DANDOLO, Enrico
Patriarca di Grado, primate di Dalmazia, successe a Giovanni Gradenigo, che Onorio II aveva fatto destituire nel 1129 perché coinvolto nello scisma. Non si sa tuttavia esattamente in quale anno il D. divenne patriarca.
Il Coleti indica con dubbio (circiter) il 1134; il Corner e il Cappelletti, sulla traccia di una loro lettura della Chronica di Andrea Dandolo, arretrano al 1131. L'autore del Chronicon Altinate afferma che il D. rimase in carica per il periodo record di 61 anni: a partire, quindi, dal 1129 (anno di destituzione del predecessore) fino al 1190 (quando compare per la prima volta, in una lettera di Clemente III, il nome del nuovo patriarca, Giovanni Signolo, un prete-notaio di Venezia).
La notizia non è per ora verificabile: è vero che il D. fu promosso alla dignità patriarcale in età ancor giovane (poco dopo i 30 anni; è vero che fu eccezionalmente longevo (nel 1179-1181 Alessandro III lo definiva ita senex che a malapena avrebbe potuto sopravvivere ancora per biennium). Ma è anche vero che in quei tempi le sedi vacanti non si coprivano con tempestività automatica e che le nuove nomine potevano tardare anche di anni. In effetti, allo stato attuale delle indagini, il primo documento che riguarda il D. come patriarca è una lettera di Innocenzo II datata il 12 giugno 1135 (conferma alla Chiesa di Grado di tutti i suoi diritti e privilegi); e l'ultimo documento è una lettera di Urbano III del 21 genn. 1186-87 (in favore del priore e dei fratres cruciati di S. Maria di Venezia). Dunque, il D. fu certamente patriarca di Grado dal 1135 al 1187, in un periodo di grandi trasformazioni del mondo lagunare (nascita e primo sviluppo del Commune Veneciarum) e di aspri scontri politici in Europa e nel Mediterraneo.Quanto al ceppo di origine, è certo che il D. proveniva dai Dandolo del confinio veneziano di S. Luca. È detto figlio di Domenico "padron di nave", che fu "giudice" nel 1131. Ebbe per fratelli Vitale, un personaggio di spicco (documentato tra l'altro come iudex del Comune e come avvocato dei monasteri di S. Zaccaria, S. Cipriano e S. Giorgio in Fossone), Bono e Pietro; e per nipoti, Giovanni, Marco, Andrea ed Enrico (il suo omonimo, più tardi doge e protagonista della quarta crociata). I Dandolo erano una schiatta potente, ricca di immobili (terre e case) e di liquidi (per migliaia di bisanti d'oro), attivissima nei traffici, in costante movimentro tra Venezia e Costantinopoli, ai vertici del ducato con i suoi membri più rappresentativi, e ormai in grado di inserirsi per mezzi e clientele tra il ristretto nucleo delle famiglie ducali. L'accesso del D. al patriarcato, proprio negli anni in cui un Polani per la prima volta diventava doge, potrebbe del resto suonare come "compenso" ai Dandolo, il compromesso finale di una contestata spartizione di cariche, che vide affrontarsi da un lato il binomio Polani-Michiel e dall'altro quello Badoer-Dandolo. Appunto, la rivalità tra famiglie, che si esprimeva anche nella corsa al "possesso" delle cariche ecclesiastiche, tramite l'occupazione diretta dei vescovadi e l'avvocazia sui monasteri, può spiegare molti aspetti del burrascoso patriarcato del Dandolo. Molti, ma non tutti: non sono infatti da escludere né la pietas individuale (un cronista definisce il D. "vir sanctus et bonus"), né il fascino delle idee "gregoriane" e "bernardine" in tema di libertas Ecclesiae che, secondo il Kretschmayr, il D. fece proprie.
Attorno al 1140 la prima tempesta, motivata dall'erezione di S. Salvatore in canonica regolare. Era stato il D. a convincere il pievano Bonfilio a fondare una comunità di preti viventi secondo la regola di s. Agostino. Il che, se era in linea con le esigenze di riforma della Chiesa, costituiva una novità assoluta e intollerabile per l'ambiente lagunare. Tutti, difatti, insorsero: il vescovo di Castello Giovanni Polani (figlio del duca in carica), perché sentì intaccata la propria giurisdizione; i vicini, perché videro compromessi i propri diritti di controllo sulla parrocchia; lo stesso governo, che ben sapeva cos'era una canonica: un ente immune, direttamente soggetto alla Sede apostolica. Ci furono schermaglie: il vescovo Polani sospese e vietò i servizi liturgici in S. Salvatore; il cappellano inviato dal D. per ripristinarli venne respinto con la forza. Ma il D., per quanto isolato, non disarmò: corse a Roma, dove, essendo già in buoni rapporti con il papa (era intervenuto nel 1135-1136 al concilio di Pisa), ottenne immediata soddisfazione: il 13 maggio 1141, con una lettera a Bonfilio, Innocenzo II accoglieva S. Salvatore "sub Beati Petri et mea proctetione"; investiva del diritto di scelta del priore i soli fratres della canonica o la "pars sanioris concilii"; diffidava chiunque dall'interferire nella vita e negli interessi della comunità, salva la solita iustitia riservata al vescovo del luogo. L'appoggio di Roma significò rottura aperta con il governo, e quindi persecuzioni contro il D. e contro Bonfilio. Invano fra il 1141 e il 1145 ben tre papi (Innocenzo II, Celestino II, Lucio II) inviarono lettere a Venezia "pro sedanda discordia": l'ostilità si protrasse e anzi si aggravò giacché sopravvenne occasione per un nuovo scontro.
Quando, nel 1146-1147, il governo decise di concedere aiuto armato al basileus Manuele Comneno alle prese con l'invasione normanna, il D., non si sa per quale segreta intenzione, si mise a predicare, con tutta l'asprezza di cui era capace (uomo acrioris conscientiae lo definirà un autore), che gli scismatici non dovevano essere soccorsi, e per giunta a scapito dei buoni cristiani. Il governo del doge Pietro Polani, smentito e scavalcato, reagì furiosamente: cacciò dalla città il patriarca con tutti i suoi parenti e fece anche abbattere le loro case. Nel provvedimento furono compresi tutti i chierici e i membri della famiglia Badoer che lo sostenevano. Il D. si appellò al papa, che gli diede ragione: di qui la scomunica al doge e l'interdetto lanciato contro Venezia. Solo con il successore del Polani, che fu Domenico Morosini, si addivenne, forse tra il 1148 e il 1149, alla pace tra patriarca e governo. La pace permise anche il graduale risolversi della vertenza per S. Salvatore, che però ebbe la sua vittima: Bonfilio, costretto a ritirarsi in eremitaggio a Veglia, fu colà assassinato. Il D., che attorno al 1150 si trovava "in partibus Dalmatie" per incarico del papa, ne prelevò il corpo e lo fece trasportare a Venezia, dove i canonici di S. Salvatore lo seppellirono in un'arca dietro l'altare della loro chiesa.
Alla rivalsa estrema, e simbolica, del patriarca il vescovo Polani non rispose più. In effetti, il ritorno sulla scena del D. dipendeva in gran parte dal diverso equilibrio di forze nel frattempo maturato tra le grandi famiglie: i Polani si accostavano ai Dandolo (Primera, vedova di Giovanni Polani - omonimo del vescovo di Castello, fratello del defunto doge Pietro -, sposava Andrea Dandolo, forse figlio di Vitale); anche i Morosini sembrano in questo momento legati ai Dandolo, giacché fu il doge Domenico Morosini a dichiarare Pietro Dandolo e suo figlio Marco "sine culpa" sul fatto dell'opposizione del D. alla spedizione in soccorso di Bisanzio, e a far ricostruire a spese del Comune le loro case distrutte per ordine del duca Polani. Un inciampo sembrò profilarsi per il D. nel 1156, quando al Morosini successe Vitale II Michiel, ossia il capo di una famiglia che con i Dandolo era stata in contrasto forse per questioni attinenti al controllo del monastero femminile di S. Zaccaria. Comunque il D. si precipitò a Roma, per munirsi delle più ampie "coperture" papali; e il 13 giugno 1157 ottenne da Adriano IV due lettere: con la prima riceveva il diritto di ordinare e consacrare i vescovi delle Chiese veneziane site nei territori di Bisanzio (a Costantinopoli, del resto, il patriarcato aveva molti beni, i cui redditi, affidati nel 1169 per la riscossione a Romano Mairano, erano valutati a 500 libre veronesi); con la seconda veniva "presentato" al doge di Venezia come "spiritualis pater", degno di ogni onore e obbedienza e da assecondare pienamente nel suo sforzo di dilatare l'autorità patriarcale e di tenere ben ferma la primazia sulla Dalmazia.
Questo, appunto, era il progetto del D.: dare spazio al patriarcato nel contesto delle Chiese lagunari e dalmate, acquisire nella realtà il primato di cui la Chiesa di Grado godeva in teoria. E per tale progetto nessun doge lo poteva frenare, né lo frenò (anche se al tempo del D. un altro Michiel, Vitale, divenne vescovo di Castello); anzi, nel 1166, stranamente, il D. appare aggregato al governo ducale, con priorità sui giudici e sui sapientes. E ogni occasione d'intervento gli era utile: appoggiò i diritti parrocchiali della canonica di S. Salvatore assegnandole, a danno di S. Bartolomeo, le case prestigiose degli Zusto, dei Morosini, dei Gradenigo, dei Greco, di Leonardo Fradello e di Domenico Orio; sentenziò nel 1164, a favore del monastero dei SS. Ilario e Gregorio, contro i presbiteri e i vicini che intendevano usurparne i diritti e lo stesso pievanato; nel 1175 fece restituire a S. Cipriano le chiese di S. Martino e di S. Apollinare in diocesi di Veglia tenute da certi Sclavi de castro Musculo; nel 1182 rinforzò con una larga concessione il patrimonio della chiesa di S. Silvestro che era "de iure patriarchatus". Nel 1191, come risulta da un processo, non si era ancora risolta una lite con il vescovo di Castello, cominciata oltre quarant'anni prima, per la giurisdizione sull'ospedale e sulla chiesa, fondata e spesso officiata dallo stesso D., di S. Clemente de Orfano.
Ma non è necessario elencare tutti gli atti in cui il patriarca appare coinvolto. A un certo punto, stante la continua ascesa dei Dandolo e i buoni rapporti tra il Papato e Venezia (specie al tempo di Federico Barbarossa), il suo "zelo" apparve anche ai suoi abituali sostenitori eccessivo e conseguenza dell'età troppo avanzata. Nel 1179-1181 Alessandro III scriveva al doge di non comprendere quel frenetico agitarsi di un "vescovo" (il D.) di una sede "minore" (Grado); e suggeriva di attenderne l'ormai prossima fine (in effetti il patriarca era ormai decrepito, e due anni dopo non riusciva neppure a firmare un documento: "propter debilitatem") per risolvere una volta per sempre, con il trasporto della sede patriarcale da Grado a Venezia, una stranezza, fonte di continue discordie: un patriarca di Grado che abitava in Venezia (nel palazzo di S. Silvestro), sotto la giurisdizione del vescovo di Castello. Il governo lagunare non abboccò: non gradiva, come non aveva mai gradito, una Chiesa "vicina" ed ecclesiastici autonomi. Nel tacito confronto fra il Papato e Venezia chi ci perse tuttavia fu proprio il D., che restò emarginato. Già, per volontà di Alessandro III, aveva dovuto venire a un concordato con la sede di Aquileia in tema di diritti metropolitici e di danni sofferti per saccheggi fin dal tempo del patriarca Poppone. Nel 1182 - magro compenso - perché la sua Chiesa, "ex brevitate", non apparisse a qualcuno "inferior et abiector", gli fu concesso il prioratus (non il primatus) sull'arcivescovado di Zara. E la concessione fu rinnovata - è uno degli ultimi documenti che lo riguardano - nel 1186. Si spense attorno al 1188.
Fonti e Bibl.: Per i documenti ined. o imperfettamente editi citati per gli anni 1129-1191, cfr. Arch. di Stato di Venezia, Codice diplomatico Lanfranchi, ad annos, partic. i nn. 2176, 2520, 2605, 2676, 3024, 3028, 3484, 3485, 3587, 3658, 3731, 3833, 4068; Francisci de Gratia Chronicon monasterii S. Salvatoris Venetiarum, a cura di A. M. Duse, Venetiis 1766; Alexandri papae Epistulae et privilegia, in Patr. Lat., CC, coll. 1284 s.; Bullarium diplomatum et privilegiorum sanctorum Romanorum pontificum…, III, Augustae Taurinorum 1858, pp. 41 s.; Origo civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di R. Cessi, Roma 1933, p. 127; A. Danduli Chronica per extensumdescripta, in Rerum Italic. Script., 2 ediz., XII, 1, a cura di E. Pastorello, ad Indicem; R. Morozzo Della Rocca-A. Lombardo, Documenti delcommercio veneziano nei secoli XI-XIII, Torino 1940, docc. 245, 249; Deliber. del Maggior Consiglio di Venezia, a cura di R. Cessi, I, Bologna 1950, pp. 247 s.; Famiglia Zusto, a cura di L. Lanfranchi, Venezia 1955, docc. 23 s.; SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio, a cura di L. Lanfranchi-B. Strina, Venezia 1965, doc. 26; F. Ughelli-N. Coleti, Italia sacra…, V, Venetiis 1720, col. 119; F. Corner, Ecclesiae Venetae..., dec. IV, Venetiis 1749, pp. 10-13; G. Cappelletti, Le Chiese d'Italia..., IX, Venezia 1853, pp. 64-72; H. Simonsfeld, Kurze venez. Annalen, in NeuesArchiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, I (1876), pp. 407-10; W. Lenel, Die Entstehung der Vorherrschaft Venedigs an derAdria mit Beiträgen zur Verfassungsgeschichte, Strassburg 1897, pp. 143 ss.; M. Roberti, Deigiudici veneziani prima del 1200, in Nuovo Arch. veneto, n. s., VIII (1904), p. 236; H. Kretschmayr, Geschichte von Venedig, I, Gotha 1905, pp. 244 ss.; G. Cracco, Società e Stato nel Medioevoveneziano (secc. XII-XIV), Firenze 1967, pp. 12, 22, 29, 44; S. Romanin, Storia docum. diVenezia, II, Venezia 1973, pp. 82 s.; P. F. Kehr, Italia pontificia, VII, pp. 21-26, 61-70 (gran parte del materiale è stato raccolto da D. Rando).