CIALDINI, Enrico
Nacque a Castelvetro di Modena, in località Colombarina, l'8ag. 1811 da Giuseppe e dalla spagnola Luigia Santyan y Velasco. Il padre, ingegnere, discendente da una famiglia di origine pisana trapiantata a Modena intorno alla metà del Settecento, nel 1815 si trasferì nella vicina Reggio. Il C. vi iniziò gli studi presso i gesuiti, ma una espulsione, causata a quanto pare da un gesto irriguardoso nei confronti di un docente, lo costrinse a passare a Parma. Al 1828, anno in cui cominciò a seguire i corsi di medicina e a frequentare, a tempo perso, lo studio di un pittore, risalgono le prime testimonianze dirette sulla vita del C. che a T. Riboli, futuro medico garibaldino, confidava in una prosa cantabile di conio esteriormente romantico l'inquietudine e il tedio di un'adolescenza che cercava sfogo nella lettura e nella poesia (Roma, Museo centrale del Risorgimento, busta 86/100/3: lettera del 7 ott. 1828). La rivoluzione del '31 vide compromessa tutta la famiglia, dal padre che dopo il ritorno di Francesco IV dovette rifugiarsi a Bologna finché nel '35 le autorità pontificie non lo restituirono al governo estense, allo zio paterno Francesco, segretario del governo provvisorio, raggiunto in esilio da una condanna a dieci anni di carcere. Il C., che a Reggio era entrato nel corpo volontario dello Zucchi, dopo lo scontro di Rimini si portò ad Ancona e si imbarcò alla volta di Marsiglia, donde raggiunse Parigi.
Nei due anni che vi trascorse, smessa presto ogni velleità di riprendere gli studi di medicina, condusse per sua stessa ammissione una vita "scioperatissima" (Canevazzi), concedendosi di tanto in tanto a conforto dei genitori qualche perorazione privata in favore della "santa causa" della libertà. Verso la fine del 1832 si ammalò di colera: quando ne guarì, si recò in Portogallo al servizio di don Pedro, l'imperatore del Brasile tornato in Europa a guidare il partito costituzionale contro il fratello don Miguel. Il 1°marzo '33 iniziò, così, col grado di granatiere nel 2° reggimento di fanteria leggera, la sua carriera militare.
Conclusosi nel 1834 il conflitto, vittoriosamente per i costituzionali, il C. partecipò, come sottotenente nel corpo dei cacciatori di Oporto guidato dall'italiano G. Borso de' Carminati e schierato a sostegno della causa cristina, alla guerra di successione al trono spagnolo che vedeva di fronte don Carlos, fratello del deflinto, Ferdinando VII, e la vedova di questo Maria Cristina, che difendeva i diritti della figlia Isabella. Egli si distinse per valore e impegno profuso: molti gli episodi che in proposito una storiografia troppo agiografica e priva di solida documentazione ci ha tramandato; i soli dati certi sono quelli attestati dalle molte decorazioni, dall'avanzamento fino al grado di capitano e dall'eroico salvataggio del fratello Guido rimasto ferito, durante una ritirata. Certo è che in questi anni il C. divenne sul piano della formazione militare un soldato esperto, energico, non alieno da compiacimenti autoritari, ostile ad ogni decisione che non fosse stata elaborata da un regolare Stato Maggiore; mentre su quello politico la storia del C. è un po' quella di altri militari italiani, quali il Fanti, il Cucchiari, l'Aldoino, i fratelli Durando: dapprima sono in contatto con N. Fabrizi che, dopo un breve soggiorno in Spagna, si è stabilito a Malta da dove guarda alla vicina Sicilia come al terreno di sviluppo di un'insurrezione destinata ad estendersi poi all'Italia; tutti si dicono disponibili all'azione anche quando l'eventualità di uno sbarco in Sicilia si fa sempre più remota (Palamenghi-Crispi, Gl'italiani..., e, per il '43, il Protocollo della Giovine Italia, II, p. 74). Ma in seguito, per il protrarsi della lontananza dall'Italia, nel gruppetto di esuli, inizialmente molto compatto, legato perfino tramite l'Ardoino al Mazzini, si determina una serie di distacchi come conseguenza della necessità, che ognuno avverte, di trovare una posizione economica e familiare meno incerta.
Tale esigenza fu ancor più sentita dal C. dopo la disgrazia in cui incorse quando Borso de' Carminati, di cui era stato aiutante di campo, fu processato e condannato a morte perché coinvolto nella congiura contro il reggente Espartero (1841). Anche il C. fu arrestato, posto in aspettativa e confinato a Barcellona; solo più tardi ottenne di potersi stabilire a Valenza presso il fratello Guido, e a Valenza conobbe e sposò Maria Martinez de León (1845). Reintegrato nell'esercito, si distinse ancora nelle intricate vicende della guerra civile spagnola ed ebbe parte attiva a fianco del maresciallo Narvaez nel pronunciamento contro l'Espartero che si concluse con la presa di Madrid. Ciò gli valse la nomina a tenente colonnello nel reggimento di fanteria S. Ferdinando (1843), che l'anno appresso lasciò per passare nella guardia civile. Il 26 ott. 1847 con il conseguimento del grado di secondo gefe - equivalinte a colonnello - ottenne l'ultima promozione della sua carriera spagnola; inviato in Francia per studiare le strutture della gendarmerie, egli fu raggiunto all'inizio del '48 dalle notizie dei primi moti italiani: allora tornò in Spagna, si dimise, e quindi partì per l'Italia.
Giunse a Modena, quando la città, abbandonata dal duca, aveva già affidato al Cucchiari il comando delle truppe volontarie da impegnare contro l'Austria. Il C. si recò allora a Milano, ma si trovò di fronte a un altro rifiuto. Deciso a combattere, il 9 giugno 1848 si unì al corpo di truppe pontificie che, agli ordini di Giovanni Durando, erano entrate nel Veneto; destinato con M. d'Azeglio al settore dei Colli Berici per la difesa di Vicenza, il 10 giugno, durante un sanguinoso quanto inutile contrattacco, ebbe il ventre perforato da una pallottola in maniera che parve fatale. Adeguatamente curato, si riprese; convalescente, chiese di essere arruolato nell'esercito sardo, il solo che gli offrisse la prospettiva di un impiego non contrastante con le proprie idee; per interessamento del Fanti la domanda fu accolta e al C. toccò il comando del 23° reggimento di fanteria, composto in gran parte di rifugiati modenesi e parmensi: una truppa raccogliticcia alla quale egli seppe imporre in breve una ferrea disciplina, ricorrendo anche a sistemi coercitivi di dubbia liceità morale. Il 21 marzo 1849, alla ripr, esa della guerra, la 2ª divisione, cui apparteneva il 23° fu proficuamente schierata presso la villa della Sforzesca a difesa di Vigevano. Due giorni dopo, coinvolta a Novara nella disfatta generale, non poté che eseguire un ordinato ripiegamento, una manovra che valse al reggimento del C. la medaglia d'argento.
Non fu facile per il C. trovare un suo equilibrio nel Piemonte uscito stremato dalla guerra. Il problema era anzitutto professionale: con la mentalità e l'esperienza del soldato formatosi direttamente sui campi di battaglia, egli guardava con fastidio ai tanti formalismi, all'organizzazione antiquata, allo spirito di casta che ancora appesantivano l'esercito sardo. Ma era anche un problema politico, poiché criticare queste incrostazioni equivaleva a prendere coscienza, limitatamente all'ambiente militare, della necessità di praticare una rottura definitiva col passato. Sulla maturazione di questo atteggiamento ebbero unpeso decisivo le profonde insoddisfazioni, aggravate da un temperamento forse troppo ombroso, che caratterizzarono il periodo di ambientamento del C. in Piemonte; prima la lunga trafila per il riconoscimento dei grado raggiunto in Spagna, poi una serie di contrasti con l'ambiente militare sardo che teneva ai margini chi gli era estraneo misero a dura prova la resistenza del C. che più di una volta tra il '48 e il '49 offri le dimissioni o offrì l'esonero. In una di queste occasioni fu l'incompatibilità con un suo superiore, il generale A. Olivieri, ma più generalmente con lo spirito assolutistico che ancora animava gli alti gradi dell'esercito piemontese, a spingerlo alle dimissioni. All'inizio del '50 comunque, superata anche l'amarezza causatagli dallo scioglimento del 23°, il C. era a Genova a comandare il 14° reggimento della brigata Pinerolo e qualche mese dopo, a lamentarsi ancora con l'amico M. d'Azeglio, allora presidente del Consiglio, per la mancata promozione a generale, promozione accordata invece a "tanti asini inettissimi" (Roma, Museo centrale del Risorgimento, busta 561/7016: lettera del 22 maggio 1850).
La sospirata nomina arrivò solo il 1° ag. 1855, mentre il C. era in Crimea: nel marzo aveva avuto il comando della 3ª brigata, una delle cinque prescelte come contributo del Piemonte alla guerra contro la Russia. Gli uomini del C. non ebbero modo di segnalarsi: assenti alla Cernaia, poi designati a rappresentare il corpo nell'assalto finale a Sebastopoli, restarono inutilizzati in trincea mentre Francesi e Inglesi si spartivano il merito dei successo. I frutti di questa partecipazione alla guerra di Crimea il C. li colse dopo il ritorno a Torino allorché, rotta la crosta di diffidenza che lo circondava e che egli, forse non a torto, attribuiva al fatto di non essere piemontese, fu nominato aiutante di campo del re, ispettore dei bersaglieri, comandante della scuola di Ivrea. Alla vigilia della guerra del '59, ebbe l'incarico di organizzare i volontari nel corpo dei Cacciatori delle Alpi il cui comando fu dato a Garibaldi..
Ebbe così inizio il rapporto del C. con, i vertici del Partito d'azione. Come i fatti dimmostrarono, non era un rapporto facile, e in ogni caso non comportò una conversione del C. alle idee democratiche: la sua fu in effetti una scelta strumentale intesa a conquistargli lo spazio politico negatogli dai moderati piemontesi. Le premesse per questa tacita alleanza non mancavano: il C. era in ottimi rapporti con uomini molto vicini a Garibaldi e, pur non avendo cambiato idea sulle formazioni volontarie e sulla guerra per bande, aveva. una stima sincera per il nizzardo che preferiva senz'altro al Mazzini per la concretezza e per lo spirito d'iniziativa non eversore delle istituzioni. Entrambi poi, pur se con sfumature diverse, vedevano in Vittorio Emanuele II il solo uomo capace, per caratteristiche umane e per, funzioni istituzionali, di comporre le divisioni insite nelle origini stesse della classe politica italiana. L'unità di intenti in nome del re diveniva però insanabile contrasto nell'atteggiamento che Garibaldi e il C. assumevano verso Napoleone III, per il primo, il maggiore ostacolo alla completa unificazione del paese, per il secondo, punto di riferimento obbligato di ogni iniziativa italiana.
Allo scoppio della guerra la 4ª divisione, comandata dal C., fu tra le prime ad entrare in azione con una finpetuosa sortita da Casale, e, dopo una breve sosta a Vercelli, il 30 maggio si portò a Palestro -che al termine di un assalto vigoroso sottrasse agli Austriaci: "Il Re - annunziò con orgoglio il C. ad un generale, forse il Fanti - mi promosse Luogotenente Generale sul campo di battaglia" (Forlì, Bibl. Piancastelli: lettera dell'11 giugno del 1859). Ma la vittoria non fu tale da garantire un impiego successivo nella pianura, teatro delle maggiori operazioni: distaccata nelle vallate alpine, la 4ª divisione si assicurò il controllo della regione con una serie di azioni minori condotte insieme con i Cacciatori delle Alpi che le erano stati aggregati dal 25 giugno, ma nel C. rimase la delusione per la mancata partecipazione alla battaglia di San Martino.
Il '60 fu più fortunato. Quando parve che la spedizione garibaldina stesse per puntare su Roma il C., che si trovava a Bologna a capo del IV corpo d'armata, fu con L. C. Farini inviato il 28 agosto a Chambéry per sondare le intenzioni di Napoleone III sul progetto cavouriano di intervento nell'Italia centrale: "Faites, mais faites vite", sarebbe stata, secondo una tradizione non documentata, la risposta dell'imperatore; è certo comunque che mentre il Farini patrocinò Paspetto politico della questione, il C. trattò quello militare. e fu appunto lui che con il generale Della Rocca e agli ordini di Fanti guidò la spedizione nelle Marche, occupò Pesaro dopo una rapida marcia, affxontò a Castelfidardo i pontifici del Lamoricière (18 sett. 1860), li sconfisse e quindi partecipò all'assedio e alla presa di Ancona.
Sulla battaglia di Castelfidardo, ricordata in un celebre monumento dallo scultore V. Pardo, avrebbe acceso molte polemiche la testimonianza di G. Finali, all'epoca segretario di L. Valerio, commissario piemontese nelle Marche: secondo il Finali, il C. non assistette allo scontro e ne fu informato a cose ormai fatte. Sdegnosamente respinta da altri militari che avevano partecipato alla battaglia (Orero; Di Prampero) e dal De Cesare (II, pp. 83ss.), la tesi del Finali non fu poi presa in considerazione dagli storici militari che conclusero che a Castelfidardo, pur avendo male calcolato "la direzione dell'attacco nemico", il C. aveva saputo "volgere a proprio vantaggio la situazione" (Pieri, 1962, p. 716).
Ripresa la marcia, il C. entrò nel Molise; vinta presso Isernia la resistenza di contadini e regolari borbonici, e date rigide disposizioni sull'atteggiamento da assumere verso la popolazione, si spostò verso Caserta e il 25 ottobre presso Teano vide Garibaldi col quale trovò un'inteáa molto cordiale che preparò il terreno allo storico incontro con Vittorio Emanuele. Giunto infine a Gaeta, ebbe l'incarico di guidare l'assedio della fortezza che aveva offerto rifugio a Francesco II di Borbone e ai resti del suo esercito.
Il C. iniziò le operazioni l'11 novembre, ma il principio della massima rapidità, cui in questa come in altre occasioni volle ispirarsi, poté essere applicato solo dopo il ritiro delle navi francesi, che impedivano l'attacco dal mare e l'arrivo della flotta piemontese; molti anni dopo il C. avrebbe scritto a N. Nisco che l'assedio di Gaeta andava ricordato per due aspetti, tecnico il primo - l'adozione dei "fuochi curvi" umano l'altro, "a tal proposito rilevava la forma cortese ed umanitaria, che ha presieduto sempre i rapporti fra gli assedianti e gli assediati" (Nisco). e le cronache dei tempo parlano di una vigorosa determinazione, temperata, anche per compiacere gli osservatori stranieri, da gesti di rispetto per gli avversari e da un proclama, steso dopo la resa del 13 febbr. 1861, in cui, fatto cenno al "necessario ma doloroso ufficio "della guerra contro altri italiani, si bandivano le "dimostrazioni di gioia" e gli "esultanti tripudii del vincitore" (Marcotti, p. 63). L'assedio della cittadella di Messina, che pure gli fu affidato, seguì solo in parte questo copione: l'assenza di ogni ostacolo di natura diplomatica permise agli assedianti di assumere un atteggiamento molto più deciso, quasi arrogante; ma il 12 marzo 1861, nell'annunziare al re la resa della cittadella "dopo sei ore di fuoco intenso e fortunato", il C. non trascurava: di raccomandare "la sorte della guamigione che fu vittima di pochi tristi" (Roma, Stato Maggiore Esercito, Carte Minonzio-C., busta 6/23/1);eil Cavour commentava sorridendo: "Ce diable d'homme n'est fèroce qu'en paroles" (lettera a Vimercatì, in Idocumenti dipl. it., serie 1 (1861-1870), I, p. 36).
I successi conseguiti, l'amicizia del re, la stima del Cavour, l'elezione alla Camera nel '60 e nel '61 (VII e VIII legislatura) conferirono al C. un peso notevole nella vita del paese, peso che egli credette di dover riaffermare quando in Parlamento il Sirtori e Garibaldi attaccarono la, politica governativa sulla questione dell'esercito meridionale: nacque così la famosa lettera a Garibaldi, apparsa sulla Gazzetta di Torino (22apr. '61), in cui il C. condannava, facendosi interprete dei sentimenti di tutto l'esercito, metodi e forme dell'azione politica garibaldina; il linguaggio offensivo e pesantemente allusivo della lettera e un maldestro tentativo di ridimensionare l'impresa dei Mille apparvero inopportuni agli stessi moderati e furono sud punto di aprire una grave frattura tra governo e opposizione. Una pacata risposta di Garibaldi, che riportava la disputa sul tema centrale del futuro dell'esercito meridionale, e l'intervento di comuni amici scongiurarono un duello; ma la riconcifiazione che sopravvenne, per quanto sincera, non era tale da far presagire la svolta che solo tre mesi dopo il C. avrebbe impresso alla politica governativa nel Mezzogiorno.
La regione era afflitta dalla piaga dei brigantaggio e dall'attività dei legittimisti con cui aveva invano. cercato l'accordo il luogotenente G. Ponza di San Martino. Apparsa inefficiente anche la repressione militare, il Ricasoli, appena succeduto al Cavour, affidò la luogotenenza al C. che, insofferente di ogni condizionamento, una volta a Napoli concentrò su di sé i poteri militari e civili e, pur di stroncare il brigantaggio, scelse di venire a patti con la Sinistra, convinto, come spiegava al Ricasoli nel rapporto del 16 luglio 1861, che fosse "indispensable de caresser un pcu le parti avancé" (Arch. centr. dello Stato, Carte Ricasoli-Bianchi. busta 1, fasc. 1) per ottenerne gli elementi che avrebbero dovuto fornire l'ossatura della guardia nazionale mobile. Anche se tale orientamento non piacque ai moderati, l'azione repressiva del C. e il ricorso a misure di durissima rappresaglia tolsero il sostegno delle popolazioni alle bande che infestavano le campagne meridionali. La sua tattica fu quella di presidiare i grossi centri e di aggredire le bande più consistenti con colonne mobili capaci di rapidi spostamenti: suo sostegno furono i piccoli borghesi delle città e gli ex volontari, in cui produsse molte illusioni quando colpì col massimo rigore gli esponenti del passato regime. Per il C. la collaborazione con i democratici fu sempre e solo uno strumentò; e quando Garibaldi espresse la speranza di marciare su Roma con lui, gli rispose che non avrebbe mai tradito la fiducia accordatagli dal re e dal governo. Ciò nonostante, i sospetti dei moderati e le pressioni francesi perché si ponesse fine alla situazione eccezionale determinatasi nel Meridione si fecero sempre più sensibili: di fronte ai limiti imposti da Ricasoli, il C. già il 16 agosto presentava le dimissioni per poi ritirarle accettando di restare in carica finché, a metà ottobre, un decreto aboliva la luogotenenza.
Al ritorno a Torino egli si distaccò dalla maggioranza, operazione dietro alla quale ci fu chi volle vedere una manovra mirante ad abbattere il Ricasoli e a sostituirlo con un governo più condiscendente verso la Francia. La cosa non ebbe seguito, e il C. riprese il ruolo a lui più congeniale, quello del militare energico da inipiegare nei momenti più critici. Risoluto a non uscire comunque dall'ambito di un'opposizione legalitaria, guardava con pessimismo all'effervescenza delle passioni politiche e delle spinte rivoluzionarie di cui coglieva solo il carattere disgregatore; né lasciava spazio a dubbi sulla propria posizione: "La guerra civile - aveva scritto a Fabrizi il 2 luglio '62 - è inevitabile e vi sono rassegnato. Duolmi il dirti che non sarò teco..." (Forlì, Bibl. Piancastelli). Vincarico dì commissario straordinario in Sicilia conferitogli dal Rattazzi nell'agosto del '62, mentre maturava il nuovo tentativo garibaldino, gli offrì la possibilità di essere coerente e di ostentare l'abituale rigidezza. Dopo Aspromonte volle dar prova di clemenza, opponendosi ad ogni azione giudiziaria e chiedendo l'amnistia per i condannati a morte, ma c'è da chiedersi quanto pesassero su tale determinazione la coscienza di aver calcato la mano e, soprattutto, il desiderio che non si facesse luce sulle responsabilità del governo e del re.
Alla fine del '62 era di nuovo a Bologna, al comando del IV dipartimento militare; nel marzo '64 H Minghetti propose ed ottenne per lui la nomina a senatore; e al Minghetti, che poco dopo lo interrogava sull'opportunità di un trasferimento della capitale, il C. indicava come più rispondente la scelta di una città posta sotto gli Appennini e lontana dal mare: alla base era la. convinzione che le alleanze non fossero eterne e che, un conflitto con la Francia avrebbe esposto Torino al pericolo di una invasione, ma si faceva anche strada in lui Pidea, come affermò in Senato il 6 dicembre intervenendo a sostegno dell'aspetto militare e in parte anche di quello politico della convenzione di settembre, che, nel momento in cui PItalia si apprestava ad occupare "quel posto che le compete per posizione geografica, natura di suolo, per numero, indole e genio dei suoi abitanti", occorresse dare un'impostazione più dinamica alla politica nazionale.
Alla vigilia della guerra del '66 il C., comandante del IV corpo darmata, concordò con il La Marmora il piano delle operazioni. Le polemiche seguite alla sconfitta chiarirono quanto, i contatti intercorsi tra i due risentissero della reciproca diffidenza e del desiderio di ognuno di imporre all'altro il proprio punto di vista: il La Marmora in effetti non ebbe la forza di far rispettare le proprie direttive; e il C., che già da tempo considerava eccessivo il peso del La Marmora, fu con la insofferenza di ogni condizionamento dall'alto il responsabile della divisione delle forze. Giustamente egli sconsigliò l'attacco al quadrilatero ma, pur di salvare la propria autonomia dall'invadenza del re, accettò il principio del doppio schieramento e s'illuse che le dodici divisioni del La Marmora si prestassero a un'azione dimostrativa sul Mincio che, richiamando gli Austriaci, gli consentisse di varcare il Po e di invadere il Veneto. Nella sua Risposta ...all'epuscolo "Schiarimentie rettifiche del gen. La Marmora" (Firenze 1868) il C., replicando anche ad altri anonimi censori del suo operato, osservava che, se richiesto, avrebbe effettuato senza esitazioni la manovra dimostrativa: ma era, il suo, un argomentare a posteriori, perché è certo che nel giugno del '66 avrebbe ritenuto una proposta del genere lesiva del suo prestigio. Si aggiunga che, subito dopo Custoza, il panico lo spinse addirittura a ritirarsi verso Bologna: più tardi egli si difese sostenendo che la sconfitta del La Marmora rendeva incauta una sua avanzata, ma non spiegò perché non avesse almeno mantenuto le sue posizioni né giustificò i successivi ritardi nell'avanzare. Quando finalmente l'8 luglio passò il Po, Napoleone III aveva già avviato la mediazione che avrebbe chiuso le ostilità. Il 14 luglio a Ferrara un consiglio di guerra assegnò al C. il comando di quattordici divisioni: "Spero che Cialdini farà meglio di me I farà di certo bene, perché ha la fortuna di non avere sotto di sè un Cialdini", fu nell'occasione l'amaro commento del La Marmora (Carteggio politico di M. Castelli, II, p. 152); ma ormai la guerra era finita, e le marce indisturbate del C. non valsero a mutame l'esito.
Gli avvenimenti del '66 lasciarono una traccia profonda nell'animo del C. che si sentì politicamente indebolito dal fallimento. Nell'aprile del '67 per motivi di natura privata entrò in urto con il Rattazzi; a Destra c'era contemporaneamente chi, come il Lanza, auspicava l'avvento sulla scena politica di "un uomo non ancora impastoiato coi partiti", ma :il C., cui si riferiva, si considerava un emarginato: "non si fa calcolo alcuno su di me, e si cercò invano di esautorarmi nel concetto e nelle speranze dei gruppi politici... Dal 1860 in poi credo esser questa la prima crisi per superare la quale io non sia stato consultato" (Carteggio... Castelli, II, pp. 224 ss.). Ciò lo risospinse verso la Sinistra democratica con cui non aveva mai troncato i rapporti: già nel '65 aveva espresso al Crispi la necessità della creazione di un "partito progressista che non potesse essere sospettato mai di tendenze repubblicane, che avesse un programma chiaro... che presentasse uomini capaci ed accettabili per attuarlo arrivando al potere" (Carteggi politici inediti di F. Crispi (1860-1900), p. 217): l'idea di un blocco progressista che agisse nell'ambito del sistema monarchico risultava funzionale all'azione che il Mordini e poi il Crispi avevano ùifruttuosamente esercitato su Garibaldi; ma il C., che avrebbe potuto rappresentare la soluzione di ripiego, all'inizio del '67 respinse le propose, fattegli dal Crispi dicendosi "esautorato", privo "di esperienza e di abilità parlamentare", "vecchio e sfiduciato" e dimenticato dalla corona (lettera dell'11 febbr. '67, in Carteggi politici inediti di F. Crispi, p. 232). Questo senso della propria insufficienza e della gravità della crisi durava ancora nel C. nel giugno del '67 ed anzi risultava aggravato dalla sensazione che la necessità di contenere il deficit del bilancio portasse, ad una riduzione delle spese militari: "Prestigio di uomini, di Re, di Parlamento, di Governo - scriveva al Medici il 18 giugno '67 - tutto è logorato..." (Roma, Museo centr. del Risorg., vol. 13).
Indubbiamente l'incarièo di formare un nuovo ministero, conferitogli dal re il 20 ottobre, alla vigilia del nuovo tentativo dì Garibaldi.di prender Roma con la forza e con Rattazzi dimissionario, colse il C. di sorpresa e già esposto al fallimento. Vincolato dalla convenzione di settembre e conscio che una rottura.con la Francia avrebbe avuto effetti rovinosi per l'Italia, il C. si trovava ancora di fronte Garibaldi, ma questa volta doveva agire da politico; a Firenze, il 22 ottobre, cercò di convincere il nizzardo a desistere, e quando questi si mostrò deciso a proseguire, lo lasciò partire senza ordinarne l'arresto. Il successivo tentativo di comporre un governo in cui fossero presenti esponenti della Sinistra naufragò contro la pregiudiziale del Mordini, ministro designato, di lasciar via libera a Garibaldi, che comportava l'inaccettabile rischio di un conflitto con la Francia: "Io non capisco - scriverà il C. al Fabrizi il 15 nov. 67 - come in pieno disarmo si provochi la Francia preparata a guerra. Io non ammetto che si vada a Roma per non restarvi e molto meno che per conquistare la Capitale si perda lo Stato" (Roma, Museo centr. del Risorg., busta 521/16/1): era questa la sua risposta alle accuse lanciategli dal Crispi dopo che il 25 ottobre aveva rinunciato all'incarico, lo stesso Crispi che fino a pochi mesi prima lo aveva elogiato e che nel dibattito parlamentare sulla crisi di Mentana gli avrebbe dato atto di non aver voluto subire l'invasione francese. Ma se avesse potuto difendere le sue decisioni, il C. avrebbesenza dubbio chiamato in causa il peso avuto sugli avvenimenti dalla politica personale di Vittorio Emanuele II.
Dall'isolamento in cui era tornato dopo Mentana il C. uscì lentamente, da una parte riaccostandosi al Mordini, che sul finire del '68 meditò di affidargli la direzione del cosiddetto "terzo partito", dall'altra ritrovando la fiducia del re, al quale fu molto vicino durante la grave malattia del '69 e che lo utilizzò per le sue iniziative di politica dinastica presso le corti estere. Fu proprio la copertura che il suo nome offriva a sinistra, e che sembrava l'indispensabile garanzia per - una compagine ministeriale, a farlo designare presidente incaricato (6 dic. '69) dopo la caduta del terzo governo Menabrea e la rinuncia del Lanza. Il tentativo del C. durò un giorno e si infranse contro il rifiuto del Sella ad entrare nel governo dopo che era venuta meno l'adesione del Chiaves. Agli occhi del C., e anche del Minghetti, il fatto confitrmava l'egemonia del gruppo parlamentare piemontese che, per ridurre il deficit, pulitava sui tagli alle spese militari e sull'inasprimento delle imposte. In effetti il Lanza, al momento di declinare l'incarico, aveva espresso il timore che un uomo come il C., di cui erano note certe inclinazioni al fasto personale e alla prodigalità del pubblico denaro, non fosse il più indicato per un programma di austerità; e se, nonostante le garanzie date dal C. al Sella, la trattativa era fallita, non è da escludere che avessero prevalso i dubbi di quanti scorgevano nell'avvento del generale al potere l'affermarsi di una tendenza bellicista.
Gli eventi successivi convalidarono la tesi che si era trattato di un momento della lotta tra i fautori di una politica di potenza - in genere i militari appoggiati dal re - e i sostenitori di uno sviluppo ordinato e scevro da tentazioni avventuristiche: nel marzo del '70, visto inutile ogni sforzo di far recedere il Lanza dalle progettate riduzioni di spese militari, il C. lasciò il Comando generale del I corpo d'esercitd conferitogli nel '69; e il 3 ag. '70, in Senato, attaccò con estrema violenza la politica governativa, criticando l'arrendevolezza del generale Govone, ministro della Guerra, e invitandolo a dimettersi in quanto non più "sorretto dalle benedizioni, né dall'affetto, né dalla fiducia dell'esercito"; pronta fu la replica del Sella, che chiese se tali parole non adombrassero una minaccia di pronunciamento: in effetti anche questa volta dietro il C. c'erail re che, per portare il paese a fianco della Francia impegnata nel conflitto con la Prussia, si serviva del suo generale per sbarazzarsi di un governo deciso alla neutralità. Il Lanza e il Sella respinsero la manovra, e, dopo i primi rovesci francesi, lo stesso C. cambiò idea, al punto che quando il Thiers nell'ottobre giunse a Firenze per chiedere l'aiuto italiano, il Lanza annotava: "Riminemmo fermi. Cialdini ci aiutò egregiamente. Dimostrò impossibilità portare soccorso efficace Francia" (Tavallini, II, p. 71).
Di fronte alla sconfitta della Francia e all'ascesa della Prussia il C. esternò il timore che si creasse un fronte di potenze reazionarie. In realtà queste preoccupazioni gli servivano per propugnare la necessità di una salda organizzazione militare e per coltivare il suo "sogno di un'Italia arbitra del bacino mediterraneo" (Chabod, p. 560). Logico corollario della frase, da lui spesso ripetuta, per cui bisognava esser forti se, si voleva esser ricchi, e non viceversa - parole che pronunziò anche in Senato nel discorso del 4 giugno '74 -, era la certezza che si dovesse respingere ogni ipotesi di ridimensionßmento militare: in questo considerare I'Iesercito non come strumento di difesa ma come la struttura portante del paese stava l'aspetto veramente autoritario della sua concezione dello Stato; e la difesa dell'equilibrio europeo che il C. diceva di avere a cuore finiva per essere un pretesto per il soddisfacimento delle ambizioni italiane.
L'interesse per la politica estera era legato alla realizzazione di una antica aspirazione del C, l'ingresso nella diplomazia. Già all'inizio del '69 era stato in Spagna ove, giovandosi di vecchie relazioni, aveva cercato d'imporre la candidatura al trono di Amedeo duca d'Aosta, cosa che avrebbe posto le basi per l'affermazione dell'Italia nel Mediterraneo dandole l'egemonia nella progettata unione delle nazioni latine. Fu il successo di questa missione che forse spinse Vittorio Emanuele a conferirgli il titolo di duca di Gaeta e quindi ad inviarlo a Madrid in missione straordinaria presso il re Amedeo (1870). Il C. avrebbe dovuto restarvi come plenipotenziario, ma nel febbraio del '71 il ministro. degli Esteri Visconti Venosta lo richiamò in Italia suscitando le proteste del generale che, conclusa la carriera militare, come presidente del Comitato di S. M. generale dell'esercito, rimase inattivo fino all'avvento della Sinistra.
Uno dei primi atti di L. A. Melegari, primo ministro degli Esteri della Sinistra, fu di richiamare C. Nigra, ambasciatore a Parigi, e di sostituirlo con il C. (lettere credenziali del 7 luglio 1876). Il governo francese non apprezzò il cambiamento, temendo che esso preludesse ad un irrigidimento italiano; f. se il presidente MacMahon aspettò più di un mese prima di accettare "avec résignation" (Chabod, p. 669) la nuova nomina, alla Camera i clericali indicarono nel C. l'uomo di Castelfidardo; ma il repubblicano Gambetta ebbe buon gioco a contrapporre il ricordo del discorso pronunziato in Senato dal C. il 3 ag. 1870. Lo stesso Gambetta cinque anni dopo, poco prima che la missione del C. avesse termine, confidava di credere che in questo periodo il C. avesse fatto "démesurément ses orges, mais assez peti celles de son gouvemement" (lettera del 19 febbr. '81, n. 465, in D. Halevy - E. Pillias, Lettres de Gambetta 1868-1882, Paris 1938).
Non si hanno elementi per valutare la fondatezza di tale affermazione, cui altre se ne affiancano tendenti a sottolineare alcuni lati discutibili del carattere del C., come la suscettibilità, - l'alterigia o l'inclinazione allo sperpero. Ma più che sulle voci un bilancio sicuro della sua attività diplomatica, che ebbe un'amara conclusione nell'occupazione francese della Tunisia, si può basare solo sui dispacci da lui inviati a Roma, dispacci che, conservati nell'Archivio del ministero degli Affari Esteri e solo in parte pubblicati (Idocumenti diplomatici italiani, s. 2, vol. X, Roma 1976), confermano nell'isolamento intemazionale il dato più negativo della politica estera italiana e attestano chiaramente la mancanza, rilevata dal Candeloro, di "quell'armonia tra governo e diplomazia che vi era stata negli ultimi anni di governo della Destra" (VI, p. 123). Con un equilibrio e un senso della misura imprevedibili in lui, il C. operò per attuare le direttive ricevute à vari governi della Sinistra - sia sotto Depretis sia sotto Cairoli -´in ordine ad una decisa salvaguardia dello status quo nel Mediterraneo, e trovò comprensione a Parigi negli esponenti repubblicani che, a più riprese gli garantirono l'inesistenza di mire francesi sulla Tunisia. Una missione semiufficiosa di Crispi in Germania (1877), l'esito del congresso di Berlino e il rifiuto francese a una richiesta italiana di partecipazione all'amministrazione dell'Egitto (1878)turbarono questo quadro che si fece anche più critico quando l'Italia inviò a Tunisi (ottobre '78)un console, L. Macciò, che esasperò l'antagonismo con il rappresentante francese.
Quando nell'ottobre del '79 credette di vedere in G. Tornielli, segretario generale degli Esteri, l'uomo che metteva in cattiva luce il suo operato di ambasciatore, il C., che. era giunto a Parigi accompagnato dalla fama di francofilo e che in effetti considerava con timore l'isolamento cui una rottura con la Francia avrebbe esposto l'Italia, si dimise prendendo a pretesto la pubblicazione di un suo dispaccio nel Libro verde del 2 luglio 1879, Le dimissioni furono accettate, ma nel giugno dell'80 il posto era ancora scoperto: di ciò si lamentò il governo francese, inasprito dall'affare che la soc. Rubattino stava cercando di concludere con l'acquisto della ferrovia Goletta-Tunisi, affare in cui scorgeva non un'operazione privata ma una violazione dello status quo, iltentativo di controllare un paese la cui indipendenza era ritenuta indispensabile per il possesso dell'Algeria. L'urgenza di chiarire la questione spinse dunque il C. ad accettare una nuova nomina ad ambasciatore (lettere credenziali del 2 luglio 1880); il 23 giugno 1880 aveva già inviato al Cairoli un dispaccio che era anche un invito a meditare sull'opportunità di certe scelte: "difendiamo con energia i nostri interessi ma non diamo nessun pretesto alla Francia di muoverci. une querelle d'allemand";certo che l'Italia non avrebbe potuto permettersi una politica di rottura, il C. non vedeva alternative: "Se, invece, un urto colla Francia non vi allarma - era la sua conclusione - seavete delle alleanze sicure, se di fronte al possibile atteggiamento della.Francia nella Reggenza vi sentite decisi a resistere, io non ho più nulla da dire. Ma in questo caso richiamatemi da Parigi e rimettetemi alla testa d'un corpo d'esercito dove la mia presenza sarà più utile che non qui" (Chiala, 1892, II, p. 149). I timori del C. si avverarono: a nulla valse la sua proposta di ritirare da Tunisi i due consoli né ebbe successo il tentativo del Cairoli di allarmare la Francia con uno spostamento italiano verso Germania e Inghilterra: il 4 maggio 1881, allarmata dal progressivo estendersi dell'influenza italiana in Tunisia, la Francia risolse la questione occupando il paese.
Il 25 giugno il C. si dimise e tornò definitivamente in Italia, ove si ritirò a vivere a Livorno. Dalla morte della moglie (1874) era rimasto solo; e solo trascorse gli ultimi anni, mantenendo qualche contatto unicamente con il Crispi, che nell'agosto dell'89 gli offriva addirittura l'ambasciata a Madrid: il timore di una cattiva accoglienza da parte dei cattolici spagnoli indusse il C. a rifiutare. Trail '90 e il '91 la sua salute andò sempre più declinando. Nel luglio del '92, nel fargli visita, D. Farini lo trovò di una "magrezza e pallore cadaverici", consapevole del proprio "disfarsi lentamente" (Farini, I, p. 119), quasi del tutto svuotato della passata energia. Si spense a Livorno l'8 sett. 1892, dopo aver ricevuto, sembra contro la propria volontà, i sacramenti; la salma fu, trasportata a Pisa e tumulata nel Cimitero monumentale.
Fonti e bibl.: Non esiste un archivio Cialdini; a Roma, nell'Ufficio storico dello Stato Maggiore Esercito, è conservato un fondo Minonzio-C., comprendente nove buste in cui sono raccolti docum. e dispacci di carattere prevalentemente militare - molti gli autografi - relativi al periodo 1860-1870 (sulla parte di queste carte rimasta a Milano, v. C. A. Vianello, Iresti delle carte Minonzio-C. della Bibl. di Brera, in Rass. stor. del Risorg., XXVI[1939], pp. 979-86). Sempre a Roma, nelrArchivio del ministero degli Affari Esteri, sono custoditi i dispacci inviati dal C. durante le sue missioni diplomatiche: in gran parte inediti quelli compresi nel pacchi 1317-1320 (serie "divisione politica": Francia;ilmateriale del pacco 1318 è stato in parte pubbl. nei Docc. diplomatici ital., serie 2, 1870-1896, X, Roma 1976, ad Indicem). Copiosa document. sui vari incarichi affidati al C., sia in Italia sia all'estero, è disponibile in altri volumi di questa stessa collana: nella serie 1, 1861-1870, i voll. I-III e XIII (Roma 1952-65), nella serie 2, 1870-1896, i voll. I e II (Roma 1960-66), ad Indicem. Corrispondenza privata inedita del C. si trova a Roma al Museo centrale del Risorgimento (buste 86/100, 108/17, 274/45, 307/19, 521/16, 529/8, 546/72, 561/70, e vol. ms. XIII) e all'Arch. centrale dello Stato (Carte Crispi-Gabinetto, Corrispondenza, buste 67 e 68; Carte Depretis, serie 1, busta 6/17); a Forlì, nella Biblioteca Piancastelli; a Genova, nel Museo del Risorgimento (A. Neri, Museo del Risorgimento. Catalogo, I, Milano 1915, pp. 290-292). Tra le fonti edite: i discorsi parlamentari del C., in Atti Parlamentari, Senato, Discuss., leg. VIII, sess. II, pp. 2119-24; leg. X, sess. I, pp. 2151 s., 2165; sess. II, pp. 987-992; leg. XI, sess. III, pp. 885 ss.; e un'altra porzione di dispacci da Parigi, pubbl., con molte notizie sulla miss in Francia, da L. Chiala, Pagine di st. contemp., Roma-Torino 1892, 1. pp. 179-183, 214 ss., 221 ss., 282; II, pp. 103 s., 110 ss., 120, 148 s., 152, 158. 197-202, 219, 233 s., 237, 260, 307, 316. 338, 344; Id., Ancora una Parola sui preliminari del trattato del Bardo. Dispacci inediti del gen. C., in Nuova Antologia, 16 ag. 1893, pp. 707-17; f. G. E. Curatulo, Francia e Italia. Pagine di storia 1849-1914, Torino 1915, pp. 86-89, 91, 96-107, 110-122. Lettere dei o al C., discorsi, proclami, dispacci sono sparsi, insieme con le testimonianze dei contemporanei, nelle principali raccolte di fonti. Questi i titoli di maggior rilievo: A. Guiccioli, Q. Sella, Rovigo 1887, I, pp. 165, 209-218, 259, 285 s.; E. Tavallini, La vita e i tempi di G. Lanza, I-II, Torino 1887, ad Indicem;M. Castelli, Ricordi (1847-1875), a cura di L. Chiala. Torino 1888, ad Indicem; Carteggio polit. di M. Castelli, a cura di L. Chiala, I-II, Torino 1890, ad Indicem;M. Tabarrini-A. Gotti, Lettere e docc. del barone B. Ricasoli, VI, Firenze 1891, pp. 2 s., 98 s.; G. Finali. Le Marche, Ancona 1896, pp. 56 ss.; M. Minghetti, La convenz. di settembre..., Bologna 1899, pp. 149-157, 184; B. Orero. Castelfidardo, in La Lettura, XVIII(1903), pp. 219-228; A. Di Prampero, La battaglia di Castelfidardo. Ricordi personali, Udine 1904, passim;A. Luzio, Vittorio Emanuele a Custoza, in Studi e bozzetti di storia letteraria e politica, Milano 1910, pp. 422-441; T. Palamenghi-Crispi. Carteggi polit. ined. di F. Crispi, 1860-1900, Roma 1912, pp. 34 s., 47, 55, 57, 216 ss., 230-234, 282, 284, 287, 296 s., 302, 320, 323, 335, 431, 437-440; Id., Gl'italiani nelle guerre di Spagna, in IlRisorg. ital. Riv. st., VII(1914), pp. 45-122, 162-208 passim; Protocollo della Giovine Italia, I-VI, Imola 1916-1922, ad Indicem;F. Crispi, Politica estera..., Milano 1929, ad Indicem;A. Luzio, Aspromonte e Mentana, Firenze 1935, pp. 58 s., 137, 141 s., 149, 181, 200, 202, 238, 241-244, 251, 258, 263-277, 281 s., 284 ss., 293, 313 s., 341, 389 s., 395; Le carte di G. Lanza, a cura di C. M. De Vecchi di Val Cismon, Torino 1936-1941, II, pp. 243, 256; IV, pp. 270, 319 s.; V, pp. 77, 225; VI, p. 376; N. Bixio, Epistolario, a cura di E. Morelli, I-IV, Roma 1939-1954, ad Indicem; Carteggi di B. Ricasoli, a cura di S. Camerani-G. Arfè, XXII, XXIII, XXIV, Roma 1967-1970 (si veda l'indice dei mittenti f. dei destinatari. ad nomen);G. Finali, Memorie. Faenza 1955, ad Indicem;G. Massari, Diario delle cento voci1858-1860, a cura di E. Morelli, Bologna 1959, ad Indicem;D, Farini, Diario di fine secolo, a cura di E. Morelli, I-II, Roma 1961, ad Indicem; Carteggi cavouriani. Indice gener. dei primi quindici volumi (1826-1854), a cura di C. Pischedda, Bologna 1961, ad nomen; Le carte di A. Bertani. Milano 1962, ad Indicem;F. Cognasso, Le lettere di Vittorio Emanuele II, I-II, Torino 1966, ad Indicem; Edizione nazionale degli scritti di G. Mazzini, Indici, II, 1, ad nomen;M. Minghetti, Copialettere, a cura di M. P. Cuccoli, I-II, Roma 1978, ad Indicem. Tra le biografie la più completa e la più documentata, ma anche la più proclive ai toni apologetici, è quella di T. Sandonnini, In mem. di E. C. Notizie e docc., Modena 1911; molto informata sulla luogotenenza napoletana. ma piuttosto carente per gli anni dopo il 1861, è quella di N. Nisco, Ilgen. C. e i suoi tempi, Napoli 1893. Si vedano anche: C., generale d'armata, Torino 1861; G. Marcotti, Il gen. E. C. duca di Gaeta, Firenze 1591; C. Manfredi, E. C. Note biografiche, Roma 1892; E. C. Cenni storici, Livomo 1892 (si ferma al 1866); C. Cesari, E. C., Roma 1911; Diz. del Risorg. naz., II, ad nomen. Pochi i lavori specifici, molte le opere di più vasto respiro contenenti riferimenti e giudizi sull'azione politica e militare dei C.; tra i primi A. V.Vecchi, Mutue relazioni dei generali E. C. e G. Garibaldi, in Riv. stor. del Risorg. ital., I(1896), pp. 544-50; G. Canevazzi, Nella giovinezza di E. C. Spigolature ed appunti, in Rass. stor. del Risorg., X(1923), pp. 19-35; P. Cartechini, Le carte del "Comitato per l'erezione del monum. in onore del gen. C. ...", ibid., LII (1965), pp. 68-70; A. Aquarone, La crisi dell'ottobre 1867 e il fallito tentativo di un ministero C.. in Clio, III (1967), pp. 41-65 (ora in Alla ricerca dell'Italia liberale, Napoli 1972, pp. 247-274). Tra le seconde M. Rosi, Il Risorg. ital., el'azione di un patriota cospiratore e soldato, Roma-Torino 1906, pp. 318, 332, 337, 345, 458; R. De Cesare, Roma e lo Stato dei Papa dal ritorno di Pio IX al XX sett., Roma 1907, II, pp. 69-87; G. Sforza, Esuli estensi in Piemonte dal 1848 al 1859, Modena 1908, pp.51, 61-72; Uff. stor. St. Magg. Esercito, La guerra del 1859 per l'indip. d'Italia, II, Narrazione, Roma 1912. pp. 301-337, 425, 476-477; A. Giaccardi, La conquista di Tunisi. Storia diplom., Milano 1940, passim;F. Chabod, Storia della politica estera st. dal 1870 al 1896, Bari 1951, ad Indicem;C. Manfredi, La spedizione sarda in Crimea nel 1855-1856, Roma 1956, pp. 34, 118, 184, 197 ss., 206 ss.; G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, Milano 1956-78, IV, pp. 333, 493-496; 524 s.; V, pp. 137, 147 s., 163, 168 s., 173-76, 195, 284-288, 292, 330, 352, 363; VI, p. 150; P. Pien, Storia milit. del Risorgimento, Torino 1962, ad Indicem;A. Scirocco, Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell'unificazione (1860-1861), Milano 1963, ad Indicem;F. Molfese, Storia dei brigantaggio dopo l'Unità, Milano 1964, ad Indicem;P. Pieri, Il problema militare del 1866, in Atti del XLIII Congresso di storia dei Ris. ital. (La questione veneta e la crisi it. del 1866), Roma 1968, pp. 213-237 passim;F. Fonzi, I Partiti politici e la polemica sul Sessantasei. ibid., pp. 272, 296 s.; A. Scirocco, I democratici ital. da Sapri a Porta Pia, Napoli 1969, ad Indicem;A. Capone, L'opposiz. meridionale nell'età della Destra, Roma 1970, ad Indicem.