COCCHIA, Enrico
Nacque in Avellino, il 6 giugno 1859, dal direttore dell'Ospedale civico, dottor Michele, e da Rosa del Franco. La famiglia, cattolicissima (lo zio paterno Nicola Cocchia, rifiutati gli allettamenti dell'episcopato napoletano, morì, nel 1890, "canonico teologo della cattedrale di Avellino"), era borghesemente modesta e di contado ma liberale e "laica" in fatto di educazione. Il giovane C. frequentò senza esitazioni o contrasti le scuole statali di Avellino, anche dopo la morte precoce del padre (1º maggio 1869), essendosi la madre risolutamente rifiutata d'iscrivere il figlio al convitto nazionale della città.
Se il ginnasio era sostanzialmente mediocre ne differiva, quanto a docenti, dalle scuole ecclesiastiche, altissima reputazione si acquistò, invece, meritatamente, il liceo, dove il C. entrò l'autunno del 1874, per opera precipua dell'insegnante di latino e greco, Pietro Cavazza, e dell'insegnante di filosofia, Sebastiano Maturi. I quali affiancavano all'insegnamento "pubblico" una sorta d'insegnamento "privato", la domenica mattina, per gli allievi più promettenti (fra cui primeggiava il C.), per insegnare, oltre alle materie d'obbligo, il tedesco, giustamente ritenuto indispensabile a futuri filologi, e invogliare o guidare alla lettura di testi allora nuovi e rivoluzionari: ad esempio, "le due serie di letture sulla Scienza del linguaggio di Max Müller, tradotte dal Nerucci, e le illustrazioni alla Grammatica greca del Curtius, dottamente allargate e sagacemente completate nella bella traduzione del Fumi" (Le mie rimembranze, Napoli 1921, p. 43). Sebastiano Maturi, dal canto suo, che il C. sempre affettuosamente riverì (come suona la dedica del V volume dei Saggi filologici, Napoli 1915) "quale nobile antesignano della lotta / felicemente sostenuta / contro la decadenza / del pensiero speculativo"), il Maturi che paternamente compianse al paterno dolore del C. e la cui tragica fine fu dal discepolo commemorata con vere lacrime di fedeltà e di pietà (vedi, rispettivamente, Pietose rimembranze del nostro dilettissimo Nino, Napoli 1914, pp. 101, 122 s.; Studii critici e scritti varii, Napoli 1927, II, pp. 225 ss.), non soltanto ridiffuse nella scuola i fondamenti dell'hegelismo, massime dell'estetica hegeliana, ma, riallacciandosi alla tradizione dell'idealismo e storicismo partenopei, ricondusse senza stacco né difficoltà né contrasto i discepoli alla lezione di Bertrando Spaventa e di Augusto Vera, nonché, o soprattutto, di Francesco De Sanctis, nel mentre non andava in essi smarrita la più modesta lezione del Settembrini e dello Zumbini.
Il C., entrando nel novembre del 1877 nella facoltà di lettere dell'università di Napoli, con propensioni spiccate per la glottologia e la filosofia, si trovò, quindi, adeguato all'insegnamento de' suoi nuovi ma estri, quand'anche sul Vera e sullo Spaventa predominassero ben tosto, nella familiarità e negli entusiasmi del C., D'Ovidio (già benevolo ispettore del liceo di Avellino) e Kerbaker, cui si affiancò successivamente il professore di storia antica Francesco Bertolini. Non ebbe, invece, che freddezza per il Flores grecista e indifferente disdegno per il togato latinista, l'antimoniniseniano e antistorico monsignor Antonio Mirabelli.
Il più vero modello e maestro del C., tuttavia, restò sempre, in bene e in male, il D'Ovidio, sulla cui prosa corretta, abbondante e sovente troppo diffusa è assai probabile che, consciamente od inconsciamente, il C. articolasse la propria e la cui sottigliezza, più ancor che acutezza, si ritrova in non poche delle "controversie", congetture e quaestiones dell'anche maturo latinista. Èal C. onorevole che mai non ismentisse il grato ossequio al D'Ovidio, non pur ne' suoi scritti memorialistici (Rimembranze, pp. 85 ss.), ma nel ragguaglio in una rivista scientifica (Studii critici, II, pp. 326 s., 418). Il D'Ovidio, che ad un'esperienza di "classicista" univa, per il C., il fascino e l'avvantaggio del discepolato nella Pisa di Alessandro D'Ancona, che classicista e latinista aveva, in effetti, cominciato il proprio tirocinio scientifico, per passare, quindi, all'italianistica, avrebbe voluto far del C. un italianista: "Ma, aggiunse che, per la speranza immediata del successo, ero obbligato a scegliere il latino" (Rimembranze, p. 85).
Il C., che pur aveva già lavorato in filologia italiana e umanistica, col saggio L'invidia tradizionale del Petrarca per Dante (nelle postume Varietà letterarie, Napoli 1931, pp. 115 ss., dov'è significativa la rispettosa, ma franca, libertà delle critiche al Carducci, p. 124 n. 1, rilevando certe "sfumature di pensiero, che il Carducci non ha voluto ritrarre, o perché non v'ha posto mente, o pure ha credute poco importanti") e l'edizione dell'Invectiva contra Fr. Petrarcham diGiovanni di Hesdine e l'Apologia del poeta contra cuiusdamGalli calumnias (ibid., pp. 25 ss.), obbedì al suggerimento del maestro e, per sua intercessione, ottenne dal ministero della Pubblica Istruzione una borsa di perfezionamento a Bologna (1882): per studiare alla scuola di G. B. Gandino (Rimembranze, pp. 91 ss. e, specialmente la temperatissima commemorazione accademica in Saggi filologici, I, Napoli 1902, pp. 307 ss.).
A Bologna, tuttavia, più del ciceronianismo antistorico del Gandino l'attrassero il Brizio archeologo (donde il C. mutuò la tesi dell'italicità degli Etruschi e il proposito, quantunque non mai ben teorizzato né bastantemente chiarito, d'immettere e intendere la storia di Roma e della cultura romana nell'ambito e nel quadro della più vasta "storia italica") e la poesia, nonché la scuola, del Carducci, al quale pur non mancò di rinfacciare certo "giacobinismo" repubblicano della celebre prosa coeva Eterno femminino regale. Data di qui e da allora il rapport C.-Pascoli, che non mancò di ricordare il C. con elogio e gratitudine nel suo Epos (Livorno 1897, p. XXXII, rist. in Prose, I, Milano 1946, p. 795), come non mancò il C., con esempio non certo frequente presso i nostrali filologi, e tanto meno presso il suo stesso discepolo Carlo Pascal, di mostrar apprezzamento e interesse per le interpretazioni pascoliane di Lyra (Letteratura latina anteriore all'influenza ellenica, III, Napoli 1925, pp. 93-94).
Dopo due mesi di supplenza, sul principio dell'83, al ginnasio-liceo Umberto I in Napoli, il C. fu incaricato al ginnasio superiore Umberto I in Palermo a fine marzo. La morte di monsignor Mirabelli, quel giugno, apriva però la successione alla cattedra di Napoli, dove il D'Ovidio voleva come incaricato il C., in attesa dell'espletamento di regolare concorso. Il ministro Baccelli accettò la richiesta di concorso, ma respinse la richiesta d'incarico: e il concorso, in cui riuscì primo su dodici concorrenti il C., fu annullato dal Consiglio superiore, che invitò la commissione giudicatrice "a completare l'opera propria colla prova dell'esame" (Rimembranze, p. 121). Nelle more la facoltà napoletana ottenne che al C. si conferisse l'incarico per il 1884 e il C. l'iniziò con una prolusione (ristampata in Saggi filologici, I, pp. 145 ss.), in cui, reso l'omaggio d'obbligo alla memoria del Mirabelli, programmaticamente affermava che "negli studi del latino... si debba, oggi, seguire un indirizzo non poco diverso dal suo. Ed è l'indirizzo che... fu impresso alla filologia classica dal largo e comprensivo spirito di Federico Augusto Wolf". A questo metodo e a questo programma il C., vincitore della cattedra di Napoli quell'anno medesimo e che da Napoli non si partì più, rimase costantemente fedele, avversando le aberrazioni, germaniche e non, del filologismo e non dimenticando mai né il carattere "storico" dell'attività filologica, né la necessità dell'"enciclopedismo", né la lezione "letteraria" ch'egli aveva congiuntamente appresa (e fu, anzi, tra i primi a congiungere) nella Napoli desanctisiana e nella Bologna del Carducci.
Ora, un insegnamento del latino che fosse "storicistico" e "letterario" doveva insiememente superare il pregiudizio dell'antiromanesimo mommseniano-romantico e il pregiudizio del panciceronianismo nostrale (di cui era stato rappresentante insigne, nella stessa Napoli del Settembrini, il predecessore del Cocchia). Forse inconsapevolmente desideroso di risalire, oltre il Mommsen, al romanticismo germanico e alla lezione del Ritschi, pur dissentendo sovente da quest'ultimo in materia plautina, soprattutto per i nomi, o i tria nomina, del commediografo, forse partecipe della ormai diffusa reazione e avversione, non solamente italiana, al vecchio maestro, il C. non esitò a confutare la condanna mommseniana della letteratura latina quale mera letteratura d'imitazione, manchevole, pertanto, di spontaneità, di "popolarismo" o "populismo", epperò di poesia. Ma, nel mentre rivendicava la "poesia" della letteratura latina contro i critici del razionalismo straniero e nostrale, incapaci, soprattutto, di ponere totum, fossero il Gercke o il Sabbadini, l'Helm o il Vitelli, accoglieva, a confutazione del Mommsen, l'utile avvertenza e l'impegno a cercar di scorgere, oltre la scorza letteraria e l'imitazione classicistica, germi indigeni di poesia popolare o nativa, immediatamente superando così tanto il panciceronianismo quanto il limite, o il cerchio, dell'"aurea" latinità augustea, privilegiando, al contrario, nell'insieme dell'opera sua, gli scrittori arcaici ed "argentei", fino ad Apuleio e a Claudiano.
Ricusò il troppo facile, lo sterile, gioco usuale, cioè l'andar inseguendo presunte fonti greco-ellenistiche di autori romani, ricusò d'interpretar questi ultimi unicamente, o precipuamente, quali fonti, senza neppur tentare di coglierne la personalità e lo stile. Donde la frequente rivendicazione di Livio (pur senza concedersi nel 1924 alla "farsa liviana", onestamente imbastita dal suo discepolo M. Di Martino Fusco ed irrisa in radice dall'amico Fausto Nicolini): Livio non più, o non già, semplice trascrittore, al suo meglio, del "fededegno" Polibio, ma inteso giusta i presupposti "letterarii" e oratorio-retorici del genos storiografico, al quale il patavino si conformava e alle cui esigenze espressive egli obbediva (vedi i commenti loescheriani ad alcuni libri di Livio e gli scritti raccolti nel IV volume, Napoli 1907, dei Saggi filologici). Donde, altresì, il primo tentativo italiano d'uno studio su Curzio Rufo (ibid., V, Napoli 1915, pp. 197 ss.), pur nella probabilmente erronea datazione dello scrittore ai "primi anni... del governo di Claudio" (ibid., V, p. 203). Donde, infine, i tentativi di ambientazione "meridionale" di eventi e uomini ch'ebbero, appunto, attinenza col Mezzogiorno d'Italia, si trattasse di localizzare il Satyricon di Petronio o la topografia delle Forche caudine (ibid., III, Napoli 1902, pp. 179 ss.; V, pp. 1 ss.), per "la carità del natio loco" sovente privilegiando studi pompeianistici (e vittoriosamente il C. battagliò perché nel 1900 fosse chiamato a dirigere l'officina dei papiri ercolanesi "il prof. E. Martini, pratico, insieme di codici e di biblioteche, e per la sua particolare competenza additato in special modo al difficile compito": Studii critici, II, p. 306): infine ricerche di antichità e di archeologia campane e l'apologia di Ovidio, innocente d'alcun crimen e solo vittima della censura augustea per il politico moralismo del principe e il letterario immoralismo del poeta (Saggi filol., IV, pp. 233 ss.).
Né il C. restrinse mai la propria attività di studioso e di uomo all'hortusconclusus del suo latino, qui pure dando prove insigni di modernità, di gusto e di apertura mentale; se, quasi unico fra gli universitari italiani, avvertì il valor poetico e il significato politico-culturale dell'opera dannunziana, il teatro in ispecie; se con eloquenza e passione civile celebrò Carducci e De Sanctis (Saggi filologici, I, pp. 505 ss., 325 ss., rispettivamente). Il comune interesse per il De Sanctis, massime il De Sanctis avversato e spregiato dal "dotto vulgo" accademico per le postume lezioni sulla letteratura italiana del sec. XIX, strinse il C. in un legame di amicizia col giovane Croce, il quale, consenziente (non senza qualche riserva sul "lirismo" del C.) Alessandro D'Ancona, recensì nella rivista di quest'ultimo il discorso del 1898, dov'è certo inopportuno il tentativo di associare al nome del De Sanctis quello del D'Annunzio, dimenticando altresì ciò che del o contro il De Sanctis D'Annunzio aveva scritto proprio allora sul Convito di A. De Bosis, benché il D'Annunzio fosse al C. probabilmente segnacolo e simbolo d'un perdurante o rifiorente culturalismo meridionale, anzi l'ingresso del Mezzogiorno speculativo nella storia della "poesia" (vedi Carteggio D'Ancona-Croce, a c. di D. Courieri, Pisa 1977, pp. 178 ss.; la recens. del Croce, ibid., pp. 272-275, rist. da Rass. bibl. d. lett. ital., VII [1899], pp. 121-124; nonché B. Croce, Pagine sparse, Bari 1960, I, pp. 136-137). Il C. profittò del momento per operare la riconciliazione fra Zumbini e Croce, che l'aveva duramente bistrattato nel trattatello sulla Critica letteraria (v. la lettera del Croce a F. Torraca, nel Carteggio fra B. Croce e F. Torraca, a cura di E. Guerriero, Galatina 1979, pp. 97-98, del marzo 1900). Fu, in seguito (1908), fra i pochissimi professori della facoltà napoletana aschierarsi, contro Masci, D'Ovidio e Kerbaker, in favore di G. Gentile (cfr. B. Croce, Pagine sparse, I, p. 106), e assecondò il Croce nella generosa campagna, durante la prima guerra. mondiale e di poi, contro i presunti demolitori "patriottici" della cosiddetta "filologia tedesca" (Studii critici, I, pp. 125-126).
Nemmeno rinunziò a un'intensa attività politica (o di politica culturale), sia da consigliere provinciale di Avellino (1902-1904), sia da direttore dell'Istituto orientale di Napoli, ch'egli volle riordinare e indirizzare, sul piano pratico, alla creazione d'un qualificato personale capace d'inserirsi, e di rappresentarvi l'Italia, nel quadro dei nuovi rapporti in Estremo Oriente dopo il conflitto russo-giapponese e l'europeizzazione progressiva dell'impero nipponico (al quale il C. dedicò un attraente volume, Il Giappone vittorioso, Milano 1908. Qui è soprattutto significativo il preannunzio dell'inevitabilità di un'imminente rivoluzione contro il regime zarista, quand'anche, da uomo "d'ordine", quale si compiaceva di essere, il C. successivamente avversasse il regime leninista, come nel 1914 aveva condannato, criticando di conseguenza il governo Salandra, i tumulti di Ancona e la settimana rossa). Né quest'impegno lato sensu "politico" del C. rimase per lui senza frutto o senza premio, se nel 1913 divenne rettore dell'università di Napoli, un ufficio ricoperto anche durante la guerra, e fu nominato senatore del Regno.
In questi anni, nonostante una sorta di "congiura del silenzio", quale s'inferisce, per esempio, dalla mancata menzione d'ogni suo scritto nella Storia dei Romani di G. De Sanctis e dal troppo misero cenno ostile nella "guida", Roma 1921, di V. Ussani, il C. diede il meglio di sé, massime nell'articolo (1895-1896) La leggenda di Coriolano e le origini della poesia in Roma (ristampato in Saggi filologici, II, Napoli 1902, pp. 1 ss.; e vedi Lett. latina avanti l'influenza ellenica, II, pp. 171 ss.). Il C., infatti, precedette di almeno un decennio il De Sanctis nella sistematica liquidazione del "sistema" Pais, cui rimproverò lo scetticismo totale sul valore della tradizione storica romana, interpretata le più volte quale mera e pedissequa imitazione greca, e l'incapacità di cogliere in essa non pur elementi d'intrinseca verità, ma testimonianze d'una cultura indigena e d'una poesia primitiva, quali aveva già divinate il Niebuhr. Inverava, così, certe intuizioni "artistiche" delle Römische Forschungen, mentre combatteva l'esegesi formalistico-giuridico-istituzionale che di troppe leggende romane dié il Mommsen. E reintrodusse, con assai scarso successo, se non forse presso il suo allievo Pascal (almeno fino alla pubblicazione dei primi due volumi della Storia dei Romani, ma con maggior competenza "letteraria" e maggior senso d'arte che il De Sanctis non vi dispieghi), idee e autori, la cui analisi poteva conferire fortemente all'intelligenza e ricostruzione storica dell'antica saga e poesia romane, quali i niebuhrianiantiniebuhriani d'oltre Manica, per esempio il Macaulay del Lays of ancient Rome e sir George Cornewall Lewis.
Di qui procedette alla rivendicazione dell'esistenza non pur d'una cultura, ma d'una "letteratura" romana "anteriore all'influenza ellenica" (i tre volumi del lavoro più insigne che il C. fornisse nell'ultimo decennio della sua vita). È probabile che alla posizione del problema fosse indotto o sollecitato dall'analoga problematica d'italianisti suoi contemporanei, ma di tradizione bonghiano-neoguelfa, inclini a deplorare che più tardivamente delle altre lingue romanze assurgesse il volgare a letterarietà e a strumento di poesia e di cultura per la troppo tenace presenza e influenza dell'ecclesiastico e cancelleresco latino, e parimenti inclini a dubitare, e a deplorare, l'eventuale inaridirsi d'una poesia e prosa volgari dopo "l'aureo Trecento", sotto il peso dell'umanesimo e dell'imitazione classica, tosto degenerata in accademico classicismo. Il C., però, non giunse, dal canto suo, a questi estremi, pure sovente rimproveratigli da' suoi critici (per esempio, L. Castiglioni, in Leonardo, II [1926], p. 245; A. Rostagni, Storia della letteratura latina, I, Torino 1964, p. 26). Né parlò d'una letteratura latina esistente e soffocata dall'"influenza ellenica". Parlò, invece, di forme letterarie, dall'epica nazionale alla satura e all'italico aceto della commedia, dunque d'una letterarietà, benché primitiva e popolare (pur nell'ambito e nell'interesse dell'aristocrazia dominante), negando in tal modo qualsiasi condanna aprioristica della letteratura latina, d'una sua presunta inferiorità e tardività di letteratura d'imitazione. In tal senso il problema riesce tuttavia legittimo, anche dopo la scoperta d'una presenza micenea e post-micenea nella penisola italiana, anteriore alla stessa fondazione di Roma: la quale sorse, perciò, se non, addirittura, in suolo greco o grecizzato, a contatto, comunque, e costantemente, col milieu "greco" d'Italia, tanto le colonie di Magna Grecia quanto la grecità etrusca e adriatica. Di qui, appunto, la rivendicazione, l'intrinseca validità ancora attuale, della tesi-base del C., cui resta il merito di aver retrodatato di secoli i sintomi e i segni d'una culturalità romano-italica, ignorata sia dai negatori "nazionalisti" alla Pais sia dagli epigoni italici della filologia germanizzante.
L'opera del C. non fu interrotta (è, anzi, significativo e singolare che quasi non vi si riscontri sviluppo diacronico), ma quasi parve spezzato la sua esistenza, la sua fede nella vita e nell'avvenire, quando, il settembre del 1914, l'"anno più triste della mia vita" (Studii critici, II, p. 178), repentinamente gli morì l'unico figlio maschio, l'avvocato e romanista Enrico, testé laureatosi alla scuola del Fadda con una dissertazione, donde il padre trasse il grosso libro postumo sul Tribunato della plebe (Napoli 1916): "un libro - egli scrisse (Studi critici, II, p. 13) - che è per me fonte assidua di tormento e di orgoglio". Appunto il "tormento" e l'"orgoglio" suggerirono al C. d'impegnarsi in una serie di scritture commemorative ed autobiografiche (considerando la morte del figlio quasi come il culmine, o il fallimento, della propria esistenza), alle quali affiancò, in analogo stato d'animo, alcune scritture "politiche", tra le quali sono degne di menzione Trilogia intorno alla guerra,La politica della guerra (pubbl. entrambe in Atti dell'Accademia di Archeologia di Napoli, n. s., V [1917], pp. 3 ss.; VI [1918], pp. 260 ss. rispettivamente), ecc. Il C., triplicista convintissimo e neutralista fin quasi all'ultimo, deplora che l'irredentismo abbia condizionato pressoché tutta e sempre la politica estera italiana; prospetta e si augura il mantenimento di un impero austroungarico riformato; avverte il ritmo diverso che imprime ormai alla storia europea l'intervento e dell'America e del Giappone: supera, dunque, pur nella nebulosità delle previsioni e nella frequenza delle contraddizioni rispetto agli alleati dell'Italia in guerra, la comune concezione "salandrina" della "nostra guerra", quasi un duello bilaterale italo-austriaco; sente la problematicità d'un nuovo rapporto e con gli Slavi e con le democrazie occidentali. Il che spiega le delusioni post-belliche, le quali facilitarono la sua cauta accettazione senatoriale del fascismo e amareggiarono, comunque, la sua vecchiaia. In questa ebbe vicini alcuni discepoli devoti, come il Di Martino e, suo successore sulla cattedra, M. Galdi e favorì l'iniziativa, troppo breve ma non ingloriosa, della rivista classica napoletana Mouseion e della omonima collana editoriale. Eppure, morendo in Napoli, il 13 ag. 1930, non lasciava né una fama pari ai suoi meriti né una scuola, memore continuatrice dell'opera sua.
Opere principali: Saggi filologici, I-V, Napoli 1902-1915; Introd. allo studio della letteratura latina, Bari 1915; Romanzo e realtà nella vita e nell'attività letteraria di Lucio Apuleio, Catania 1915; La letteratura latina anteriore all'influenza ellenica, I-III, Napoli 1924-1925; Studii critici e scritti varii, I-II, ibid. 1926-1927; Saggi glottologici, ibid. 1924; L'armonia fondamentale del verso latino, I-II, ibid. 1920; Lessico della pronunzia dei principali nomi storici e geografici, Torino 1919; Grammatica elementare della lingua latina, Napoli 1902 (4 ediz., ibid. 1918); Corso pratico di esercizi latini, ibid. 1902; La sintassi latina, ibid. 1902; commenti a Curzio Rufo (I-II, Torino 1884), Livio, libri I (ibid. 1919), II (ibid. 1919), XXI (ibid. 1920), XXII, (ibid. 1921); Plauto, Trinummus, Torino 1908; Miles gloriosus, ibici. 1909; Captivi, Città di Castello 1912. Scritti politici: Il Giappone vittorioso, Milano 1908; Trilogia intorno alla guerra e Nuova trilogia intorno alla guerra, in Atti dell'Acc. di Arch. ... di Napoli, n. s., V (1917), pp. 3 ss.; VI (1918), pp. 209 ss.; Trilogia intorno alla pace, Roma 1922. Scritti autobiografici: Pietose rimembranze del nostro dilettissimo Nino, Napoli 1914; Il libro del dolore e delle ricordanze, ibid. 1915; Le mie rimembranze, ibid. 1921; Postumo il volume Varietà letterarie, ibid. 1931, con prefaz. di M. Galdi e introd. biobibliografica di M. Di Martino.
Bibl.: Sul C., oltre alla bibl. cit. in Enc. Ital., App. I, p. 437, vedi l'articolo di P. Orano, rist. in E. Cocchia, Studii critici, II, Napoli 1927, pp. 282-287, e P. Treves, L'idea di Roma e la cultura ital. del secolo XIX, Milano-Napoli 1962, pp. 207-208; nonché le Lettere di B. Croce a G. Gentile, Milano 1981, ad Ind.