, che lo si trovi perché era nascosto o perché lo si costruisce, è una domanda cui non è possibile rispondere in maniera risolutiva. Tuttavia, ritiene che l’enunciato del teorema sia fondamentalmente qualcosa che si scopre, «la dimostrazione qualcosa che si inventa» (EDG, p. 230). Dimostrare, infatti, significa in fondo costruire una possibile strada attraverso cui da certi assiomi si arriva a un certo teorema. E riflettendo forse sulla sua propria esperienza, in particolare sulla vicenda del teorema di De Giorgi-Nash, osservava che è abbastanza frequente che due matematici provino in maniera indipendente lo stesso teorema come enunciato, poco probabile che senza essersi mai incontrati diano la stessa dimostrazione.
La distinzione fra procedure e prodotti, fra le costruzioni come processi e le costruzioni come oggetti – in questo caso, enunciati – ottenuti come risultato di un processo di costruzione, è alla base dell’impostazione qualitativa, o intensionale, che caratterizza le proposte teoriche di De Giorgi nel campo dei fondamenti. Nonostante i brillanti risultati conseguiti dalle varie teorie degli insiemi, egli non riteneva soddisfacente la prospettiva di ricondurre tutta la matematica alla teoria degli insiemi e pensava che fosse preferibile assumere anche altri concetti, come quelli di ‘relazione’, ‘operazione’, ‘algoritmo’, ‘categoria’ ecc., concetti primitivi non riducibili a quelli di ‘collezione’ e di ‘insieme’. Riguardo a questi ultimi, poi, gli sembrava conveniente separarli, attribuendo al primo un maggiore ruolo nello studio globale di tutti gli oggetti matematici, al secondo un ruolo preponderante nello studio locale dei problemi dell’analisi. L’intento antiriduzionistico lo porterà a ipotizzare un allontanamento dalla validità generale del principio di estensionalità, consistente nel passaggio dallo studio degli insiemi allo studio di oggetti (come i cosiddetti urelementi) non identificabili con la collezione dei loro elementi. Con lo stesso intendimento di fondo, De Giorgi richiamava l’attenzione sull’esistenza di operazioni diverse che agiscono sugli stessi oggetti e danno gli stessi risultati. Come commenta Enrico Bombieri, questo punto di vista è molto interessante e originale, dato che al limite porta al rifiuto del concetto di isomorfismo quale grande strumento universale per identificare oggetti. Gli oggetti studiati da De Giorgi sono più complessi di quelli usuali che il matematico è abituato a studiare, poiché essi comportano un ulteriore concetto di qualità che li distingue internamente l’uno dall’altro anche se interagiscono allo stesso modo con altri oggetti (cfr. EDG, p. 281).
Accanto all’antiriduzionismo, cioè al fatto che le teorie considerano varie specie di oggetti e non solo numeri e insiemi, altre caratteristiche essenziali delle teorie dei fondamenti sviluppate da De Giorgi insieme con vari collaboratori (fra i quali ci limitiamo a ricordare Marco Forti, Furio Honsell e Giacomo Lenzi) sono l’autodescrizione e l’antifondazione. Secondo la prima, le principali proprietà, relazioni e operazioni che vengono considerate in una teoria dei fondamenti, così come le asserzioni che servono per esporla devono essere esse stesse oggetti considerati a pieno titolo dalla teoria stessa. La presenza di principi di antifondazione garantisce invece la presenza di forme di autoappartenenza. Con l’intento di permettere alla relazione di appartenenza di modellare qualunque relazione, nel 1979 De Giorgi formulò un suo ‘principio di libera costruzione’, che si può così esprimere: «È sempre possibile costruire un insieme di insiemi assegnandone liberamente gli elementi mediante un’opportuna parametrizzazione».
Principi analoghi erano già stati formulati, per es. da Dana Scott, ma il principio degiorgiano ha una generalità e una naturalezza che hanno reso possibili analisi approfondite e la determinazione di assiomi di antifondazione che sono ora considerati i più appropriati per le applicazioni della teoria degli insiemi alla semantica e all’informatica (cfr. BUMI, p. 20). Dal 1984, De Giorgi e la sua ‘scuola fondazionale’ hanno prodotto varie e diversificate teorie, accomunate dal fatto di utilizzare il tradizionale metodo assiomatico contenutistico usato nella matematica classica. Progressivamente ci fu un mutamento nel fuoco dell’interesse: da teorie quadro onnicomprensive, atte a fornire l’ambiente per lo sviluppo dei più importanti ambiti di indagine matematica, si passò a teorie di base su cui innestare le principali nozioni della matematica e di altre discipline (come la fisica, la biologia, l’economia). Ci limitiamo, in conclusione, a ricordare un esempio importante: quello del fondamentale concetto di variabile (1994). La caratterizzazione che viene data delle variabili richiede che per la loro introduzione sia necessario predisporre un dispositivo che comprende, da una parte, una funzione di denotazione o valutazione che le connetta al dominio di interpretazione e, dall’altra, anche l’indicazione dei valori relativi a quel dominio che si assumono fissati, nonché la considerazione della correlazione fra i precedenti elementi.
Ennio De Giorgi morì a Pisa il 25 ottobre del 1996.
Dossier dedicato a De Giorgi a cura di A. Guerraggio, in Lettera matematica pristem, 1998, n. 27-28.
L. Ambrosio, G. Dal Maso, M. Forti et al., Ennio De Giorgi, «Bollettino dell’Unione matematica italiana», 1999, 2-B, n. 1, pp. 3-31 (necrologio con bibliografia completa, reperibile in rete all’indirizzo http://www.bdim.eu/item?id=BUMI_1999_8_2B_1_3_0).
Ennio De Giorgi: anche la scienza ha bisogno di sognare. Gli orizzonti scientifici e spirituali di un grande matematico, a cura di F. Bassani, A. Marino e C. Sbordone, Pisa 2001 (questo volume contiene una parte notevole degli scritti che testimoniano del suo impegno civile, insieme con molti altri testi dedicati al rapporto fra scienza e sapienza).
Ennio De Giorgi. Hanno detto di lui...,a cura di G. De Cecco, M.L. Rosato, in Quaderni del Dipartimento di matematica dell’Università del Salento, 2004, 5.
Ennio De Giorgi. Selected papers, a cura di L. Ambrosio, G. Dal Maso, M. Forti, M. Miranda e S. Spagnolo, Berlin-Heidelberg-New York 2006.
Ennio De Giorgi tra scienza e fede, Atti del Seminario di studio, Lecce 6 dicembre 2006, a cura di D. Pallara, M. Spedicato, Galatina 2007.
L. Ambrosio, M. Forti, A. Marino e S. Spagnolo, Scripta volant, verba manent. Ennio de Giorgi matematico e filosofo, a cura di V. Letta, Pisa 2008.