DEL CARRETTO, Enrico
Appartenne alla nobile famiglia ligure Del Carretto, ma l'identità dei genitori e il ramo di provenienza non sono accertabili. Il cardinale Luca Fieschi figura quale parente nel testamento, quindi il D. era legato da vincoli familiari anche ad Ottobuono Fieschi, poi papa Adriano V. Il Manselli suggerisce che fosse figlio di Obizzo Del Carretto e di una sorella di Ottobuono Fieschi, pur ammettendo che ricerche nell'Archivio di Stato di Genova non abbiano fornito definitiva documentazione. La precisa data di nascita non è nota, ma è probabilmente da porsi intorno al 1270.
Entrato nell'Ordine francescano in gioventù, completò gli studi teologici all'università di Parigi, dove nel 1300 si qualificava "in sacra pagina baccalarius".
Il 1° ag. 1300 fu nominato vescovo di Lucca da Bonifacio VIII. L'arcidiacono e il capitolo di quella cattedrale avevano eletto vescovo uno di loro, Rainerio da Montemagno, nonostante il fatto che il papa si riservasse, in questo caso, la prerogativa. Il papa aveva annullato questa nomina, per scegliere il D.; aveva quindi informato le autorità ecclesiastiche di Lucca e ordinato a Niccolò da Prato, cardinale vescovo di Ostia e Velletri, di consacrare il nuovo eletto. Il clero di Lucca non oppose resistenza. La precisa data dell'arrivo del D. nella sua sede non è nota; ad ogni modo egli dovette arrivare poche settimane dopo la sua elezione a Lucca, dove la sua presenza è attestata il 12 luglio 1301. Durante i primi anni di episcopato il D. affrontò seri problemi finanziari.
Con un'autorizzazione papale, in data 13 ag. 1300 aveva preso in prestito la cifra cospicua di 3.000 fiorini per facilitare la conclusione di transazioni finanziarie tra il vescovado e la Chiesa di Lucca da un lato e la Sede apostolica dall'altro. Quali fossero gli scopi di queste transazioni non è noto; forse esse erano connesse con la sua elezione all'episcopato. I prestatori - Cinello Cannavecchia e i fratelli Giovanni, Giano e Guido, figli di messer Percivalle di Labro della famiglia de Portico di Lucca - il 16 settembre 1301 richiesero il pagamento di quanto loro dovuto; la concessione fatta loro dal vescovo il 22 febbr. 1302 dell'appalto del pedaggio di Santa Maria a Monte e Montopoli per cinque anni a lire 1.800 annue è probabilmente connessa col debito da lui contratto. Il 14 marzo 1304 i creditori sollecitarono di nuovo il pagamento; tuttavia concessero una dilazione fino alla Pasqua dell'anno seguente quando i procuratori del D. fecero presente che il vescovo non era in grado di effettuare la prestazione. Il debito fu saldato solo nel 1308, come da quietanza del 25 settembre (erroneamente datata 1338).
Il D. fu un pastore coscienzioso, zelante e a volte severo nel suo tentativo di frenare gli abusi e migliorare le condizioni del clero e dei fedeli affidati alla sua cura. È certo che compì visite pastorali nella sua diocesi. Infatti, benché non ci sia rimasta al riguardo alcuna documentazione nell'Archivio arcivescovile di Lucca, risulta tuttavia che Benedetto XI autorizzò la delega di alcune visite pastorali durante la permanenza del vescovo presso la Curia pontificia il 3 apr. 1304.
Nel primo anno del suo episcopato il D. convocò una sinodo diocesana ed emanò una serie di 77 costituzioni, alcune basate sulla legislazione promulgata nel 1253 da uno dei suoi predecessori, Guercio, altre completamente nuove.
Alcune di tali costituzioni riguardano la vita e la morale dei laici, altre hanno lo scopo di difendere i possedimenti e le libertà della Chiesa. La maggior parte di esse, comunque, riguarda la vita e la morale del clero: vi si sottolineano, infatti, l'obbligo della regolare celebrazione delle funzioni religiose e la necessità di osservare una regola di vita onesta ed esemplare, che rifuggisse dagli affari e dagli interessi mondani e non desse luogo a scandali o abusi.
Nei primi tempi del suo episcopato il tentativo compiuto dal D. di imporre una più stretta osservanza della clausura alle religiose provocò una controversia tra il nuovo presule e il più importante monastero benedettino femminile di Lucca, quello di S. Giustina.
Nel luglio del 1301, in accordo con una costituzione di Bonifacio VIII e, forse, in seguito a una visita pastorale, il D., allo scopo di salvaguardarvi meglio l'osservanza della clausura, ordinò in quel monastero un piano di lavori di ristrutturazione, che avrebbe dovuto essere compiuto molto rapidamente nell'arco di tre mesi. Ciò provocò le proteste di numerosi fedeli i quali, a causa di tali lavori, avrebbero perduto ogni diritto e possibilità di accesso e di sepoltura nella chiesa di S. Maria, che era situata nel chiostro interno del monastero. Anche la badessa e le monache protestarono, sostenendo che il costo dell'opera era superiore alle loro possibilità, e sollecitarono e ottennero l'intervento del cardinale loro protettore. Pure le autorità comunali si associarono alla protesta e si rivolsero al papa. L'esito della disputa non ci è chiaro. Sappiamo che Bonifacio VIII scrisse al D. e al priore di S. Frediano di Lucca il 22 sett. 1302: li esortava a prendere in considerazione i rilievi e a trovare una soluzione del problema che fosse accettabile per tutte le parti interessate; ma le fonti note non ci forniscono su ciò ulteriori informazioni.
La vicenda del monastero di S. Giustina, alla quale le autorità comunali erano solo indirettamente interessate, non alterò i buoni rapporti intercorrenti tra il vescovo e il governo di Lucca in quei primi anni del sec. XIV. Sappiamo tuttavia che nel marzo del 1304 il D. si trovava presso la Curia pontificia proprio a causa di un dissidio con il Comune di Lucca, dissidio a proposito del quale non siamo meglio informati. Sappiamo inoltre che nell'anno 1308 le autorità municipali, seguendo l'esempio di altre città toscane, promulgarono uno statuto col quale si dichiarava, unilateralmente e contro le disposizioni di sovrani e di pontefici attestate dai diplomi rilasciati ai vescovi e al capitolo di quella città, la decadenza dei diritti feudali della Chiesa di Lucca, e si privava il D. dei feudi che deteneva nel territorio lucchese: Moriano, Diecimo ed altre terre. Il D. reagì risolutamente, lanciando la scomunica e l'interdetto. Il Comune dovette acconciarsi a inviare un'ambasceria al papa, nella speranza di riuscire a ottenere la revoca di questi provvedimenti. Con bolla dell'11 sett. 1309 il papa ordinò la completa sottomissione all'autorità ecclesiastica e l'immediata restituzione alla Chiesa di Lucca di tutti i diritti usurpati, e affidò ad un suo uomo di fiducia, Stefano, pievano di Campoli (diocesi di Firenze), il compito di giungere a un accordo. Stefano si incontrò con i rappresentanti lucchesi il 28 genn. 1310: dopo negoziati, ai quali parteciparono anche il capitolo della cattedrale di Lucca e altri ecclesiastici, riuscì ad ottenere che si apportassero allo statuto del 1308 una serie di modifiche o di "correzioni" a garanzia dei diritti e dei privilegi della Chiesa di Lucca.
Maggiori difficoltà dovette affrontare il D. nei suoi rapporti con le autorità cittadine dopo la conquista di Lucca da parte di Uguccione Della Faggiuola, avvenuta il 14 giugno 1314. Il nuovo regime non solo si impadronì del tesoro papale custodito in S. Frediano, ma saccheggiò la curia vescovile, asportando tra l'altro numerosi documenti attestanti concessioni imperiali e pontificie, donazioni di proprietà e diritti di giurisdizione. Problemi particolari sorsero a proposito del castello di Aquilea, nella pieve di Sesto Moriano, che il nuovo regime intendeva distruggere, causando in tale modo alla Chiesa di Lucca un danno valutato intorno ai 10.000 fiorini. Uberto de Vezza, vicario generale del D., protestò vigorosamente dinnanzi agli Anziani di Lucca e allo stesso Uguccione e si recò personalmente ad Aquilea in un vano tentativo di impedire la distruzione di quel castello. E da Aquilea, il 15 genn. 1316, lanciò contro Uguccione e contro gli Anziani l'interdetto. Il 28 gennaio, però, dopo che Uguccione aveva promesso formalmente la restituzione dei documenti sottratti e, nella speranza di prevenire rappresaglie contro il clero, il provvedimento di interdetto veniva sospeso. Sembra che il D. non fosse a Lucca durante questi avvenimenti, ma non possiamo affermarlo con sicurezza.
È spesso difficile per noi, infatti, accertare se egli si sia trovato o meno presente a determinati avvenimenti lucchesi poiché l'ampia documentazione relativa al suo episcopato non riguarda propriamente la sua personale opera di governo ma piuttosto l'attività dei vari vicari generali, sindaci, procuratori, gastaldi e altri agenti della sua Chiesa. Il fatto che egli non vi venga sempre citato, dunque, non significa necessariamente che egli non si trovasse nella diocesi. Ci risulta per esempio che il 22 ott. 1301 ordinò ai procuratori di S. Giustina di rivolgersi al suo vicario generale, benché egli fosse presente nel suo palazzo episcopale di Lucca. Si trovava certamente nella diocesi il 12 luglio, il 22 ottobre e l'8 nov. 1301; il 2 gennaio, il 22 febbraio, il 18 marzo e il 17 nov. 1302 e il 10 dic. 1303. Ma era presso la Curia papale il 14 marzo 1304; ed era ancora assente da Lucca il 3 apr. 1304. Il 28 maggio 1305 si trovava a Perugia; il 10 gennaio e il 12 giugno 1307 era al castello di Ponte nella diocesi di Acqui. Non era a Lucca nel gennaio 1310 quando la disputa con le autorità municipali per il feudo vescovile venne risolta: forse si trovava presso la Curia pontificia per sollecitare l'appoggio del papa.
I suoi movimenti negli anni successivi non sono ben noti; ma, da fedele seguace della politica papale, è probabile che il D. abbia lasciato Lucca subito dopo la conquista della città da parte di Uguccione nel 1314. Si trovava nel castello di Ponte nel 1315, e nel castello di Caselli, nella diocesi di Acqui, l'8 marzo 1316. Il 30 dicembre di quello stesso anno era ad Avignone. Sembra che si sia trattenuto ad Avignone o vicino a questa città per il resto della sua vita e che non sia tornato a Lucca.
Ciò non significa tuttavia, che egli abbia trascurato la sua diocesi. Aveva vicari generali e sindaci con pieni poteri di agire in sua vece, e ad essi impartiva precise direttive. Alcuni erano lucchesi, ma preferiva collaboratori provenienti dalla sua terra d'origine, come Francesco da Casale, canonico di Tortona, che fu da lui promosso pievano di Segromigno; o come Lantelmino di messer Giovanni Cane da Casale, che divenne rettore della chiesa di S. Gregorio d'Oltrarno; come Antonio di Vezza, canonico di Asti, come Uberto di Vezza, canonico di Savona, e come Manfredo Mannaria de Ponte, monaco del monastero di S. Quirico di Spigno nella diocesi di Savona.
Durante gli ultimi anni della sua vita il D. venne stimato e tenuto in alta considerazione come teologo. Come membro dell'Ordine francescano prese parte alla controversia tra gli spirituali e i conventuali. Già nel luglio del 1313 aveva ricevuto due lettere da Clemente V riguardanti le dispute che avevano luogo nei conventi francescani di Firenze e in altre località della Toscana. Nella prima-vera del 1318 fece parte di quel gruppo di teologi francescani che condannarono come eretiche le opinioni dei quattro loro confratelli di Narbonne e Béziers che si erano rifiutati di obbedire gli ordini di Giovanni XXII. Benché il 6 marzo 1322 insieme con il cardinale Vital du Four e con altri avesse appoggiato la tesi di Berengario Taloni, lettore del convento francescano di Narbonne, il quale sosteneva l'assoluta povertà vissuta da Cristo e dagli apostoli, nelle dispute interne dell'Ordine francescano si schierò con i conventuali contro gli spirituali. Godette della stima di Giovanni XXII; a questo pontefice dedicò il suo Tractatus de statu dispensativo Christi et specialiter de paupertate eius et Apostolorum, il suocommento sulle profezie di Ezechiele, il Liber super visione rotarum Ezechielis, probabilmente scritti in questo periodo. Venne consultato insieme con altri eminenti teologi su questioni riguardanti la magia, che aveva già condannato nelle sue costituzioni.
Dettò il suo testamento il 2 ag. 1323, ricordando tanto i francescani che la diocesi di Lucca.
Tra le disposizioni testamentarie figura quella di esser sepolto nel convento dei frati minori di Avignone. Tre francescani figurano tra i testimoni. Escludendo il necessario per il pagamento di alcuni debiti e di alcuni piccoli lasciti, il D. nominò come suoi eredi i poveri di Cristo della città e diocesi di Lucca. Esecutori testamentari furono Bernardo, abate di S. Siro di Genova, per le questioni riguardanti la Curia papale, e Francesco da Casale, suo vicario generale fin dal 1305, per le questioni riguardanti Lucca. Essi dovevano agire previa consultazione con un suo parente, Luca Fieschi, cardinale diacono di S. Maria in via Lata. Nel testamento è ricordato, per una somma di denaro che doveva essere stabilita dagli esecutori, anche un ser Corradotto de Vallegelata, "domicello suo", che lo aveva assistito in qualità di notaio fin dal 1305.
Già malato quando aveva redatto il suo testamento, il D. dovette morire poco dopo, presumibilmente ad Avignone, poiché la notizia della sua scomparsa era già nota a Lucca il 20 ag. 1323. A questa data il vescovato è detto infatti vacante "per mortem bone memorie reverendi patris domini fratris Henrici Dei gratia Lucani episcopi". Ciò è confermato da una pergamena del 15 nov. 1323 dove si legge, parlando del D.: "cum predictus episcopus humane noscatur nature debitum persolvisse".
Data la situazione politica, la sede lucchese rimase vacante fino al 1330, anno che è stato erroneamente considerato da alcuni scrittori come quello della sua morte. Il suo corpo fu sepolto nel convento dei francescani di Avignone, come indicato nel testamento.
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