Enrico da Susa, detto l’Ostiense
Enrico da Susa fu essenzialmente un giurista, ed è giudicato dalla storiografia «il canonista più importante e brillante del secolo XIII» (Pennington 1993, p. 758), il più esperto nell’analisi teologico-giuridica di ogni questione temporale e spirituale, lo studioso che più ha contribuito alla dottrina dell’autorità papale ed episcopale (p. 762). La sua visione della società cristiana considera i criteri di giudizio che derivano da diritto naturale e potestas della Chiesa prevalenti su qualsiasi altro criterio di giudizio. All’interno della sua ricerca sul rapporto tra temporale e spirituale, analizzò con grande attenzione le questioni giuridiche ed economiche del guadagno illecito (usura) e della frode. La sua analisi è talmente approfondita che arriva sino a definire la distinzione tra guadagno illecito e lecito, cioè tra usura e interesse, obiettivo nuovo nel pensiero contemporaneo.
Nato a Susa attorno al 1200, studiò a Bologna diritto canonico. In questa stessa università forse anche insegnò, ma di questo dato non ci sono riscontri; certamente fu arcidiacono a Parigi nel 1239 e beneficiario in Provenza e poi in Inghilterra. In quest’ultimo Paese si recò intorno al 1240 al seguito della moglie del re Enrico III, Eleonora di Provenza; nel 1241 fu nominato priore dell’ospedale di Santa Croce nella diocesi di Winchester. In molte occasioni però dall’Inghilterra si recò nel continente per curare affari della regina, e in particolare partecipò al Concilio di Lione (1245) e a una missione in Germania (1251-52) per conto di papa Innocenzo IV. Divenne arcivescovo di Embrun e, in questa veste, sostenne gli interessi della corona di Sicilia. I particolari della sua vita ecclesiastica sono mirabilmente ricostruiti da Kenneth Pennington (1993).
Nel 1239, cioè durante il periodo della sua residenza a Parigi, redasse la prima edizione della Summa decretalium, che in gran parte andò distrutta in un incendio; sulla base delle parti recuperate egli la riscrisse tra il 1250 e il 1253 con una completezza e precisione tali da farla considerare opera ‘aurea’, tanto che fu adottata come base per qualsiasi norma di diritto canonico fino al Concilio di Trento.
Nel 1262 Enrico fu nominato da papa Urbano IV cardinale di Ostia: da qui deriva l’appellativo di ‘cardinale Ostiense’ usato a suo riguardo.
Gestazione ancora più lunga della Summa ebbe la Lectura in quinque libros decretalium; fu ultimata infatti nel 1271, e mostra la completa padronanza della materia da parte dell’autore nonché, dato rilevante, un superamento del diritto romano che gli sembrava completamente inadatto ad affrontare tematiche spirituali e attinenti la salvezza dell’anima. Egli era fermamente convinto che per formulare giudizi inerenti questi aspetti profondi e basilari della vita umana fosse più idonea l’impostazione giuridica canonistica.
Nello stesso anno in cui ultimò la sua Lectura, il 1271, morì; della sua morte sono incerti sia il luogo (forse Lione o Viterbo) sia il giorno (il 25 ottobre o il 6 o 7 novembre).
Di Enrico da Susa sono importanti soprattutto le opere di carattere giuridico, in cui egli presenta una sintesi dello ius vigente, evidenziando i fondamenti canonistici e/o romanistici di ciascun istituto.
Il diritto canonico è – a giudizio di Oscar Nuccio, il suo più recente biografo (1984) – «pieno ed assoluto», nel senso che consente di risolvere ogni questione, spirituale e temporale: i problemi universali possono essere affrontati in base alla canonistica, tanto da poter utilizzare l’espressione teologia giuridica anche per ciò che noi cataloghiamo nell’ambito dell’etica economica. Ogni atto giuridico deriva, infatti, dal diritto naturale che è definito dalla Legge del Vangelo e dal diritto apostolico, che è cioè diritto divino. Stabilisce quindi un’esatta corrispondenza tra diritto divino e diritto naturale, che sono eterni e immutabili e a cui deve conformarsi ogni istituzione giuridica. Se così non ci si comporta, si lotta con il peccato e facilmente vi si cade: «[…] la violazione delle regole di diritto naturale è peccato, con tutte le conseguenze relative» (Nuccio 1984, p. 1402).
Quest’impostazione porta Enrico da Susa a doversi confrontare con il problema del rapporto tra potere spirituale e potere temporale, argomento che nel 13° sec. era affrontato e risolto definendo la divisione tra i due campi, che però si trovano riuniti nell’autorità dell’imperatore, il quale riceve dal papa la sovranità: il papa lo incorona, lo consacra e lo può deporre, occupandone semmai – in caso di vacanza – anche il seggio. Ciò significa che l’imperium è uno e indissolubile. Cristo ha consegnato a Pietro due chiavi, simbolo di entrambi gli imperi, e Pietro ha perciò un unico potere su ambedue: lo spirito è infatti più importante del corpo, ha una più alta dignità; lo spirito nasce prima del corpo; lo spirito giudica il corpo. Il papa – a meno che non si macchi di eresia – non può essere giudicato da nessuno; tutto ciò che concerne giustizia, pace, peccato, giuramento può essere sottoposto al giudizio del papa, che a tale riguardo ha plenitudo potestatis. Pur esaltando il potere papale, Enrico da Susa non volle sminuire il diritto dei vescovi e dei cardinali a partecipare al governo della Chiesa: «La sua dottrina è un complesso tessuto di pensiero autoritario e di pensiero costituzionale in cui entrambe le tendenze raggiungono un equilibrio» (Pennington 1993, p. 762).
In base a quanto affermato precedentemente, si deve escludere, senza alcun dubbio, la possibilità di ascrivere le opere di Enrico da Susa al campo dell’etica economica. Il suo pensiero, pur rispecchiando ancora una realtà relativamente statica e un modo di vivere permeato di fede, contiene spunti analitici che sono significativi soprattutto per la precocità con cui furono formulati: non elaborò certo teorie, ma fu in grado di rilevare lucidamente problematiche insorgenti nella realtà e di sistematizzarle entro il quadro di riferimento a lui più consono, cioè quello giuridico.
Egli non poté elaborare teorie economiche per il fatto che nel 12° sec. semanticamente non erano definiti con precisione termini cardine degli argomenti economici, quali mercatura e mercator, mentre sempre più diffusi erano i luoghi di scambio, quali le fiere e i mercati, che erano regolarizzati sotto il profilo giuridico, cioè come relazioni che dovevano svolgersi solo secondo le norme vigenti (Arnoux 2010). I ragionamenti attorno all’attività economica erano esclusivamente di carattere teologico e giuridico.
Due sono le tematiche rilevanti sotto il profilo del pensiero economico, quella del guadagno illecito – il «lacerante argomento» (Nuccio 1984, p. 1402) dell’usura – e quella della frode operata sulla moneta. Lecito e illecito, spirituale e carnale sono categorie che dipendono dalle norme del diritto canonico, perché è solo il papa a distinguere il giusto dall’ingiusto. Da questa impostazione di carattere generale, su cui non pretendiamo di avere cognizione e competenza adeguata, possiamo però dedurre che per Enrico da Susa la Chiesa ha plenitudo potestatis anche in materia economica, perché ogni azione deve avere come riferimento il Cristo, o meglio: non esiste azione che possa rettamente perseguire fini umani oppure mondani perché l’unico fine è un altro, quello della salvezza eterna. È la cosmologia ecclesiologica che impone questa impostazione.
Fu proprio in base a questa logica che i primi concili della Chiesa proibirono l’usura al clero e i canoni applicavano questa condanna anche ai laici. L’autorità secolare fece propria questa norma, come è testimoniato, per es., negli atti di Carlo Magno e di Graziano (Ceccarelli 2003). Vi è quindi una completa armonia tra le disposizioni sull’illecito guadagno emanate dai due poteri.
Così anche la trattazione dell’usura nelle opere giuridiche dell’Ostiense, che è la più estesa e articolata rispetto a tutte le altre apparse prima, è caratterizzata da puntuali riferimenti normativi e dottrinali non solo al diritto canonico ma anche al diritto romano. Questa caratteristica è evidente nella Summa, in cui sono inseriti riferimenti sia a canonisti (Goffredo da Trani e Raimondo di Peñafort) sia a civilisti (Azzone; cfr. Nuccio 1984, p. 1407).
Il libro quinto della Summa, il De usuris, è il più analiticamente completo ed esteso in materia, tanto da essere considerato un vero compendio di ciò che il diritto romano aveva legiferato in tema di usura (Armstrong 2007).
La trattazione è divisa in tredici paragrafi. I primi sei contengono la definizione del peccato di usura: 1) Usura quid sit («Cosa è l’usura?»); 2) Et unde dicatur («Che cosa la definisce come tale»); 3) Species usurae quot sint («Quante sono le specie di usura»); 4) Et pro quibus rebus datur («In relazione a che cosa si dà»); 5) Et ex quibus causis («Quali sono le sue cause»); 6) Usura eveniunt ex mora, vel quasi mora, iure communi et speciali («Si dà usura per un ritardo, o per qualcosa di simile a un ritardo, secondo il diritto comune o speciale»; da parte mia, interpreto che il ‘qualcosa di simile a un ritardo’ sia per l’Ostiense lo spazio di tempo che consente – o vieta, a seconda dei punti di vista – la corresponsione dell’interesse).
Dalla trattazione emerge senza ombra di dubbio che per Enrico da Susa ogni richiesta di interesse, indipendentemente da quanto ammonti, è peggio del furto: è usura qualunque quantità di danaro o cosa – anche diversa da quella data in mutuo – che viene aggiunta al bene prestato, nell’adempimento dell’obbligazione di mutuo. Se il debitore rende di più (in termini di peso, misura, numero…) insieme al capitale, l’obbligazione è viziosa. E questo è vero tanto per le merci quanto per il denaro (Summa, coll. 1612-1613).
Enrico da Susa conosce ed esamina i casi che il Corpus juris civilis romano considera leciti, ma nonostante questo conclude escludendo che una qualsivoglia impalcatura giuridica terrena possa correggere la legge naturale/divina che – come si è già scritto - è la sola in base a cui si vive rettamente: oltre il capitale nulla si può esigere. Chi pratica usura è condannato alla scomunica, oltre che alla restituzione di ciò che è stato ricevuto oltre al prestato (Summa, col. 1619). In sostanza l’Ostiense finisce con l’ammettere che il potere secolare non è in grado di disciplinare esaustivamente la proibizione dell’usura: sembra non riconoscere, insomma, che ogni operazione economica la quale richiede investimento in denaro, o in qualsiasi altra risorsa, comprende al suo interno di necessità il pagamento di un interesse.
Questa rigidità nell’esplicitare la sua concezione sull’attività creditizia è interpretabile in diversi modi. Innanzitutto, la rigidità deriva dal fatto che il mercato è tanto il luogo fisico degli scambi quotidiani quanto, sempre di più, un’attività che si svolge e si porta a termine tra mercati lontani; questo implica di dover coniugare commercio e finanza. Quando ciò avviene gli operatori possono essere lontani nello spazio. Lo scambio riguarda vere e proprie élites nobiliari e imprenditoriali nel senso più ampio del termine, le quali sono autonome sotto il profilo politico e, attraverso le proprie intraprese, vogliono in genere aumentare il potere e la ricchezza della propria famiglia. Oltre a ciò, l’importazione e l’esportazione vedono in gioco il cambio tra monete coniate da autorità sovrane i cui obiettivi sono economici e anche politici. L’obiettivo politico viene perseguito da gruppi di mercanti che affrontano rischi, perlopiù assenti nelle attività artigianali e agricole, iniziando a diventare una vera e propria categoria sociale ed economica, cioè un’Arte. I mercanti sono quindi i portatori di una nuova economia.
Un giurista come Enrico da Susa guarda con perplessità a questi mutamenti che difficilmente sono scomponibili in atti codificabili, schematizzabili legalmente e definibili in nuove figure giuridiche in modo da passare dalla registrazione notarile diffusa nel 13° sec. alle lettere di cambio che rendano affidabili le attività economiche, a una registrazione contabile, alla partita doppia. La contabilità in questo modo diventa una registrazione razionale degli affari di una compagnia, ma anche segno della buona reputazione e della moralità dell’impresa mercantile.
Il secondo motivo per cui il cardinale Ostiense si assesta su posizioni rigide riguardo alle novità della realtà economica può derivare della sospettosa vigilanza con cui un giurista come lui, difensore della societas christiana, guarda all’avanzare delle attività mobiliari. Queste attività possono minare la solidità dell’ordine economico fondato sulla ricchezza immobiliare che in gran parte era posseduta dalla Chiesa (Nuccio 1984, p. 1409).
Infine, questa sospettosa vigilanza di Enrico da Susa può corrispondere a una forte preoccupazione, cui egli senza dubbio stava assistendo, di fronte al graduale abbandono delle attività agricole a favore di quelle cittadine – creditizie e mercantili – in grado di procurare maggiore profitto all’operatore economico. Questo mutamento corrisponde alla violazione del costume che sostanzia la morale del cristiano, il quale deve vivere sobriamente domandando e usando solo beni indispensabili, senza che nel suo comportamento prenda spazio l’amor pecuniae in luogo della carità verso il prossimo. L’amor pecuniae è idolatria, e idolatri sono tanto il creditore quanto il debitore, vincolati e corresponsabili in questa azione peccaminosa.
In sostanza: la scomunica viene comminata a chi è colpevole di usura; da ciò deriva come conseguenza l’obbligo di restituzione di quanto supera il capitale prestato e, inoltre, questa azione riparatoria colpisce tanto l’usuraio quanto i suoi eredi, anche se ignari, non consapevoli del peccato commesso che si trovano a ricevere per successione ereditaria.
I teologi si impegnano in una profonda discussione sulle possibili eccezioni a questa norma tanto rigida e distante dal comportamento che il mercato – il sistema degli scambi – sembra richiedere per funzionare e per aumentare la ricchezza. A questo riguardo operano vere e proprie sistematizzazioni.
Nonostante la sua rigidezza, Enrico da Susa percepisce con chiarezza che ci sono casi in cui l’usura – illecita e peccaminosa – diventa interesse – legittimo e fruttifero. Egli scrive: Exigi an possit aliquid ultra ortem aliquo casu («In qualche caso è possibile esigere qualcosa oltre il capitale»). Dopo questa affermazione, egli ritorna all’impostazione originaria e afferma che ci sono anche casi in cui si scopre un contratto con interessi eccessivi (Contractus usurarius qualiter detegatur) e che, in ogni caso, si richiede una pena per gli usurai (Poena quaesit usurariorum) e l’interesse deve essere restituito in qualche modo (Usura qui reddenda sit), come può essere restituito (Et qualiter possit repeti) e, al conto degli interessi, si aggiunge una penale se il denaro prestato non viene restituito nel giorno stabilito (Poena si adiectasit, nisi pecunia mutuata ad certam diem solvaturam praesumemus ipsam in fraudem usurarum adiectam).
Il principio che si è visto espresso da Enrico da Susa con tanto rigore nei primi sei paragrafi della Summa, viene quindi ‘rivisto’ dall’autore stesso, che ammette deroghe alla pena quali dar da mangiare ai poveri, costruire una chiesa e acquistare un calice. Queste clausole devono però essere state previste fin dal momento della stipula del contratto: l’interesse di un capitale prestato si richiede conformemente a quanto si è stabilito nel contratto (Usura equaliter petantur, si deductae sunt in stipulationem).
Suggerire con tanta cautela la possibilità di deroghe alla pena indica – come si è detto – che si sta affacciando sulla scena del pensiero una prima distinzione tra usura e interesse. Non si tratta di una distinzione concettuale, perché tutto ciò che ha a che vedere con l’idolatria della ricchezza rimane illegittimo sotto il profilo teologico, il criterio naturale riguardo al quale il diritto canonico non recede.
Analisi importanti del valore storico dei contributi teorici sulla definizione di interesse dal 13° sec. sono quelle di Amleto Spicciani (1977, pp. 17-48), Luigi Lodovico Pasinetti (1994, pp. 33-56), Giacomo Todeschini (2004, pp. 88-89), i commenti di Alberto Tulumello (2006, pp. 721-80) e – per quanto riguarda il più ampio tema del rapporto tra moneta e credito – il volume di Massimo Amato (2008).
La pratica dell’usura rimase molto diffusa, in contrapposizione ai dettami della Chiesa che intensificò le proibizioni tenendo conto, oltre che degli argomenti morali, anche dei danni economici e sociali che ne derivavano (Amato 2008). A dispetto dei dibattiti teologici, a metà del 13° sec. papa Innocenzo IV condannò l’usura e nel 1317 l’usuraio fu assimilato dalla Chiesa all’eretico. Siamo nel 14° sec. quando Poggio Bracciolini e Coluccio Salutati ragionavano dell’operatore economico in termini di «istinto lucrativo» (Gualerni 2001, cap. 1).
Se questi erano i termini in cui laici e canonisti tessevano il proprio pensiero, sotto il profilo della realtà proprio a preservare i cristiani dal peccato furono destinati i Monti di Pietà, fondati a Perugia nel 1462 e a Gubbio nel 1463, sostenuti dai francescani e dalle riflessioni di alcuni teologi che accettarono il profitto come incentivo per l’industriosità dell’uomo e per l’operosità di chi accetta il rischio del commercio e dell’intrapresa.
La visione ‘laica’ della questione e la definizione economica dell’interesse come ricompensa per l’astensione dall’uso della moneta e premio per il rischio assunto da parte di chi rinuncia a un investimento terriero di pari valore verranno esposte da William Petty nel 1662 nel suo A treatise of taxes and contributions, e negli stessi anni da Nicholas Barbon, che distinse il rendimento di fondi ‘naturali’ e ‘ artificiali’.
La storia del pensiero economico ci dice, in conclusione, che solo dopo cinquecento anni di faticosa riflessione dalle prime intuizioni di Enrico da Susa si approdò alla definizione scientifica di interesse.
La seconda materia economica che rientra nella trattazione di Enrico da Susa in quanto contraria al diritto e alla morale è quella monetaria, o meglio la materia delle frodi monetarie. Già si è fatto riferimento all’intrecciarsi tra elementi inerenti le merci e il denaro sul mercato, e alla problematicità che questo causò ai pensatori del tempo di fronte al comportamento dei mercanti operanti negli scambi internazionali e quindi coinvolti nell’attività di cambio tra monete diverse.
In questo caso, la frode monetaria cui fa riferimento Enrico da Susa è un’azione illecita e insieme peccaminosa, che riguarda però le autorità che avevano il privilegio del conio delle monete. Le autorità erano frequentemente tentate di alterare la materia, il peso, il corso della moneta; facevano così per avvantaggiare le finanze dello Stato, cioè quelle a propria disposizione nel caso di confronti internazionali sotto forma di guerre, invasioni e spedizioni.
Mutare il valore della moneta diventava però, per Enrico da Susa, un atto lecito se compiuto con il consenso del popolo o della sua maior pars. Questa affermazione sembra collegarsi alla concezione di societas cui egli fa riferimento nelle sue opere, cioè la riunione di più persone che vogliono perseguire uno scopo comune o che stipulano un contratto per un comune guadagno, per un comune lavoro, un insieme di persone per le quali il valore del denaro deve essere certo e stabile.
Summa aurea, Romae 1473; Parisii 1512; Lugduni 1517, 1537, 1568, 1588; Venetiis 1570, 1574, 1605.
Lectura in quinque libros decretalium, Venetiis 1581.
La Summa, nell’ed. Venetiis 1574, e la Lectura, nell’ed. Venetiis 1581, sono state riprodotte anastaticamente a Torino, rispettivamente nel 1963 e (in 2 voll.) nel 1965.
Si veda inoltre: L. Hain, Repertorium bibliographicum, 2° vol., t. 1, Milano 1948 (ripr. facs. dell’ed. Stuttgartiae-Letitia Parisiorum 1831), pp. 100-02, nn. 8959-8966.
La bibliografia qui elencata tralascia le numerose opere precedenti al 1957, che costituiscono la base di quelle più recenti. Si è assunta come opera iniziale quella internazionalmente riconosciuta di John Th. Noonan Jr.
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