ENNIO (Quintus Ennius)
Poeta latino del sec. III-II a. C. Sul prenome Quinto non può esserci alcun dubbio, perché, oltre che da testimonianze concordi dell'antichità, esso viene attestato in modo particolare da Cicerone, il quale (De div., II, 111) riferisce che esistevano poesie enniane con l'acrostico Q. Ennius fecit. Nemmeno può essere dubbio il luogo e l'anno di nascita. Quanto al primo, E. stesso afferma di essere di Rudiae (Ann., 377 Vahlen, 2ª ed.): che si tratti di Rugge in provincia di Lecce, nel paese degli antichi Messapî, e non di altri luoghi (p. es. di Rodi Garganico), è sicuro, se si considera che S. Girolamo (all'anno 1777-240 a. C.) lo fa nascere a Taranto, cioè nel luogo più importante della penisola salentina; certo egli fa una confusione fra la città più grande e il piccolo paese. Del resto S. Girolamo stesso corregge la sua svista, quando afferma (anno 1849-168 a. C.) che il cadavere di E. fu trasportato a Rudiae; evidentemente tale trasporto era causato dall'esistere colà la sede della famiglia di E. Quanto all'anno di nascita, nonostante la testimonianza di S. Girolamo, è sicuro che esso fu il 239 a. C.; e poiché E. visse 70 anni, dovette morire nel 169. La data del 168, riferita da S. Girolamo, è un'altra svista della sua cronologia. Non sappiamo invece con esattezza quando uscì dal suo paese: sembra che l'occasione gli fosse data dal servizio militare, perché prima del 204 era in Sardegna, donde Porcio Catone in quell'anno lo fece venire a Roma. Qui non tardò a farsi conoscere per il suo ingegno e per la sua cultura letteraria, sicché entrò presto in dimestichezza con i più segnalati cittadini. Certo fu amico di Scipione Africano il vecchio e di Scipione Nasica; molto dovette stimarlo M. Fulvio Nobiliore, che lo condusse seco nella spedizione in Etolia del 189 quasi per averlo cantore della sua impresa; in realtà tra le opere di E. esisteva una tragedia pretesta, di cui rimangono scarsi frammenti, intitolata Ambracia, dove il poeta probabilmente drammatizzava l'assedio e la caduta di questa città per opera di Fulvio. Qualche anno dopo, il figlio di costui, Q. Fulvio, gli fece dare la cittadinanza romana. Sebbene per tal via E. potesse ottenere un appezzamento di terreno nel Piceno, dove il giovane Fulvio aveva dedotto una colonia, pare tuttavia che il poeta vivesse povero, sull'Aventino, in una casa dove abitava insieme con Stazio Cecilio, servito da una sola schiava. Alla povertà di lui accenna chiaramente S. Girolamo (all'anno 1777) e allude in modo aperto anche Cicerone nel Catone Maggiore (V, 14). Lavorò fino all'ultimo termine della sua vita; nell'anno stesso della morte fece rappresentare la sua ultima tragedia, il Tieste (Cic., Brut., XX, 78). Tanta era l'amicizia che gli Scipioni avevano per lui, che corse per lungo tempo la voce, che egli fosse sepolto nel loro sepolcro di famiglia, prima di essere trasportato al suo paese nativo; ma probabilmente gli Scipioni eressero soltanto un suo busto marmoreo nel loro sepolcreto. Ed è pure probabile che sotto questo busto essi facessero incidere una delle due iscrizioni epigrammatiche note a Cicerone (Tusc., I, 15, 34) e attribuite da lui a E. stesso.
La sua fama di padre della poesia latina visse a lungo: le stesse numerosissime citazioni che delle opere di lui fece Cicerone, il quale professò un'altissima stima per E., dimostrano come egli fosse vivo nella letteratura posteriore. Virgilio stesso non esitò a imitarlo in parecchi luoghi del suo poema, anche se apparteneva a una scuola poetica diversa e più evoluta e perfezionata, la quale non poteva essere animata di troppa ammirazione verso le prime forme e i primi tentativi della poesia romana. Ciò che è dimostrato da Orazio: il quale non ritiene certo E. un poeta altissimo e tale da prendersi a modello; eppure non può sottrarsi dal parlarne con una certa riverenza, anche là dove scherza sul suo canto, e riconosce di buon grado che E. arricchì la lingua del Lazio. E se pure non approva le esagerazioni di coloro che ritenevano E. un secondo Omero, non ignora affatto l'influsso che il vecchio poeta esercitò sulla letteratura latina, pur criticandone i difetti soprattutto di tecnica artistica. Anche Ovidio ammirava l'ingegno di E., pure riconoscendone i difetti, e pare che della stessa opinione fosse Properzio, quando parlava della spinosa corona di E. Negli ultimi tempi della repubblica e nei primi dell'impero, anche con le limitazioni accennate, la fama di E. durò costante. Vargunteio ne fece oggetto di recitazioni in pubblico, mentre gli storici, come Celio Antipatro, lo imitarono, Varrone ebbe per lui uno schietto entusiasmo, e il poeta di atellane Novio prese forse da lui lo spunto per il suo contrasto tra la Morte e la Vita. Più tardi invece se ne interessarono soltanto i filologi, come Verrio Flacco e Valerio Probo, mentre i veri e proprî letterati lo lasciavano cadere in dimenticanza. È vero che Marziale attesta come E. fosse ancora letto, sebbene la precedenza fosse data a Virgilio; ma Seneca non ha per lui nessuna simpatia; Quintiliano afferma che deve essere onorato come gli antichi boschi sacri, i cui alberi sono brutti ma venerati per il rispetto che si deve loro, e Macrobio constata dolorosamente come E. non si leggesse più ai suoi tempi. Così E. decadde e non fu più letto se non da chi s'interessava ai problemi della lingua o ricercava preziose testimonianze storiche, e a poco a poco le sue opere furono dimenticate e soltanto ricordate a frammenti per qualche interessante particolarità metrica o linguistica o stilistica. E ciò si capisce, se si pensa all'espandersi della fama e all'approfondirsi della conoscenza del poema virgiliano, il quale accontentava tutti i gusti e tutti i bisogni del pubblico dotto e indotto: fu proprio l'Eneide che fece dimenticare gli Annali, mentre d'altra parte la decadenza del teatro romano, dove si cercavano ansiosamente i mimi e gli spettacoli del circo, fece dimenticare le tragedie di Ennio.
Eppure E. non è, né come uomo né come poeta, una figura di secondo ordine. Già la stima che ne avevano i suoi contemporanei, dimostra come egli dovesse essere di carattere nobile, carattere che si troverebbe rispecchiato in un frammento degli Annali, in cui E. avrebbe ritratto sé stesso sotto l'aspetto di un onesto e retto confidente e consigliere del console Servilio Gemino (Ann., v. 234 segg., Vahlen, 2ª ed.). Come poeta poi, oltre ad avere avuto il grandissimo merito di dare forma e veste epica alla grande storia di Roma e allo sforzo fatto dalla città per raggiungere la pienezza della sua potenza (e in ciò non aveva se non perfezionato il tentativo ancora quasi informe del suo predecessore Nevio), aveva anche posto la prima pietra della futura poesia latina con l'introduzione e l'uso dell'esametro. Che se questo non era, e ragionevolmente non possiamo né supporre né pretendere che fosse, perfetto, era però tale non solo da segnare ma addirittura da spianare la via a tutti i suoi successori. D'altra parte non mancò a E. né fervida fantasia, né ricca materia d'immagini, che spesso anche oggi s'imprimono potentemente nel nostro pensiero. La sua forma è ancora rozza e imperfetta; troppo spesso l'esametro è duro, e la ricerca di effetti trascina il poeta ad abusare di assonanze e di allitterazioni, che non potevano piacere al gusto più sensibile e raffinato dell'età immediatamente successiva, educatasi alle squisitezze della letteratura attica, e più ancora di quella alessandrina. Ma, di fronte a questi e ad altri difetti, non si possono dimenticare i meriti di E., che ne fanno una delle figure più insigni del periodo in cui la letteratura latina andò formandosi per giungere poi agli splendori del secolo di Augusto.
Non si può dire quando E. abbia cominciato a scrivere; certo subito dopo, o poco dopo la sua venuta a Roma. E probabilmente cominciò con lo scrivere e fare rappresentare tragedie. A ciò gli giovarono, oltre alla sua particolare educazione, le condizioni della sua nascita. Infatti, nato in terra messapica, egli parlava quasi naturalmente osco e greco; poi apprese il latino, sicché, a detta di Gellio, poteva vantarsi di avere tre anime. Certamente le sue innate tendenze, e poi fors'anche il bisogno, lo spinsero a sviluppare le sue attitudini artistiche e poetiche e a mettere sulla scena di Roma, ricca di produzione comica con Plauto, Terenzio e gli altri minori, ma povera ancora di tragedie (anche qui lo aveva preceduto Nevio col suo ingegno grande, ma non del tutto coltivato), drammi tragici tradotti o ridotti dal greco. In questo campo, al difuori di quel tragico Aristarco vissuto nell'età alessandrina, e da cui trasse il suo Achille, E. si attenne soprattutto a modelli euripidei (ma certamente per le Eumenidi imitò Eschilo), e in modo particolare, forse per le peculiari qualità della sua indole, adatta a cantare scene e imprese di guerra, a quei drammi i quali avevano rapporto con la guerra di Troia. Ma la sua tecnica tragica si allontana in punti notevoli da quella del suo modello. Infatti E., pur traducendo e riducendo fedelmente gli originali che si proponeva di volgere in veste latina, e spesso con precisa esattezza rendendo parola a parola e verso a verso il testo greco, anche se talora pretese di mettere un ordine cronologico e logico in quella che era l'espressione altamente libera della fantasia dei poeti greci (ne è esempio tipico il prologo della Medea, in cui appunto E. volle dare una successione cronologicamente esatta e conseguente ai fatti ricordati da Euripide in disposizione diversa, dovuta alla maggiore o minore importanza loro), volle però riserbarsi una certa libertà nella composizione generale dei suoi drammi. Così, a proposito della Medea, riunì in una sola tragedia due tragedie euripidee, la Medea e l'Egeo, facendo succedere l'argomento di questo all'argomento di quella, e abbreviando l'uno e l'altro dramma; così nell'Ifigenia contaminò l'Ifigenia in Aulide di Euripide con quella di Sofocle, sostituendo il coro dei marinai a quello delle fanciulle.
Noi possediamo oggi venti titoli di tragedie enniane e 430 fra versi e frammenti di versi; assai poco, se si considera che ogni tragedia comprendeva almeno un migliaio di versi. E poiché anche parecchi degli originali greci, a cui egli s'inspirò, sono andati perduti, si capisce di leggieri come sia difficile pronunziare un giudizio sull'attività tragica di Ennio. Il quale, però, non si limitò a scrivere tragedie imitate dal greco: almeno due tragedie (l'Ambracia e le Sabinae) erano preteste, trattavano cioè argomenti di storia romana; e certo scrisse anche almeno due commedie, di cui conosciamo i titoli (La bettola e il Vincitore del pancrazio) e in tutto quattro versi. Né molto ci è rimasto delle altre sue opere, minori in confronto del suo poema epico, ma numerose e varie. Anzitutto le Saturae, di cui esistevano almeno quattro libri: componimenti scritti in vario metro e riferentisi a varî argomenti, fra cui notevole un contrasto tra la Vita e la Morte, forse, come si è detto, imitato da Novio. Non è improbabile che un libro delle Saturae fosse dedicato a Scipione, per cui E. scrisse anche due begli epigrammi in distici, come assai belli sono quattro versi dello Scipio, citati da Macrobio, descriventi la calma solenne della natura. Il Sota (abbreviazione del nome del poeta greco Sotade, vissuto al tempo di Tolomeo Filadelfo) pare fosse un componimento in cui erano raccolti argomenti lubrici a imitazione di Sotade. Eguale incertezza esiste a proposito dell'altro lavoro intitolato Protrepticus o Praecepta, mentre certamente l'Hedyphagetica, di cui si ha un solo frammento, che parla di pesci, era una raccolta di ricette di cucina, forse imitato o ridotto da un libro analogo, del quale si hanno parecchie notizie (soprattutto per mezzo dei Dipnosofisti di Ateneo) ma s'ignora il titolo preciso, di Archestrato di Gela contemporaneo di Aristotele. Di genere filosofico e religioso erano due opere di Ennio, l'Epicarmo e l'Evemero. Il primo, scritto in tetrametri trocaici, era probabilmente una traduzione o riduzione di un poema sulla natura, attribuito, quasi di certo a torto, a Epicarmo; dai pochi frammenti non sembra che si trattasse delle massime morali raccolte in tempo antico sotto il nome del poeta siciliano. Vi si narrava un sogno: forse era Epicarmo stesso il quale esponeva la sua dottrina immaginando di averla appresa nel mondo dei morti, in cui aveva sognato di trovarsi; ma potrebbe anche essere che Ennio raccontasse di avere, sognando, veduto nel mondo dei morti Epicarm0 e di avere udito da lui ciò che si riferiva alla natura. Da una citazione di Cicerone appare più probabile la seconda ipotesi. L'Evemero (che da una citazione di Lattanzio pare 10sse anche intitolato Sacra Historia) era, come attesta Varrone, una traduzione della ‛Ιερὰ ἀναγραϕή di Evemero. Noi non ne possediamo resti originali; quel che ne conosciamo (quasi tutto attraverso le Divinae institutiones di Lattanzio) indica come si trattasse della celebre teoria evemeristica della formazione degli dei. Le discussioni fatte su questo punto dagli apologeti cristiani (soprattutto Minucio Felice e Tertulliano) è probabile poggino tutte sul libro di Ennio. Poiché Lattanzio oppone la testimonianza di Ennio a quella dei poeti, è probabile che il libro fosse scritto in prosa.
Ma l'opera maggiore, più importante e più celebre di Ennio sono senza dubbio gli Annali. A essa il poeta attese per gran parte della sua vita. Egli medesimo, per testimonianza di Gellio, affermava nel XII libro di averlo scritto all'età di 67 anni; e perciò tre anni prima della morte. Se si considera che i libri degli Annali erano 18, apparisce subito che negli ultimi tempi della sua vita Ennio dovette lavorare intensamente a quest'opera, scrivendone in media circa due libri all'anno. Il poema esponeva in ordine cronologico gli avvenimenti dalla venuta di Enea nel Lazio; non sappiamo quale fosse l'ultimo limite della sua narrazione. Egli riprese così il concetto e in parte il disegno del Bellum poenicum di Nevio, adattando alle linee generali dell'epos omerico i grandi fatti della storia di Roma e dando loro un doppio sfondo, segnato da una parte dall'intervento delle divinità (e quindi da un elemento fantastico tradizionale nella poesia epica), a cui si attribuiva la determinazione degli avvenimenti storici o ritenuti storici, e dall'altra dall'elemento puramente umano, con l'esaltazione dei caratteri di coloro che contribuirono alla formazione della storia di Roma, e specialmente con il rilievo dato alle qualità di forza, di onestà e di virtù dei Romani del tempo antico. I frammenti a noi pervenuti (cirea 600 tra versi e mezzi versi e parole staccate: occorre tener presente che ogni libro doveva constare di circa 600 versi, e quindi noi non abbiamo nemmeno la 18ª parte di tutto il poema) non dànno se non una pallidissima idea di quella che doveva essere tutta l'opera enniana: ma pur da essi si può rilevare con quanto entusiasmo e con quanto amore Ennio trattasse le figure dei Romani più antichi, celebri per l'amore della patria, per lo spirito di sacrificio da cui erano animati, e per la fierezza a cui inspiravano tutte le loro azioni; esempio tipico e notevolissimo l'episodio di Pirro, il quale, dalla fierezza e dall'onestà dei Romani, suoi avversarî, è tratto a parlare loro con alti segni di onore nei frammenti del VI libro. A questo si aggiungano l'altezza della forma, che, pur non dando all'esametro la duttilità, l'armonia e la dolcezza dell'esametro omerico e di quello posteriore virgiliano, sa trovare accenni e accenti di alta poesia; e le immagini, che a volte lampeggiano e brillano pur di tra i resti informi degli smozzicati frammenti a noi trasmessi per ragioni storiche o grammaticali, e il senso della natura e della sua bellezza, che Ennio seppe talvolta rilevare magnificamente (cfr. p. es. i versi 457 seg. Vahlen, 2ª ed.). Del suo valore di poeta, da cui gli era stato anche facilitato di fissare le leggi metriche dell'esametro e di risolvere tutte le difficoltà di ritmica, di prosodia, di metrica che si opponevano all'introduzione in Roma del metro epico per eccellenza, Ennio ebbe piena contezza, e non è senza un senso di altezzosità che egli riguarda l'opera del suo predecessore Nevio, quando in principio del VII libro egli afferma di rinunziare a cantare la prima guerra punica, perché "altri ne scrisse, versi usando che un tempo i Fauni cantavano e i vati" (v. 213 seg. Vahlen, 2ª ed.), e in principio del poema abbrevia la narrazione dei fatti di Enea, perché anche essi avevano trovato sviluppo nel Bellum poenicum neviano. Di più il poema si apriva con un sogno nel quale Ennio immaginava d'intrattenersi con Omero, la cui anima sarebbe passata in lui: segno questo, che egli pensava di potersi considerare come l'Omero di Roma, così come nelle satire saluta sé stesso, o si fa salutare, eome artista di versi infocati, che penetrano addentro negli animi umani. Dal fatto che alcuni libri si aprono con delle specie di prefazioni (così il VII, il X) e che una notizia sicura di Plinio ci permette di ritenere che il XVI libro fosse aggiunto per celebrare il valore di T. Cecilio Teucro e di suo fratello nella guerra istrica del 178-7, possiamo facilmente pensare a una pubblicazione del poema in momenti successivi: era cioè, per Ennio, un'opera continua, a cui egli dedicava tutta la migliore operosità sua, senza prefiggersi un termine a cui dovesse arrivare. Gli avvenimenti erano esposti in ordine cronologico, e pare si possano distribuire così: nei libri 1°-3° era narrata l'origine di Roma e il periodo dei re; fra il 4° e il 6° erano distribuiti i fatti sino alle guerre puniche, comprese nei libri 7°-9°. Nei libri 10°-12° era narrata la guerra macedonica; dal 13° al 16° si svolgeva la storia della guerra con Antioco sino a quella istrica. I frammenti del 17° e del 18° libro non permettono una ricostruzione sicura. A ogni modo, era una opera monumentale che doveva rendere orgogliosi tutti i Romani, e si capisce come questi tenessero Ennio in concetto di padre della loro poesia e si richiamassero sempre a lui per testimonianza delle loro glorie.
Fonti ed Ediz.: Si può dire che ogni autore romano ha fatto accenno a E.: numerosissime sono le testimonianze sulla vita, sull'opera e sull'arte di Ennio sparse un po' dappertutto nelle opere di Cicerone. Le testimonianze antiche sono raccolte con grandissima diligenza e con commento quasi sempre appropriato e giusto, anche in riferimento alla fortuna di Ennio attraverso i secoli, nella prefazione all'edizione di Ennio di J. Vahlen (Ennianae poësis reliquiae, 2ª ediz. Lipsia 1903, riproduzione anastatica del 1928), che rimane fondamentale e l'unica completa anche in confronto a quella di L. Müller (Pietroburgo 1884), senza dire di quella di G. Colonna (Napoli 1590), la quale è, anche per l'epoca in cui apparve, forzatamente difettosa. I frammenti degli Annali furono pubblicati a parte da P. Merula a Leida nel 1595; eccellente è l'edizione di L. Valmaggi (Torino 1920); non del tutto sicura quella di E. M. Steuart (Cambridge 1925) e meno ancora quella di G. Pascoli, Epos (Livorno 1897, p. 13 segg.). I frammenti delle tragedie e delle commedie sono raccolti anche da O. Ribbeck nella edizione degli Scenicae romanorum poesis fragmenta.
Bibl.: Un saggio generale è L. Müller, Quintus Ennius, Pietroburgo 1884; M. Lenchantin de Gubernatis, Ennio, Torino 1915. Preciso e ricco di informazioni è il capitolo su Ennio nella Gesch. der röm. Lit. di Schanz-Hosius, I, p. 86 segg., con ricchissima bibliografia; un po' invecchiato, ma sempre buono, l'articolo di F. Skutsch, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, col. 2589 segg. Assai fine la caratteristica di Ennio data da F. Leo, Gesch. der röm. Lit., p. 150 segg. V. anche M. Patin, Études sur la poésie latine, 4ª ed., II, Parigi 1900. Cfr. inoltre G. B. Pighi, Il proemio degli Annali di Q. Ennio, Milano 1926. Per le tragedie si veda O. Ribbeck, Die römische Tragödie, Lipsia 1875, p. 77 segg.; N. Terzaghi, La tecnica tragica di Ennio, in St. it. di fil. class., n. s., III (1929), p. 175 segg. Importante per l'influsso di Ennio sulla poesia virgiliana e per le questioni storiche connesse con gli Annali è E. Norden, Ennius und Vergilius, Lipsia 1915. Per la fama di Ennio, cfr. C. Pascal, Ennio nel Medioevo, in Athenaeum, 1913, p. 373 segg.