ENRICHETTA MARIA d'Este, duchessa di Parma e Piacenza
Figlia di Rinaldo d'Este, duca di Modena e Reggio, e di Carlotta Felicita di Brunswick-Lüneburg, sorella dell'imperatrice Amalia, nacque a Modena il 27 maggio 1702. Rimasta orfana di madre in tenera età, crebbe a Modena sotto la guida vigile della nonna materna Benedetta Enrichetta di Baviera, duchessa di Brunswick-Hannover, e il controllo severo del padre.
Rinaldo era salito al trono nel 1694, alla morte del nipote Francesco II: costretto ad abbandonare la porpora cardinalizia che Maria d'Este, moglie di Giacomo Il Stuart, gli aveva faticosamente procurato, allo scopo di assicurare la successione al Ducato, si era sposato all'età di quarant'anni. Rigido e autoritario, aveva avuto come scopo primario quello di isolare le tre figlie femmine da ogni contatto mondano e soprattutto dall'esempio della spregiudicata e moralmente eccepibile nuora Carlotta Aglae d'Orléans, moglie dell'erede Francesco.
Quanto a E., è presumibile che una vita trascorsa nell'ombra, quasi in monastica reclusione, dovesse contribuire a formare una grande ingenuità di carattere combinata a un acuto e comprensibile desiderio di una più intensa vita di relazione, dei resto consueto nelle principesse del suo rango. Furono questi tratti caratteriali a renderla apprezzabile sul mercato matrimoniale.Tuttavia, la svolta della sua vita avvenne quando già aveva venticinque anni, nel 1727, in forza di un matrimonio voluto da vicende che superavano di gran lunga la volontà degli stessi protagonisti, legato alla situazione politica europea e ai suoi riflessi in Italia.
Qui, uno dei contenziosi aperti era costituito dalla eredità dei Ducati farnesiani: essa sarebbe toccata - da tempo era risaputo -all'infante don Carlos, figlio primogenito di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese. Una lunga serie di mosse politiche aveva da tempo preparato il terreno per una evoluzione in tal senso: nel 1718il trattato di Londra aveva riconosciuto don Carlos, allora di appena due anni, quale futuro granduca di Toscana e duca di Parma e Piacenza, dopo la morte dei sovrani regnanti. Per cercare di facilitare quanto più possibile una successione che era stata accettata in modo molto problematico, e che egli caldeggiava per favorire la nipote e figliastra Elisabetta, il duca di Parma Francesco Farnese aveva accuratamente cercato di scoraggiare eventuali contendenti interni: soprattutto una possibile discendenza del fratello Antonio. Non ne aveva, quindi, favorito il matrimonio, al quale del resto il fratello era poco propenso. Nel febbraio 1727, per l'improvvisa morte senza eredi diretti di Francesco, Antonio, divenuto sovrano di Parma e Piacenza, si era ritrovato al centro di una situazione politicamente delicata e, nel contempo, carica di aspettative. Da un lato esistevano i diritti di don Carlos, dall'altro non era un mistero che l'imperatore Carlo VI avrebbe cercato di occupare militarmente i Ducati - dichiarati ancora nel 1718 feudi del Sacro Romano Impero - ufficialmente per tutelare i diritti spagnoli, in realtà con l'intento di ribadire la subordinazione a Vienna di quell'area. Per gli uni e gli altri Antonio Farnese costituiva un inutile intralcio in vista di una sistemazione politica definitiva della zona.
Stretto tra interessi tanto più potenti di lui e, ad onta della sua fatuità, affezionato al suo popolo, per il duca Antonio fu giocoforza pensare a un matrimonio nel tentativo di assicurare in extremis una discendenza giuridicamente ineccepibile che garantisse la sopravvivenza di una famiglia tanto illustre. Il pontefice premeva in tal senso e cosi anche molte potenze europee. Fu cosi che "risolvette di collocarsi in matrimonio quantunque la sua pingue corporatura e la sua età di quarantotto e più anni, lasciassero poco sperare di ricavarne alcun frutto" (I). M. Giacobazzi, in Vistarino Giacobazzi p. 9). Quanto il risultato concreto fosse universalmente ritenuto problematico e testimoniato dalla reazione ilare e dai salaci commenti di Elisabetta Farnese che, niente affatto preoccupata, evidentemente non aveva motivo di ritenere i suoi progetti seriamente compromessi.
Rimaneva da risolvere il problema della scelta della sposa. A ciò pensarono di comune accordo il conte O. Anvidi, segretario di Stato, e la contessa Margherita Borri Giusti, favorita en titre del duca e sua compagna in lunghe stagioni di divertimenti, decisa a sistemare le cose in modo da ricavarne lo svantaggio minore. Si instaurarono trattative segrete tra la gentildonna e il nobile Lodovico Rangoni, rappresentante della corte estense.
In breve la designazione cadde su E., la più giovane delle tre figlie di Rinaldo d'Este: scelta opportuna, trattandosi di principesse tutte sopra i vent'anni e considerando il risultato immediato cui le nozze famesiane miravano. Il 26 luglio 1727 il conte Anvidi si recò a Modena per firmare i capitoli del contratto nuziale patteggiato - per conto degli Este - da Borso Santagata: 200.000 scudi furono la dote assegnata. Tanta celerità sembrò trovare una battuta d'arresto nel prolungarsi del soggiorno del duca Antonio insieme con la sua corte di accademici e dame nella villa di Colorno: evidentemente la situazione spingeva a concludere le nozze, ma lo sposo era riluttante e non dava segno di volere abbandonare abitudini e compagnie tanto a lungo coltivate. Rinaldo d'Este, dal canto suo, non osava proteste, pure legittime, nel timore di perdere la possibilità di collocare in matrimonio almeno una delle tre figlie. Solo nel gennaio 1728 Antonio Farnese - vincendo la propria evidente renitenza, probabilmente persuaso dalla pressione papale e preoccupato dalle mosse imprevedibili della Spagna - si decideva a fissare la data della cerimonia: il 5 febbraio di quell'anno a Modena si celebrò l'atteso matrimonio, lo sposo essendo rappresentato dal principe ereditario di casa d'Este.
Nel tripudio d'obbligo, ai più avveduti certo non sfuggiva una tensione latente ma angosciosa. Si sapeva delle gravissime considerazioni di ordine politico che imponevano ad Antonio di assicurare la successione al suo casato ed era voce pubblica, del pari, che le sue condizioni fisiche avrebbero reso tutto ciò problematico. Il duca Rinaldo poteva a buon diritto, quindi, essere preoccupato: nell'immediato per la situazione già a priori gravida di imprevisti in cui inviava la propria figlia, ingenua più per educazione che per età, e, subito dopo, anche a causa dei possibili riflessi negativi che poteva provocare a Modena un eventuale conflitto tra Spagna e Impero.
Una volta a Parma la vita coniugale di E. non tardò a rivelarsi deludente: dopo le prime, inebrianti esperienze mondane tra rappresentazioni teatrali, ricevimenti e feste per le quali la corte farnesiana andava a buon diritto famosa in Europa, cominciò a farsi strada nell'ingenuità della giovane Estense il sospetto, ad esempio, sugli effettivi rapporti tra il duca Antonio e la contessa Borri e, soprattutto, sul fatto di essere stata prescelta proprio in forza della sua inesperienza e, quindi, innocuità. Ma ad aumentare le pressioni entro la corte parmigiana sopravvenne un avvenimento diplomatico che doveva rivelarsi determinante nel successivo evolversi dei fatti: il 9 nov. 1729 Filippo V di Spagna - sollecitato dalla moglie Elisabetta perennemente in angustie per l'avvenire dei suoi figli - stipulò a Siviglia un patto con Francia e Inghilterra, all'insaputa dell'imperatore; era convenuto che fin d'allora e non alla morte dei rispettivi detentori si dovessero introdurre nelle piazze di Livorno, Portoferraio, Parma e Piacenza 6.000 Spagnoli a titolo di custodia preventiva dei futuri possessi da parte di don Carlos. Oltre all'inevitabile reazione dell'imperatore, che si vide quasi costretto a inviare in Italia un corpo di armata, il trattato di Siviglia provocò immediate ripercussioni in Toscana, dove si prevedeva l'estinzione non lontana dei Medici nella persona di Gian Gastone, da anni separato dalla moglie Anna Maria di Sassonia Lauenburg. Ma soprattutto doveva fare precipitare la situazione nel Ducato farnesiano.
A questo proposito l'imperatore Carlo VI si trovava davanti a una scelta quasi obbligata: prevenire le mosse spagnole che ormai chiaramente miravano alla ricostituzione dei domini italiani, occupando militarmente le piazze contese per poi concedere l'investitura all'infante di Spagna solo quando costui avesse adempiuto alle formalità di un feudatario - almeno nominale - dell'Impero. Per compiere l'operazione nella più assoluta legalità bisognava superare l'ostacolo rappresentato dalla presenza del legittimo detentore dello Stato farnesiano, il duca Antonio, appunto. Le cronache non escludono che i dignitari di Vienna abbiano pensato ad affrettare la morte dell'ultimo Farnese, sia pure tenendone all'oscuro l'imperatore. Si è a conoscenza, comunque, di un decreto del 30 ag. 1730, inviato dall'imperatore al conte Carlo Borromeo suo plenipotenziario in Italia: si disponeva l'occupazione armata degli Stati di Parma e di Toscana in caso di morte dei legittimi sovrani è di assenza di eredi maschi.
Comunque, quando il 20 (ma il 22 secondo il Giacobazzi) genn. 1731 Antonio Farnese cessò di vivere "prima … che giungesse alle Corti straniere la nuova di questo grande avvenimento, anzi quasi prima che partissero da Parma i corrieri spediti a recarla" (Giacobazzi, in Vistarino Giacobazzi, p. 42) si presentò in città il generale Carlo Stampa, emissario del Borromeo, allo scopo di eseguire le disposizioni militari promulgate nell'agosto. Sia che i ministri di Vienna abbiano accelerato la morte del duca grazie ai medici prezzolati della corte parmense e alla naturale propensione degli ultimi Farnese per l'alchimia e la manipolazione delle erbe, sia che il decorso della malattia abbia condotto a un decesso naturale un fisico già provato dalle intemperanze e dalla pinguedine, la morte di Antonio Farnese attirò sui Ducati l'attenzione delle Cancellerie europee a causa della situazione potenzialmente carica di incognite che si veniva a creare. Ma il vero colpo di scena doveva avvenire all'apertura del testamento, che divulgava una notizia ritenuta strabiliante: il duca lasciava erede dei suoi Stati il "ventre pregnante" della moglie Enrichetta. Indubbiamente l'annuncio della gravidanza inaspettata assecondava in quel momento il gioco degli Imperiali, faceva reagire violentemente Elisabetta Farnese, che vedeva intralciati i propri disegni materni ma, nonostante la dichiarazione testamentaria e le prove che la duchessa ne poteva avere, lo scetticismo restava diffuso.
Certo, sulla buona fede del duca Antonio è lecito avere più di qualche dubbio: la gravidanza annunciata poteva rappresentare una via d'uscita dalla critica situazione e l'espediente dei parto simulato non era una novità in assoluto. Più problematico spiegare l'atteggiamento della vedova: per quanto giunta all'altare corazzata da una pericolosa ingenuità, è difficile credere che dopo tre anni di convivenza non avesse subodorato se le condizioni del marito fossero tali da consentirle di divenire madre. Sia come sia, il peso e l'imbarazzo di tale situazione lo dovette sopportare tutto: ormai la gravidanza di E. era divenuta oggetto di osservazione e commenti in ogni corte europea. Elisabetta Farnese, soprattutto, convinta che non si trattasse se non di una manovra per togliere al figlio gli Stati che gli spettavano, si era abbandonata dapprima a insinuazioni di una chiarezza brutale, poi aveva organizzato in Parma una rete di spie per seguire da vicino l'evolversi degli avvenimenti e nominato la madre Dorotea Sofia, colà residente, plenipotenziaria per l'infante don Carlos.
E., prevedibilmente smarrita e incapace di distinguere chi le fosse fedele e chi la tradisse, chiedeva ripetutamente aiuto e consiglio al padre, il quale pare essere stato prodigo di consigli più che di interventi concreti anteponendo, come sempre aveva fatto, la salvaguardia della propria posizione politica alle compromissioni familiari o affettive. Anche a scapito dell'onore della figlia, egli decise di secondare il volere del suo padrone imperiale. Probabilmente a Vienna e a Milano non ci si faceva illusioni sulla gravidanza ducale, ma l'indifesa vedova non osava andare contro gli evidenti desideri dell'Austria. Una volta innescato un tale meccanismo per cui nessuno osava o voleva scoprirsi, le cose procedettero sino alla svolta rappresentata dal trattato firmato a Vienna, il 16 marzo 1731, tra Inghilterra e Olanda, da una parte, e imperatore dall'altra. A costui veniva riconosciuta la validità della prammatica sanzione ma in cambio gli si chiedevano pesantissime contropartite. Carlo VI si impegnava ad ammettere gli Spagnoli in Toscana e nei Ducati parmensi e a ritirare l'esercito imperiale di stanza in Italia. Nonostante il patto stipulato avesse la logica conseguenza di abbandonare Parma al suo destino, Vienna poteva ancora nutrire qualche speranza finché non si fosse considerata estinta la casa Farnese: la gravidanza della duchessa reggente andava, quindi, difesa a spada tratta a dispetto delle pressioni quasi impudenti della Corona spagnola e della duchessa Dorotea Sofia che la rappresentava.
Per quanto un accertamento medico - sorta di visita fiscale effettuata con gran pubblicità il 31 maggio 1731 - avesse dichiarato sorprendentemente che la gestazione era giunta al settimo mese, per molti degli osservatori presenti in città essa restava "un oscurissimo arcano". Ciò che, invece, emergeva chiarissimamente era, da un lato, la feroce contrapposizione tra la regina di Spagna e lo Stampa, creatura di Vienna e manovratore neppure troppo occulto della situazione a Parma e, dall'altro, la posizione indifesa di E., ormai ridotta a un ruolo di puro strumento.
A fine luglio la Spagna - incurante di ogni etichetta - avanzò la richiesta formale di un parto pubblico a evitare probabili brogli; Carlo VI - ormai poco interessato al destino dei Ducati farnesiani - acconsenti, ponendo in grave imbarazzo lo Stampa, il quale, pur non reagendo ufficialmente, in realtà intensificò l'opera di corruzione giungendo a confidare chiaramente alla duchessa ciò che si era proposto fin dall'inizio della vicenda: simulare un parto, ponendo accanto ad E. un neonato non suo. Fortunatamente, dalla fine di luglio, Rinaldo d'Este aveva tardivamente consentito ad inviare il proprio ministro, l'abate D. M. Giacobazzi, in aiuto alla figlia.
Costui s'era fatto rapidamente un'idea realistica della situazione, possedeva fermezza e capacità di rintuzzare iniziative pericolose e, per quanto profondamente convinto che l'estinzione della casa Farnese e il ritorno degli Spagnoli in Italia avrebbero reso inevitabile una guerra e posto in pericolo gli stessi Stati estensi, non aveva dubbi sul fatto che il duca di Modena e la figlia non dovessero prestarsi all'inganno voluto dai ministri di casa d'Austria. Tutto ciò era incompatibile con la salvaguardia di un minimo di dignità e, soprattutto, rischiava di naufragare nella maniera più vergognosa agli occhi dei mondo, visto il pullulare incontrollabile di spie spagnole alla corte di Parma. E la vendetta di Elisabetta Farnese veniva valutata più pericolosa dell'avvenire incerto che si prospettava. Lo scopo. ormai, era quello di "… assicurare sempre più la protezione della Corte di Vienna e … mitigare quella di Spagna giacchè da questi due capi dipendono interamente le convenienze della Serenissima per l'onorevole di lei uscita da questo inipegnoc cosi scriveva il Giacobazzi al suo signore (Vistarino Giacobazzi, p. 162), mentre, col trascorrere dei tempo, la situazione andava sempre più assumendo connotati da tragicommedia.
La decisione della regina di Spagna, esasperata da un'attesa insostenibile, di muovere causa alla reggente con l'accusa di detenzione illegale di potere a danno di don Carlos, aveva provocato la immediata contromossa imperiale che decideva di sacrificare ancora una volta l'onore di una principessa per ritardare una dichiarazione che avrebbe obbligato Carlo VI a consegnare Parma e Piacenza agli Spagnoli. Gli ordini di Vienna erano chiari: tutto doveva rimanere inalterato "fino all'ingresso dell'undicesimo mese". Era troppo persino per l'esperto Giacobazzi al quale, messo alle strette, "… convenne infine di soccombere e di contrarre una mortale infermità" (Vistarino Giacobazzi, p. 174).Solo il 4 settembre l'imperatore decise di troncare gli indugi e - riconoscendo implicitamente l'estinzione di casa Famese - di disporre l'occupazione militare dei Ducati in attesa di consegnarli a don Carlos secondo gli accordi. Il 5 fu comunicato ad E. l'atteso permesso di rendere finalmente ufficiale lo "scioglimento della gravidanza". Il 13 dello stesso mese il Giacobazzi, per l'occasione ristabilitosi, annunziava al duca Rinaldo che la figlia aveva riacquistato la sua libertà e il giorno successivo era reso noto l'editto imperiale che autorizzava l'occupazione immediata del Ducato. Il 29 dicembre - nel corso di una fastosa cerimonia - si compiva l'atto formale di consegna in mano spagnola.
Da questo istante la vedova di Antonio Farnese, dopo essere stata strumento della più cinica delle politiche di potenza, veniva abbandonata a sé stessa e quasi dimenticata: il padre Rinaldo - pavido e interessato - faceva sapere di non desiderarla a Modena e, ovviamente, la numerosa corte di ministri e nobiltà, che pure a suo tempo se ne erano contesi i favori, era tutta protesa ad ingraziarsi quelli della regina Elisabetta. Costei si era fatta sbrigativamente consegnare dalla vedova i celebri gioielli di casa Farnese, anticipando con tale gesto le premesse della dipendenza economica che avrebbe caratterizzato a lungo il successivo periodo della vita di Enrichetta. Del resto, le stesse disposizioni testamentarie del marito avevano previsto che il vitalizio di 60.000 doppie destinatole, insieme con la dote, le fossero consegnate esclusivamente dalle mani dell'erede. Proprio a costui, don Carlos di Borbone, ancora parecchi anni dopo ella si ritrovava a sottoporre un lungo elenco di minute necessità tra cui persino "… pochi cavalli, per rimpiazzarne alcuni poco meno che affatto inabili …" (Carte e Casa Farnesiane, s. 2, b. 40, fasc. 6, c. 7).
Era il periodo in cui dimorava a Piacenza alternando lunghe permanenze a Borgo San Donnino (l'odierna Fidenza, in provincia di Parma), dove nel 1764 era morto il suo secondo marito Leopoldo d'Assia-Darmstad, sposato nel 1740. E. mori, senza figli, a Borgo San Donnino il 27 ott. 1777. Il silenzio dei cronisti non lascia intuire se i quarantasei anni successivi alla parentesi parmense avessero compensato quelli, brevi ma angosciosi, trascorsi accanto all'ultimo dei Farnese.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Parma, Carte e Casa Farnesiane, b. 40, fasc. 2, 3, 6; Felice da Mareto, Bibl. generale delle antiche famiglie parmensi, II, Parma 1974, pp. 389 s.; L. Ambiveri, La creduta gravidanza della duchessa E. d'E., in Atti e mem. d. Rr. Deput. di storia patria delle provv. modenesi e parmensi, s. 3, II (1884), pp. XXVII-XXX; A. Maestri, Del matrimonio della principessa E. d'E. col duca Antonio Farnese (5 febbr. 1728), in Atti e memorie della Deputazione delle antiche provv. Modenesi, III (1924), pp. XXVI-XXVIII; A. Marchi, La sepoltura di E. d'E., in Aurea Parma, X (1926), 3, pp. 146-149; L. Vistarino Giacobazzi, E. d'E. …: congiure e intrighi intorno ad un trono, Novara 1941; G. Drei, IFarnese. Grandezza e decadenza di una dinastia ital., Roma 1954, ad Ind.; M. C. Nannini, E. d'E., ultima duchessa Farnese, in Parma per l'arte, X (1960), 1, pp. 15-18; U. A. Pini, Acrobazie poetiche del Frugoni per la supposta gravidanza di E. Farnese, in Arch. stor. per le provv. parmensi, s. 4, XVI (1964), pp. 115-120.