FALCK, Enrico
Unico figlio di Georges Henri e di Barbara Noblat, nacque nel dicembre (forse il 13) 1828 a Cernay, presso Mulhouse (Francia), accolto nella Chiesa riformata locale - cui apparteneva il padre - con il nome di Henri. La sua educazione fu affidata soprattutto alla madre, gli impegni di lavoro tenendo il padre spesso lontano dall'Alsazia; certo per influenza della madre, che era invece cattolica, nel 1840 passò alla Chiesa di Roma.
Il padre Georges Henri, nato nel 1802 a Wissenbourg, in Alsazia, da Jean Didier, ufficiale napoleonico, e da Margueritte Hauty, al termine degli studi secondari si era iscritto alla facoltà di ingegneria, come il fratello Jean Michel, ma a differenza di questo, che aveva scelto il ramo tessile (cotoniero), optò per la specializzazione in metallurgia.
Terminate le guerre napoleoniche - che da un lato avevano stimolato le attività produttive, dall'altro avevano impedito gli scambi di merci e di idee con l'Inghilterra - la rivoluzione industriale aveva potuto trapiantarsi sul continente. Precedentemente, le innovazioni introdotte dagli Inglesi nella siderurgia avevano stentato ad essere adottate. A. Derby già nel 1709 era riuscito a desolforare il carbone, nel 1735 era entrato in funzione il primo altoforno a coke: nel 1806 ben 162 altiforni inglesi marciavano con questo combustibile contro 11 soltanto a carbon di legna. Nel 1784 Henry Cort aveva inventato i forni a riverbero o da pudellaggio (i puddlers) che, evitando il contatto diretto con il combustibile, consentivano di usare il carbone, altamente inquinante dato il contenuto di zolfo, per affinare la ghisa. In Francia, sotto l'Impero, per le lavorazioni siderurgiche si continuava a fare uso (con qualche rara eccezione) di carbone vegetale.
La Restaurazione diede notevole impulso alla siderurgia. Ciò avvenne in primo luogo per l'aumento della domanda, dovuto alla diffusione delle macchine a vapore (il "macchinismo") e, a partire dal 1830, alla costruzione delle strade ferrate. D'altro canto l'offerta non avrebbe potuto svilupparsi in misura adeguata senza l'introduzione dei nuovi metodi produttivi, più veloci e meno costosi di quelli tradizionali, e che consentivano di eludere la scarsezza di carbon vegetale. I primi ad essere adottati furono i forni a riverbero, e nella prima metà dell'Ottocento grandi forges à l'anglaise furono costruite in Francia. I progressi degli altiforni a coke furono invece più lenti, a causa della lontananza geografica dei giacimenti di minerali di ferro da quelli di carbone; le minettes lorenesi erano inutilizzabili per l'elevato contenuto di fosforo (all'epoca non poteva ancora essere eliminato né con la riduzione né con l'affinazione), che rendeva fragile l'acciaio. Gli altiforni a carbon di legna resistettero quindi a lungo pur senza riuscire ad impedire una profonda riorganizzazione territoriale, conseguenza del richiamo dei bacini carboniferi sulle successive fasi della produzione. Questo richiamo fu rafforzato dall'impiego di macchine a vapore per l'insufflazione di aria negli altiforni (applicata per la prima volta da John Wilkinson), che scioglieva dal vincolo alla forza idraulica; in senso inverso agiva un altro ritrovato, il preriscaldo dell'aria stessa, prima con il focolare inventato nel 1828 da J. B. Neilson, poi con il ricupero dei gas dello stesso altoforno (un'invenzione di A. C. W. F. Faber du Faur). Altro mutamento fondamentale fu realizzato da Peter Onions sostituendo la tradizionale battitura al maglio con la "cilindratura" o laminazione, che verrà adottata appena possibile anche in Francia, dove contribuirà in modo determinante all'aggiornamento del settore.
Nel clima generale di cambiamenti Georges Henri si accostò alla siderurgia prima come studente e poi, negli anni della pratica, nelle ferriere del Nordest che cercavano di rinnovarsi per trar partito dalla crescente domanda e per resistere alla concorrenza inglese. Fu una scuola eccellente, di cui profittò con una applicazione assidua che durò per oltre un decennio. In questo frattempo, nel 1826, aveva sposato Barbara Noblat, di Mulhouse, con la quale si stabilì a Cernay. Nel 1833 la buona reputazione di tecnico gli valse una richiesta di consulenza da parte della Gaetano Rubini e Figlio, una delle più importanti imprese siderurgiche del Lombardo-Veneto, proprietaria della ferriera di Dongo, di un forno a Cardano e di numerose miniere di ferro. Questo impegno, che si aggiungeva ai precedenti, durò per oltre un quinquennio, e vide la sua attenzione spostarsi sempre di più dalla natia Alsazia alla Lombardia.
L'esigenza dei più avveduti industriali italiani di un apporto estero di esperienza tecnica era ampiamente giustificata. La siderurgia italiana aveva cominciato a decadere nel Cinquecento, quando tutta la nostra economia perdeva a poco a poco i contatti con il resto d'Europa, e aveva continuato per tre secoli nel suo declino. Nell'Ottocento la domanda di ghisa, ferro e acciaio aumentò anche in Italia - in modo particolare nelle regioni settentrionali - a mano a mano che si diffondeva il "macchinismo", si costruivano ferrovie, si gettavano ponti; ma la mancanza di materie prime - e soprattutto della nuova materia prima, il carbone da coke - impediva di soddisfarla con produzione locale. Il settore sembrava condannato a rimanere "dimezzato": l'aggiornamento si poteva fare solo nella fase più a valle del processo (acciaierie e laminatoi) ma non in testa al ciclo (il primo altoforno italiano alimentato con coke fu acceso nel 1902, e fu per molti aspetti una nascita prematura). La mancanza di ghisa locale - quella al carbon di legna andrà sempre più fuori mercato per gli alti costi e, nonostante l'ottima qualità, verrà prodotta sempre meno - e l'elevato costo di trasporto di quella estera condizioneranno negativamente: lo sviluppo delle altre lavorazioni. Negli anni che vanno dalla Restaurazione all'Unità la siderurgia lombarda vedrà aggiungersi, a questi svantaggi, anche la concorrenza dei produttori austriaci, assai meglio dotati di materie prime.
La decisione del Rubini non era un caso isolato. Nel 1859 Piero Bastogi chiamò l'ingegnere francese Auguste Ponsard, che aveva lavorato a lungo a Decazeville, alla direzione tecnica della Azienda delle miniere e ferriere (la Cointeressata), ed in tale qualità partecipò attivamente allo sviluppo della siderurgia italiana. Anni dopo, nel 1872, la Società per l'industria del ferro di Firenze lo incaricò di progettare e costruire le macchine, le caldaie, i forni e il laminatoio del costruendo impianto a San Giovanni Valdarno.
Alla fine degli anni Trenta Georges Henri accettò la proposta di un legame più stretto con la ferriera di Dongo (che cambierà ragione sociale diventando Rubini, Falck, Scalini e Comp.), - assumendovi le funzioni, oltre che di consocio, anche di direttore industriale. Scopo della nuova società - che si prevedeva dovesse durare dieci anni - era di "gareggiare con le più accreditate ferriere di oltremonte" mediante "l'applicazione dei migliori e più recenti metodi di fabbricazione". Lo stabilimento era dotato, tra l'altro, di un altoforno quadrato di tipo bergamasco, di due fucine con magli e distenditori, di una fonderia di ghisa. Georges Henri sostituì l'altoforno con uno nuovo all'inglese con sezione tonda, e ricuperò i gas di emissione per riscaldare l'aria; installò un laminatoio per barre e lamiere al posto dei magli; affinò la ghisa con dei forni a riverbero che migliorò nella struttura e nella conduzione; installò forni di ribollitura e di riscaldo a riverbero e un forno contese (secondo la tecnica in uso nella Franca Contea), e studiò accuratamente la circolazione dei fluidi nei forni. Di queste innovazioni - che posero Dongo all'avanguardia - il laminatoio fu la più significativa: l'impianto fu chiuso dopo ben sessant'anni, alla vigilia della prima guerra mondiale.
I progressi compiuti anche in Italia nella siderurgia non compensavano la sfavorevole situazione di base nella produzione della ghisa. Le ferriere italiane continuavano a contare sul carbone vegetale, cercando di compensare lo svantaggio economico con la bontà del materiale, ma si trattava di un'azione di retroguardia. La ferriera di Dongo si trovava in una situazione particolarmente sfavorevole, gravata da oneri superiori alla media nell'estrazione e nel trasporto dei minerali, e dovendo subire una forte concorrenza da parte di altri utilizzatori del carbone di legna.
Il 9 genn. 1850, sette mesi dopo il termine decennale previsto nell'atto costitutivo, la Rubini, Falck, Scalini e Comp. si scioglieva e la ferriera passava alla Rubini e Scalini, appena costituita. Georges Henri usciva dal sodalizio e si trasferiva a Lecco, consulente tecnico della Badoni. La società era stata costituita nel 1850 con ragione sociale Badoni e Comp. da Giuseppe Badoni, che ammodernava i suoi impianti per adeguarli - per quanto possibile - a quelli degli altri paesi europei che aveva appena visitato. La collaborazione tra i due, con competenze assai diverse, portò frutti e la Società arrivò ad essere la prima negli Stati italiani con una produzione, nei tardi anni Cinquanta, di 1.300 tonnellate annue, ed un consumo di 1.600 tonnellate di ghisa interamente acquistata, risentendo però degli elevati oneri di trasporto. Gli impianti della Badoni e Comp. erano distribuiti in tre stabilimenti. A Castello, nei pressi di Lecco, venivano effettuate le prime lavorazioni: vi furono installati due forni a riverbero, laminatoi, una fonderia di ghisa, un'officina meccanica. Lo stabilimento di Mandello era specializzato nella fabbricazione dei ferri fini per le filiere. Nella ferriera di Bellano Georges Henri installò il primo moderno treno italiano per lamiere, azionato con la forza idrica della Pioverna che veniva imbrigliata in due turbine da 12 e 50 CV; insieme con esso vi erano forni a riverbero per ribollitura e ricottura e laminatoi per profilati. Nell'apporto tecnico alla Badoni vanno segnalati il ricupero e l'utilizzo dei gas dei forni, e gli esperimenti sull'uso della torba nelle varie lavorazioni e soprattutto nei forni a riverbero.
L'impiego metallurgico della torba era ancora, a metà dell'Ottocento, una novità: le prime realizzazioni su scala industriale erano state infatti compiute in Francia dal Lareillet nel 1834. Già nel 1842, Georges Henri pensava alla possibilità di usare il combustibile, estratto dalle torbiere nei pressi di Torino, in uno stabilimento da installare alle porte della città per affinare ghisa fatta venire dalla Toscana e rifornire il mercato della capitale piemontese. Le prime concrete realizzazioni le farà però nel puddler di Lecco tra il 1850 e il 1853, con l'aiuto del figlio chiamato da Mulhouse, dove aveva appena terminato gli studi. La torba, mista a legna, veniva bruciata nel "gasogene" e si otteneva una mistura di gas e aria calda che affinava la ghisa trasformandola in ferro lavorabile. Il procedimento, dopo le iniziali difficoltà, ebbe successo e fu poi adottato in altre ferriere lombarde.
A Lecco Georges Henri fece anche la prima esperienza imprenditoriale affittando dal Badoni l'edificio del seminario i cui impianti - forni a riverbero e laminatoi per ferri mercantili - erano di sua proprietà, diventando così oltre che consulente anche fornitore del Badoni stesso. Verso la fine degli anni Cinquanta costruì una macchina a vapore per azionare il laminatoio: anche questa era una novità che suscitò molto interesse.
La sua consulenza veniva intanto richiesta per costruire turbine nello stabilimento dei Gavazzi a Bellano (Como), per installare treni lamiere in Val d'Aosta, per risolvere i problemi dell'impiego del carbon fossile nei forni a riverbero. All'inizio degli anni Sessanta, per poter meglio assolvere questi nuovi impegni (alcune proposte gli venivano dalla Savoia, dalla Francia e persino dal Belgio), lasciò la Badoni, il cui riassetto era in ogni caso avviato a compimento, e cedette al figlio (il 24 genn. 1862) la proprietà degli impianti allogati nello stabilimento di Castello. La sua attività di consulenza lo portava sempre più lontano dalla Lombardia e dall'Italia, e nel 1865 ritornava nella nativa Alsazia: aveva d'altronde conservato la nazionalità francese ed aveva sempre continuato ad usare la lingua materna. Si stabilì a Dannemarie, un villaggio non lontano da Mulhouse dove da qualche tempo era venuto ad abitare il fratello Jean Michel; dopo cinque anni divenne cittadino tedesco in seguito alla sconfitta di Sedan e all'annessione dell'Alsazia-Lorena alla Germania. Si spense, all'età di 83 anni, nel 1885; riposa nel piccolo cimitero di Dannemarie.
Il F. compì a Mulhouse gli studi secondari e il corso di ingegneria meccanica e si avvicinò alla siderurgia per sollecitazione del padre, che veniva a trovare in Italia durante le vacanze estive. Nel 1850 questi, passato a collaborare con Giuseppe Badoni, lo aveva chiamato presso di sé a Castello (Lecco), per sovraintendere ai forni a riverbero, proprio allora dotati di generatori di gas alimentati a torba: uno dei modi con cui l'industria cercava di ovviare alla mancanza di carbon fossile. Dopo tre anni il F. decise di approfondire le sue cognizioni e di conoscere gli aggiornamenti apportati in Francia alle fasi della produzione siderurgica.
Negli anni '50 infatti, con il Secondo Impero, la Francia aveva accelerato lo sviluppo delle attività manifatturiere. La produzione di ghisa, nel 1846 di 400 mila tonnellate, saliva a 884 mila nel 1860: poca cosa rispetto ai 3,83 milioni della Gran Bretagna, ma pur sempre sufficiente ad assicurare il secondo posto in Europa, prima della Germania che ne produceva 521 mila tonnellate.
Il F. restò in Francia dal 1853 al 1856, e al ritorno in Italia riprese la collaborazione con la Badoni, sperimentando nello stabilimento di Bellano il nuovo treno lamiere in rodaggio. Accudì anche insieme col padre alla gestione della ferriera di Castello, che forniva materiali di vario tipo alla stessa Badoni. Lasciarono entrambi questa società dopo qualche anno, e il 24 genn. 1862 il F. subentrava al padre nelle spettanze e gestione di Castello. Iniziava così la sua esperienza imprenditoriale.
Stabilitosi definitivamente in Italia, il 20 apr. 1863 sposò Irene Rubini, figlia di quel Giuseppe di cui il padre era stato socio nella ferriera di Dongo (Como). Il Rubini la gestiva, e da tempo sollecitava la collaborazione del F. per introdurvi i generatori di calore alimentati a torba. Dal matrimonio nacquero tre figli: Luigia nel 1865, Giorgio Enrico nel 1866 e Camilla nel 1869. Dedicatosi alla sua impresa, progettava di ampliare la fornitura di vergella ai trafilieri locali per realizzare economie di scala e ridurre i prezzi, e di approfittare dell'aumentata disponibilità di rottami che dovevano essere lavorati con i moderni laminatoi e non più con i tradizionali maglietti delle imprese artigianali. Ma la crescente domanda di lamiere grosse per navi costringeva il Badoni a ricorrere a tutte le risorse disponibili per soddisfare le richieste, sicché premeva per riavere lo stabilimento di Castello, il cui fitto era nel frattempo cresciuto. In questa situazione le insistenze del suocero a dirigere lo stabilimento di Dongo vennero finalmente accolte, e nel maggio del 1863 il F. assumeva il nuovo incarico.
Nei primi anni dell'Unità la siderurgia italiana era costretta a muoversi entro limiti angusti. La carenza di carbon fossile era un ostacolo insuperabile alla produzione di ghisa, che non arrivava alle 30 mila tonnellate annue (dovranno passare più di quarant'anni perché questo limite venga superato), mentre negli altri paesi industrializzati era già nell'ordine dei milioni di tonnellate. La produzione di ferro salì da 30 mila nel 1861 a 50 mila tonnellate nel 1871; quella di acciaio, cominciata nel 1881, arriverà a superare stabilmente le 100 mila tonnellate annue con il nuovo secolo. La mancanza di combustibile (che era nel contempo il riducente) condizionava dunque tutte le fasi del progresso siderurgico ed influiva negativamente anche sull'industria meccanica. L'attenzione dei siderurgici italiani si spostò dalla quantità alla qualità: essi cercavano di specializzarsi nelle produzioni con maggior contenuto di lavoro e a più elevato valore aggiunto.
Grandi mutamenti si preparavano o venivano a compimento, sia in Italia sia sulla scena siderurgica europea. Tra il 1859 e il 1861, a mano a mano che si realizzava il mercato unico italiano, le tariffe piemontesi del 1851 ispirate ai principi del libero scambio venivano estese alle nuove province: in Lombardia ghisa, laminati, trafilati, latta, perdevano così la protezione della tariffa austriaca. L'Italia era ancora, sostanzialmente, un paese arretrato: il suo reddito per abitante era un terzo circa di quello francese ed un quarto di quello inglese; la rete ferroviaria era di 2.000 Km contro 9.000 in Francia e 17.000 in Inghilterra. Il processo che avrebbe portato l'Italia a recuperare il divario era già cominciato nella prima metà dell'Ottocento ma ostacoli di vario tipo lo avrebbero reso particolarmente lungo e difficile.
Gli studi sulla metallurgia, fino ad allora un'attività empirica piuttosto che una scienza applicata, cominciavano a progredire e risultati si ebbero già prima che i produttori inglesi nel 1866 dessero vita all'apposito Iron and steel Institute. L'11 ag. 1856 Henry Bessmer aveva illustrato alla British Association il suo nuovo procedimento per ottenere l'acciaio, messo in crisi però dal fosforo contenuto in elevata percentuale nei minerali inglesi e francesi. Nel giugno del 1857 Charles Williarn Siemens presentava il suo regenerative principle per il ricupero del calore dei forni che consentiva elevate temperature: impiegato nell'industria vetraria, nel 1866 fu adoperato dallo stesso Siemens per produrre acciaio. Perfezionato grazie all'aggiunta di rottame nel bagno fuso, suggerita da Emile e Pierre Martin, il procedimento era molto più lento di quello di Bessmer: da sette a quindici ore per colata contro venti-trenta minuti. Ciò gli dava però il vantaggio di poter ottenere una esatta composizione chimica del prodotto. Una terza invenzione decisiva fu dovuta ad un amateur scientist inglese, Sidney Gilchrist Thomas: nel 1875 dimostrò che il rivestimento basico dei convertitori e l'aggiunta di calcare erano sufficienti per eliminare il fosforo attraverso le scorie. Questi progressi potevano trovare applicazione su scala industriale solo dove vi fosse un'ampia disponibilità di ghisa liquida, cioè nei paesi che disponendo di carbon fossile avevano potuto sviluppare gli altiforni a coke; l'unica parziale eccezione erano i forni Siemens-Martin a carica fredda che, potendo venire alimentati in buona parte con rottame, si adattavano alla situazione italiana. Queste invenzioni si risolsero quindi in un ulteriore vantaggio per i concorrenti della siderurgia italiana.
Lo stabilimento di Dongo, che nel 1863, quando il F. ne assunse la direzione, era di proprietà della Rubini e Scalini, era dotato di un altoforno a carbon di legna; di due forni a riverbero, uno per affinazione con il metodo del pudellaggio, uno per la ribollitura dei masselli; di vari laminatoi, tra i quali un treno lamiere installato nel 1858 con la consulenza dello stesso F.; di fonderie di ghisa. La società possedeva sempre la ferriera di Cardano (Varese), che forniva a Dongo masselli per l'ulteriore trasformazione. Nel decennio 1863-1873, quando il F. ne era direttore, la società non ebbe vita facile, pur essendo tra le meglio gestite: doveva fornire prodotti siderurgici a prezzi competitivi con quelli dei paesi che contavano su crescenti quantità di ghisa al coke. Si fece leva sulla qualità del prodotto (garantita dalla purezza del combustibile), sulla vicinanza al cliente, sulla flessibilità nel soddisfare particolari fabbisogni, sulla protezione geografica: cose che però andavano perdendo efficacia su mercati sempre più dominati dalle produzioni di massa. Le miniere sociali erano frazionate e l'estrazione era limitata dalla esiguità delle vene, inconveniente comune a tutta la siderurgia italiana ma nel caso della Rubini e Scalini particolarmente evidente - ne possedeva dieci in cinque Comuni diversi - tanto che il costo della ghisa arrivava a superare anche del 50% quello delle altre ferriere lombarde. Il moderno indirizzo di gestione dell'altoforno (era uno dei pochi in Italia a non essere semplicemente strumento in comproprietà fra numerosi titolari di miniere) non bastò a salvarlo: le "campagne" diventarono brevi e distanziate, lasciando progressivamente spazio alle ghise di acquisto o di importazione. L'opera innovativa del F. - che nel decennio in cui fu direttore di Dongo continuava a prestare opera di consulenza tecnica a imprese italiane e straniere - era soprattutto rivolta alle attività di trasformazione della ghisa e di lavorazione del ferro e dell'acciaio; in particolare migliorò quel treno lamiere che aveva contribuito a progettare e a costruire, rendendone più efficace la conduzione, e studiò la possibilità di installare un forno Siemens. Il progetto non fu realizzato perché nel frattempo il F. aveva lasciato la società, ritornando all'attività imprenditoriale propria.
Dopo l'Unità la siderurgia italiana aveva fatto non pochi progressi: la crescente disponibilità di rottame - che i paesi concorrenti usavano in misura ridotta - diffondeva la ribollitura e la produzione di ferro a pacchetto, due procedimenti particolarmente adatti alla situazione italiana perché consumavano poco carbone. Nel 1860 Alfredo Novello tentò di installare, senza successo, il primo convertitore Bessmer nello stabilimento di Piombino della Magona d'Italia; fu più fortunato Guido Danielli che, sempre a Piombino, impiantò il primo forno Siemens-Martin: bisognerà aspettare fino al 1885 perché il suo impiego divenga generalizzato. I vecchi ed antiquati altiforni a carbon di legna venivano spenti l'uno dopo l'altro ma la mancanza di combustibile fossile impediva la sostituzione con impianti più moderni, sicché la siderurgia italiana rimaneva in quella arretratezza tecnologica che le fece perdere la grande occasione dello sviluppo delle reti ferroviarie.
La nuova iniziativa del F. doveva tenere conto di questi vincoli, e venne infatti indirizzata verso un progetto di tipo locale: la fornitura di vergella e bordione alle numerose trafilerie lecchesi. L'industria del ferro di quest'area, la cui struttura è stata ricostruita dal Frumento (Imprese lombarde ...), costituiva quella che oggi verrebbe chiamata un'"area sistema", dove le economie di scala erano sostituite con quelle di agglomerazione e dove si realizzava una spinta divisione del lavoro. In coda al ciclo si trovavano 36 trafilerie che producevano filo e lo trasformavano in una serie di oggetti di uso comune: catene, molle, chiodi, fibbie, bacchette da ombrello, uncinetti, tele metalliche. I trafilieri producevano direttamente i taglioli con una ventina di fucine grosse azionate con ruote idrauliche di cui erano comproprietari e che usavano a tempo in ragione delle rispettive carature; li facevano ridurre in vergella dai laminatoi di Castello e di Malavedo combinando sapientemente i vantaggi della flessibilità con quelli delle economie di scala adottando, per ogni fase del processo, dimensioni aziendali adeguate alla natura dei macchinari.
Il F. si mise in società con due produttori locali, Bolis e Redaelli (il suocero non si volle unire al gruppo), ed insieme crearono la Società del laminatoio di Malavedo. Il F. introdusse la tecnica del ricupero delle fiamme perdute nel riscaldo dei taglioli per usarle nella produzione di ferro. La produzione annua del laminatoio arrivò a punte di 1.500 tonnellate; per una metà circa veniva ritirata dai Bolis e dai Redaelli, trafilatori essi stessi, per alimentare i loro impianti, la restante metà veniva commercializzata dal Falck. Questa nuova esperienza imprenditoriale del F. ebbe breve durata: a soli 51 anni il 4 sett. 1878 morì a Laorca (frazione di Lecco).
Figlia e nipote di siderurgici, la vedova Irene Rubini Falck non esitò a subentrare al marito nel laminatoio di Malavedo come socia e come cogerente, il che comportava anche il compito di commercializzare direttamente la propria parte di prodotto. Per questo non solo si recava regolarmente al mercato di Lecco, ma si spingeva anche nei più lontani centri della Brianza - dove si trovavano i produttori di chiodi - facendosi accompagnare da un carro con la merce. Alla fine del suo mandato, nel 1887, gli impianti sociali di Malavedo risultavano ingranditi e tecnicamente aggiornati.
La sua "reggenza" ebbe luogo in un periodo particolare. Nel 1880 iniziò la crisi agraria, che da un lato inserì l'economia italiana nella più generale depressione mondiale durata dal 1874 al 1896, dall'altro accelerò il passaggio dei capitali agli investimenti industriali, mentre si verificava un consistente afflusso di capitali esteri. Tra il 1881 e il 1887, secondo stime fatte proprie dal Romeo, la produzione industriale progredì del 4,6% annuo con un mutamento di composizione a favore della metallurgia e della meccanica; la rete ferroviaria si sviluppò fortemente arrivando nel 1886 a 8.342 chilometri.
In campo più propriamente siderurgico i forni Siemens-Martin lentamente si diffusero sostituendo progressivamente l'impasto di ferro vecchio e il pudellaggio. Nel 1884 venne costituita la Società degli alti forni, acciaierie e fonderie di Terni (che sarebbe ben presto diventata la più grande impresa industriale italiana) con lo scopo di produrre acciaio (usando forni Siemens-Martin, convertitori Bessmer e crogiuoli) e laminarlo in lamiere grosse per la marina militare. Nel maggio del 1886 si cominciò la laminazione delle rotaie; ben presto seguirono la produzione di acciaio e di lamiere grosse mentre il progetto di colare ghisa con altiforni a coke da installare sulla costa, a Civitavecchia, non venne realizzato. Per errori di vario tipo e a causa di valutazioni troppo ottimistiche la società entrò in crisi nel 1887.
Cominciava in quegli anni il dualismo tra la siderurgia peninsulare e quella a Nord degli Appennini. L'industria lombarda, doppiamente sfavorita dal venir meno delle materie prime tradizionali e dalla mancanza di quelle nuove, e dalla lontananza dal mare, via insostituibile per l'importazione di rottame, perdette di importanza: la sua produzione di ferro e di acciaio scese dal 23% del totale nazionale nel 1881 al 13% nel 1887, ponendosi al quarto posto dopo quella della Liguria (40%), dell'Umbria (18%), della Toscana (17%).
Bibl.: Per il quadro generale, cfr. G. Scagnetti, La siderurgia in Italia, Roma 1923; R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia, 1861-1961, Bologna 1974, passim; L. Izzo, L'industria italiana prima dell'Unità nazionale, Milano 1977, passim. Si vedano poi A. Frumento, Imprese lombarde nella storia della siderurgia ital. Il contributo dei Falck, I, Dal 1833 al 1913, Milano 1952, passim; Id., La Repubblica Cisalpina e italiana, con particolare riguardo a siderurgia, armamenti, economia (1796-1805), Milano 1985, passim; Le A.F.L. Falck hanno compiuto ottant'anni, in La Ferriera, XXXV (1986), 2, pp. I ss.; P. Cafaro, Ilprogressivo affermarsi dell'industria, in Da un sistema agricolo a un sistema industriale: il Comasco dal Settecento al Novecento, a cura di S. Zaninelli, II, La lunga trasformazione tra due crisi (1814-1880), in Annali dell'economia comasca, Como 1988, p. 151 e passim.