Enrico da Susa, detto l’Ostiense
ma per amor de la verace manna // in picciol tempo gran dottor si feo» (Paradiso XII, 82-85). Le parole non sono belle come quelle che Dante ha dedicato a Graziano due canti prima (Paradiso X, 103-105); tutt’altro: servono a criticare la scienza canonistica come strumento utile agli ambiziosi per guadagnare fama e ricchezze, pur all’interno della Chiesa. Ma non c’è polemica nei confronti della persona: l’Ostiense viene solo considerato il simbolo capace di rappresentare tutta la scienza del diritto canonico. E questo è un segno sufficiente a dire il rilievo della sua figura di studioso, e la considerazione in cui era tenuta la sua dottrina già non molti anni dopo la sua morte. I secoli successivi non si sarebbero rimangiati il giudizio, come dimostrano le moltissime edizioni della sua Summa, strumento indispensabile per tutti i giuristi della lunga stagione dell’utrumque ius.
Non è noto con precisione quando nacque, ma l’anno non deve essere troppo lontano dal 1200; e neppure si conosce il casato a cui apparteneva: mancano prove sicure che fosse, come pure si è tramandato, quello dei Bartolomei. Certo è invece il luogo: Susa, nella diocesi di Torino. E a Susa si legherà il suo nome; e anche a Ostia, quando nel 1262 ne fu nominato cardinale vescovo da papa Urbano IV (1261-1264): da qui l'Ostiense.
Studia diritto a Bologna – e deve essere stato compagno di studi di Sinibaldo de’ Fieschi (1190 ca. - 1254), il futuro papa Innocenzo IV (1243) – sotto il magistero di Iacopo Baldovini e di Omobono per il diritto civile, come lui stesso racconta. Secondo Giovanni d’Andrea seguì le lezioni del canonista Iacopo d’Albenga. La tradizione lo vuole docente a Bologna, ma non ci sono riscontri; mentre pare sicuro, a partire dagli anni Trenta del secolo, il suo insegnamento in Decretalibus a Parigi (dove divenne arcidiacono), secondo un accenno fatto nella Summa. Ben presto è assorbito dalla carriera ecclesiastica e abbandona lo Studium, ma non l’attività scientifica, né il legame intellettuale con gli studenti, a cui si rivolge spesso nella sua opera. Può in effetti sembrare strano che i suoi lavori siano stati quasi tutti scritti lontano dalle aule universitarie; ma deve essere segno di vera passione per la scienza, o di struggente nostalgia.
Sempre negli anni Trenta è priore della cattedrale di Antibes (Provenza), per poi divenirne – a seguito di una riforma dell’istituzione – prevosto, carica che mantiene con il trasferimento della sede episcopale a Grasse. Almeno dal 1240 è sicura la sua presenza in Inghilterra dove è al servizio del re Enrico III (1216-1272), anche con incarichi diplomatici che, nel 1242, lo portano a Roma. Nel 1244 viene nominato vescovo di Sisteron e poi, nel 1250, di Embrun. Nel frattempo era divenuto cappellano del papa ed era stato forse presente al Concilio di Lione del 1245. Continua anche l’attività, diplomatica e non, al servizio del re d’Inghilterra che, nel 1258, lo invia a Roma per tutelare di fronte al pontefice la posizione inglese a proposito del Regno di Sicilia. Anche papa Alessandro IV (1254-1261) ne sfrutta l’abilità diplomatica mandandolo, l’anno successivo, nella Marca Trevigiana, dopo che il legato pontificio, Filippo Fontana, era stato fatto prigioniero dai ghibellini.
Il nuovo papa, Urbano IV, lo nomina vescovo cardinale di Ostia nel 1262. Di quali siano state le funzioni svolte nella curia romana non abbiamo notizie, e anche dalla sua opera scientifica poco si ricava, pur se forse qualche traccia qua e là se ne intravede. Dopo la morte del successore di Urbano IV, Clemente IV (1265-1268), Enrico è presente al conclave di Viterbo, famoso per la sua durata, ma per motivi di salute non può partecipare all’elezione di papa Gregorio X (1271-1276). Morirà poco dopo, il 6 o il 7 novembre 1271, forse a Lione, ma il luogo della morte è discusso tra gli storici. Fedele alla sua missione scientifica, pur quasi sempre lontana dalle aule universitarie, nel testamento si preoccupa che copie delle sue opere vadano, tra gli altri destinatari, allo Studium bolognese e a quello parigino.
Sbaglierebbe chi si stupisse del fatto che una delle più note tra le definizioni della legalis sapientia, cioè del sapere giuridico costruito e visto attraverso le fonti giustinianee (con quelle aggiunte che nel basso Medioevo vi erano state fatte), sia contenuta proprio in un’opera che riguarda un ordinamento diverso, quello canonico, come la Summa dell’Ostiense: «Et ut breviter comprehendam, in 50 libris Pandectarum, 4 Institutionum, 12 Codicis, 9 collationibus Authenticorum, Novella, Lombarda, et Constitutionibus feudorum, consistit legalis sapientia» (Summa, proem., § 7).
Enrico infatti manifesta la piena consapevolezza, ben superiore a quella dimostrata dai suoi predecessori e che anticipa quella dei giuristi del secolo successivo, come Bartolo e Baldo, dell’intimo legame esistente tra i due diritti universali, quello romano e quello canonico. E che il canonista debba pertanto avere ben presenti anche le regole, gli istituti e i principi del diritto civile; per es., in tema di usucapione non esiterà ad affermare l’importanza del Codice e del Digesto, i contenuti dei quali sono trascurati a torto dai cultori del diritto della Chiesa: «De quibus omnibus tam in C. quam in ff. speciales tractatus habentur. & nos etiam maxime, quia haec materia utilis est, & canonistis ignota, de his omnibus speciales rubricas ad maiorem evidentiam apponamus» (Summa, de usucap., § 6 in fine).
Indipendentemente poi dalla regola da seguirsi per l’applicazione pratica dei due ordinamenti universali: distinzione tra materie temporali e materie spirituali; prevalenza, in caso di contrasto, della soluzione – canonica o civile – che meglio possa garantire la salvezza dell’anima, secondo la regola che sarà generalmente riconosciuta nella fase evoluta del sistema; Enrico da Susa mostra che sono soprattutto i principi tratti dall’uno o dall’altro diritto a dover sostenere il ragionamento giuridico in qualsiasi materia esso si debba svolgere, sia ecclesiastica sia laica. E in questo senso si devono leggere i molteplici riferimenti che egli fa – in particolare nella Summa – all’utrumque ius. Sin dall’inizio, quando nel Proemio dichiara che la sua opera è nata proprio attraverso un’applicazione costante e faticosa ai due distinti – ma intimamente connessi – ordinamenti: «quam [Summam] ego post studium utriusque iuris diutinum, et longum exercitium […] composui».
Naturalmente – come preciserà soprattutto nella Lectura –, tra i principi desunti e le regole ricavabili dal diritto romano che il canonista dovrà utilizzare, saranno da scegliersi quelli che meglio si armonizzano con l’intima essenza dell’ordinamento della Chiesa e, soprattutto, con l’equità canonica. Secondo Enrico, infatti, era da approvare l’opinione di Martino Gosia, allievo di Irnerio, contro quella di Bulgaro e di Giovanni Bassiano, assertori invece di una rigida applicazione delle norme anche quando venisse in considerazione il periculum animarum. Per l’Ostiense – e per Martino – bisognava invece seguire la legge divina contra rigorem iuris civilis, dove appunto ci fosse il pericolo del peccato:
Martinus enim spiritualis homo fuit, et secundum tempus quod tum currebat, semper divinae legi adhaerebat contra rigorem iuris civilis. Johannes vero non sapiebat quae sunt spiritus, sed tamquam animalis multiplicationi temporalium, et rigori iuris civilis, quasi per omnia intendebat. Unde et ipse, et sequaces sui, qui hodie multi sunt, spirituales opiniones reprehendunt; et dicunt, haec est aequitas capitanea, aequitas bursalis Martiniana. Sed velint nolint, hanc aequitatem de iure necesse habent sequi, ubicumque agitur de periculo animarum.
Martino infatti fu uomo attento alle cose dello spirito, e ai suoi tempi preferiva sempre la legge divina contro il rigore del diritto civile. Giovanni,invece, non apprezzava le cose dello spirito, ma quasi fosse un animale, teneva conto dei vantaggi delle cose temporali e propendeva per l’applicazione rigida del diritto civile quasi sempre. Pertanto lui, e i suoi seguaci, che oggi sono parecchi, criticano le soluzioni giuridiche che tengono conto delle esigenze spirituali; e dicono: questa è un’equità cervellotica che ognuno può tirare fuori dalla propria tasca senza rispettare il senso delle norme. Ma, volenti o nolenti, devono seguire questa equità (è questione di diritto, è questione di necessità), tutte le volte che entri in gioco la salvezza delle anime (ad Lib. Extra 1, 43, 9).
E, appunto, il rigor iuris in presenza di un pericolo per la salvezza dell’anima si spezza attraverso il ricorso all’aequitas: l’ultimo passo citato lo dice con chiarezza. Eccola la celebre definizione di aequitas di Enrico, ripresa – secondo quanto lui stesso ci dice – da san Cipriano: «aequitas est iustitia dulcore misericordiae temperata» (Summa, de dispens., § 1; ma similmente anche in altri passi dell’Ostiense); e l’istituto dell’aequitas è chiamato a operare non solo nei rapporti con lo ius civile, ma direttamente all’interno dell’ordinamento canonico, diventandone in genere «principio generale e istituto cardine di un ordine giuridico, […] addirittura fonte formale di diritto» (Grossi 1995, p. 212).
L’aequitas è per il Medioevo quel principio di giustizia che deve stare alla base dei rapporti umani e che la norma dovrebbe recepire; è voluta direttamente da Dio che l’ha instillata nella natura delle cose. Lo ricorda quell’ignoto glossatore che definisce: «Nihil aliud est aequitas quam Deus». Non si allontana l’Ostiense da questa concezione. Così come seguita il principio contenuto nella decretale di Onorio III: «In his vero, super quibus ius non invenitur expressum, procedas aequitate servata, semper in humaniorem partem declinando, secundum quod personas et causas, loca et tempora videris postulare» (Lib. Extra 1, 36, 11); per il quale, dunque, in assenza di norma espressa il giudice dovrà procedere sulla base dell’aequitas per dare alla fattispecie la regola da seguire: è così che l’aequitas si presenta direttamente come fonte di diritto.
Ma il salto della canonistica, fatto anche sulla base del principio aristotelico dell’epicheia, ripreso da san Tommaso, e di cui Enrico da Susa offre testimonianza, è ancora più alto. La temperantia derivante dall’applicazione della virtù cristiana della misericordia può divenire vera e propria relaxatio: infatti il giudice, quando, in relazione alle peculiarità del caso concreto che è chiamato a giudicare, dovesse ravvisare un netto contrasto tra gli effetti che la norma produrrebbe e i principi dell’ordinamento canonico, in particolare se dovesse nascere un pericolo per la salus animarum, allora – proprio attraverso il richiamo all’aequitas canonica – dovrebbe non applicare la norma: secondo le già citate parole dell’Ostiense, «sed velint nolint, hanc aequitatem de iure necesse habent sequi, ubicumque agitur de periculo animarum» (ad Lib. Extra 1, 43, 9). Anche se per il nostro giurista l’istituto va usato con moderazione e cautela («aequitas vero media est inter rigorem et dispensationem, sive misericordiam»: Summa, de dispens., § 1) per evitare che venga meno l’efficacia deterrente della norma scritta (Brugnotto 1999, p. 112).
In ogni caso la canonistica porrà questa regola tra i capisaldi del proprio statuto scientifico, così due secoli dopo, ancora Felino Sandeo: «ubi aequitas non scripta habeat pro se praesumptionem animae, prefertur rigori scripto» (cit. da Fedele 1966, p. 151).
Due linee percorrono il pensiero politico dell’Ostiense, all’apparenza poco conciliabili: sicché si potrebbe concludere per l’esistenza di un contrasto difficilmente componibile che mina alle fondamenta la sua costruzione giuridico-politica. Il punto riguarda il ruolo del collegio dei cardinali e i suoi rapporti con il pontefice.
Da un lato, l’Ostiense, infatti, in certe parti della Lectura estende la concezione della Chiesa come società corporata – già presente nella Summa e che si traduce «giuridicamente sia in una reciproca consensualità sia nell’adozione d’una prassi collegiale di governo in virtù del principio corporativo per cui l’autorità di un corpo ecclesiastico risiede non solo nel capo ma ugualmente nei membri» (C. Fantappiè, Storia del diritto e delle istituzioni della Chiesa, 2011, p. 130) – dalle gerarchie ecclesiastiche più basse alle vicende che legano il papa e i cardinali: così questi ultimi sono chiamati a cooperare a un governo collegiale della Chiesa, partecipando alla plenitudo potestatis del pontefice. Chiaro il pensiero del canonista nel commento alla decretale di Innocenzo III Per venerabilem: «ut non solum Papa sed et Cardinales includerentur in expressione plenitudinis potestatis» (ad Lib. Extra 4, 17, 13).
Dall’altro, Enrico pone in evidenza il carattere strettamente monarchico della figura del pontefice al quale solo spetterebbe la plenitudo potestatis («in solum papam plenitudo residet potestatis»: ad Lib. Extra 3, 4, 2), e rispetto al quale i cardinali potrebbero svolgere solo un modesto ruolo di consiglieri («Cardinales tamen continue eidem [Papae] assistunt de quorum consilio procedit»: ancora ad Lib. Extra 4, 17, 13): si escluderebbe così ogni rilevante aspetto partecipativo e costituzionale per il governo centrale della Chiesa.
Antinomia difficilmente conciliabile, o, comunque, solo a prezzo di qualche acrobazia logica, o di differenti valutazioni circa le diverse parti della Lectura, da parte dell’interprete moderno?
C’è anche un’altra via che è stata di recente segnata: in particolare da quando è stata individuata una prima versione della Lectura (risalente agli anni 1254-1265: Pennington 1987) in cui manca ogni riferimento al ruolo attivo dei cardinali nella gestione dell’istituzione; questa funzione partecipativa compare invece nella versione definitiva, senza che però vengano espunte le opinioni più spiccatamente ‘monarchiche’.
Insomma, queste due posizioni possono essere lette non tanto come il semplice frutto del metodo scientifico, tipico dei giuristi del Duecento, tutto volto a commentare il singolo punto, ma capace talvolta di perdere di vista l’insieme, e libero quindi di sostenere una cosa diversa nel commento a un diverso passo: talché da certe opere del Medioevo non ci si potrebbe aspettare l’intima coerenza di una moderna monografia (Cortese 1995, p. 242). Si tratta invece di vedervi una sostanziale evoluzione del pensiero di Enrico da Susa, il quale nell’età più matura – e fors’anche in relazione all’acquistato cappello cardinalizio – applica, ampliandoli, anche ai rapporti tra il collegio dei cardinali e il pontefice quelle regole e quei caratteri di collegialità da società corporata che nella Summa e nella prima versione della Lectura riteneva propri solo dei livelli gerarchici inferiori: vescovo e sacerdoti della diocesi, prelato e canonici della chiesa cattedrale (Grison 1992).
Anche se non è entrata in proverbio come la Summa codicis del civilista Azzone («Chi non ha Azzo [cioè: la Summa d’Azzone] non vada a palazzo [cioè: quello di giustizia]»), la Summa del Liber Extra scritta da Enrico da Susa fu altrettanto importante nella formazione e nell’attività pratica di generazioni di giuristi; ed è forse quella «di cui abbiamo il maggior numero di edizioni antiche» (F. Calasso, Medio evo del diritto, 1954, p. 562).
Probabilmente iniziata negli anni Trenta del Duecento (almeno nel 1239), fu conclusa intorno al 1253, dopo che una prima redazione era andata parzialmente distrutta in un incendio, e dopo che l’Ostiense aveva ormai abbandonato l’insegnamento. I modelli seguiti furono la Summa delle Decretali di Goffredo da Trani e quella del Codice di Azzone: ma Enrico va ben oltre la struttura e i contenuti della prima (oltretutto aggiunge una cinquantina di titoli non presenti nel Liber Extra), e non prende mai in prestito dalla seconda in modo passivo. Si caratterizza per mostrare l’intima unità dell’uno e dell’altro diritto, del diritto romano-giustinianeo e di quello canonico.
Fu detta aurea in certe edizioni a stampa (non nella prima, quella romana del 1473, che si apre con: Incipit Summa Hostiensis super titulis decretalium compilata additis in aliquibus locis quibusdam aliis rubricellis, così come leggo dalla copia conservata alla Biblioteca Marucelliana di Firenze; né in quelle di Spira 1478-1479, Venezia 1480, 1487, 1490, 1498, stando alle descrizioni contenute nell’Indice generale degli incunaboli delle biblioteche d’Italia, 3° vol., Roma 1954, pp. 78 e seg.; probabilmente è solo nel Cinquecento che si aggiunge l’aggettivo aurea, forse a partire dall’edizione di Lione del 1548), e così è generalmente conosciuta, mentre nei manoscritti compare con il titolo di Summa archiepiscopi o di Summa copiosa. Due edizioni del Cinquecento, quella di Lione del 1537 e quella di Venezia del 1574, sono state ristampate in anastatica nel secolo scorso, rispettivamente ad Aalen nel 1962 e a Torino nel 1963.
Solo tre edizioni a stampa ebbe invece la Lectura, sempre sulle Decretali di Gregorio IX: Parigi 1512, Strasburgo 1512 e Venezia 1581; quest’ultima ripubblicata a Torino nel 1965. Ma alla minore diffusione e fama rispetto alla Summa non corrisponde una minore importanza. Enrico vi attese per buona parte della sua vita e si conoscono dell’opera due redazioni. La prima risale agli anni 1254-1265 ed è tramandata da un solo manoscritto. La seconda redazione fu conclusa attorno al 1271: aggiunge alla prima in forza dell’evoluzione del suo pensiero scientifico, senza però operare alcun taglio o aggiustamento di sostanza, sicché si possono trovare ripetizioni e talune contraddizioni. Spesso contenente posizioni diverse da quelle espresse nella Summa, è una delle opere più importanti della canonistica del Medioevo.
Tra le opere minori in primo luogo va segnalata la Lectura sulle Novelle di Innocenzo IV, scritta dopo la Summa, e che si legge alla fine della Lectura sulle Decretali di Gregorio IX nelle edizioni di Parigi 1512 e Venezia 1581.
Probabilmente scrisse anche un'abbreviatio della Lectura maggiore, dal titolo Diamargariton, rimasta manoscritta, ma di recente è stato avanzato qualche dubbio sull'effettiva attribuibilità di questa operetta all’Ostiense (Pennington 1993, p. 762). Gli vengono inoltre ascritti un trattato sull’elezione dei vescovi e una nota sulla deposizione dell’imperatore Federigo II, entrambi non pubblicati a stampa.
M. Sarti, M. Fattorini, De claris archigymnasii Bononiensis professoribus a saeculo XI usque ad saeculum XIV, 1° vol., 1° parte, Bononiae 1769, pp. 360-66.
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