HUGFORD, Enrico (al secolo Ferdinando)
Ferdinando, figlio secondogenito dei cattolici inglesi Ignatius e Brigida Ractelif, nacque a Firenze il 19 apr. 1695 (Fleming, p. 106).
Il 13 marzo 1711 l'H. iniziò il noviziato nel monastero benedettino di Vallombrosa e il 28 aprile fece la sua professione di fede, prendendo il nome di Enrico (Cecchi, p. 148). Intorno al 1723 fu trasferito nel convento di S. Reparata a Marradi, dove apprese l'arte della scagliola.
Qui aveva operato Salvatore Perrier, appassionato naturalista e dilettante calligrafo, che cercò di elevare a grado artistico quell'antica pratica artigianale: dovrebbe essere lui quindi il "vecchio monaco" da cui l'H. imparò "a maneggiare la scagliola", di cui racconta Lamberto Cristiano Gori nella manoscritta Relazione dell'arte di lavorare in scagliola (Massinelli, p. 256).
Secondo le antiche fonti (Serie…) in questi anni l'H. fu impegnato nei restauri della cappella Sassetti in S. Trinita a Firenze.
Nel 1731 si stabilì nell'abbazia di Vallombrosa, dove iniziò a lavorare la scagliola a perfetta imitazione del commesso in pietre dure.
Quattro suoi Paesaggi in scagliola furono esposti nel 1737 alla mostra organizzata dall'Accademia nel chiostro della Ss. Annunziata (Borroni Salvadori, pp. 40, 95); mentre in data imprecisata, ma probabilmente in questi anni, l'H. fu trasferito al monastero di S. Pancrazio vicino a Firenze, dove ebbe l'incarico del magistero dei novizi. Nel dicembre 1742 è documentato un suo ritorno a Vallombrosa (Cecchi, p. 153) insieme con il fratello minore Ignazio.
Secondo Fleming (p. 106), l'H. nel 1743 fu eletto abate di Vallombrosa, come successore di padre Bruno Tozzi; tuttavia la notizia è smentita dai documenti secondo i quali era allora abate, dal 1742 e per quattro anni, Ignazio Maria Burlini (Cecchi, p. 153).
Intorno al 1745, a integrare il pagamento di 100 scudi per le tele dipinte nel refettorio del monastero, l'H. fece dono al fratello Ignazio di alcune sue scagliole, che evidentemente cominciavano ad avere una discreta quotazione di mercato. Ne dà conferma uno scambio di lettere del 1747-48 tra Horace Walpole e Horace Mann sulla commissione all'H. di una coppia di piani tavola (Walpole, III-IV): per quanto l'informazione non specifichi il destinatario, è possibile che si trattasse degli stessi tavoli firmati dall'H. e oggi conservati nella Long Gallery a Penshurst (Massinelli, p. 26).
L'industrioso monaco aveva in effetti saputo ampliare notevolmente le potenzialità espressive della scagliola, facendone una sorta di "altra" pittura - "durevole, lucida ed elegante" come ricordava l'Osservatore fiorentino del 1821 (Tongiorgi Tomasi - Tosi, p. 92) - con cui raffigurare i soggetti allora di moda: vedute, marine, fiori, animali, scene di genere, architetture, ma anche ritratti, storie di santi e di beati benedettini.
Entro l'agosto del 1749 decorò con formelle in scagliola il nuovo altare della chiesa di S. Fedele a Poppi, destinato a ospitare la salma del beato vallombrosano Torello (Sala, p. 232). L'anno seguente l'H. commissionò ad Antonio Cioci la splendida incisione in quattro rami con la Veduta di Vallombrosa.
Nel 1753 ottenne il trasferimento al più quieto romitorio delle Celle a Vallombrosa, il cosiddetto Paradisino.
Qui lavorò indefesso e in solitudine a perfezionare la tecnica della scagliola, creando opere che furono presto conosciute e molto apprezzate da viaggiatori e collezionisti stranieri, soprattutto inglesi.
Nell'aprile del 1754, per rinnovare la decorazione del coro della chiesa abbaziale di Vallombrosa, furono realizzati nuovi medaglioni in pietra serena, ornati di testine e fogliami in marmo e frammezzati di scagliole di mano dell'H., che si occupò anche del restauro dei quadri e del rifacimento delle loro cornici (Cecchi, pp. 153, 155). L'anno successivo realizzò due scagliole di dimensioni ragguardevoli, raffiguranti la Veduta di Castel Sant'Angelo e la Veduta del Quirinale, entrambe firmate e datate (Firenze, collezione Bianchi).
Più che dai disegni eseguiti dal fratello Ignazio nel corso del soggiorno romano del 1750, è plausibile che in questo caso l'H. abbia trovato ispirazione nel prezioso fondo di stampe allora esistente nel monastero, disperso nella soppressione del 1799, dove era conservata un'incisione di Stefano Della Bella da cui fu puntualmente desunta la veduta di Castel Sant'Angelo (Massinelli, p. 28).
Nel 1757 lavorò per la cappella dei Dieci beati a Vallombrosa, fatta erigere dall'abate Antonio Frediano Chiocciolini e alla cui decorazione partecipò anche Ignazio dipingendo una tela per il coro: entro il 30 ottobre l'H. realizzò in elegante scagliola le colonne dell'altare con capitelli corinzi e per l'arredo fornì sei candelieri e la base della croce, tutti in scagliola intonata sul rosso macchiato (Visonà, p. 219). Nello stesso anno il suo allievo Lamberto Cristiano Gori, che si trovava allora a Vallombrosa, ritrasse l'H. in un disegno, poi inciso da Ferdinando Gregori per la Vita del beato Michele Flammini di Giuseppe Maria Brocchi (1761), impreziosito da una lunga dedica in latino che celebrava il monaco quale "egregius artifex et inventor" dell'arte della scagliola.
Nell'agosto 1759 l'H. ebbe l'incarico di restaurare il romitorio delle Celle, "quale col suo disegno ampliò e abbellì di due altari" (Supplemento…, col. 803). Probabilmente fu in questa occasione che egli sostituì con un ciborio un'Annunciazione di Andrea del Sarto, ora perduta, che stava sull'altare della chiesa del romitorio (Cecchi, pp. 124 s.).
Nel dicembre del 1766 una sua scagliola raffigurante l'eremita vallombrosano Beato Torello, finora non rintracciata, fu inviata dal padre generale Bonifacio Maccioni alla granduchessa Maria Luisa di Borbone (Tosi, pp. 278 s.). Nel giugno dell'anno successivo il fratello Ignazio, ormai personaggio di punta nel milieu artistico fiorentino, espose alla mostra della Ss. Annunziata due Vedute in scagliola (non identificabili) del fratello monaco.
Al massimo della notorietà, il 6 luglio 1767 l'H. ricevette nella sua cella al Paradisino la visita del granduca Pietro Leopoldo di Toscana: in cambio della cortesia, "the original friar", come lo definiva Walpole (III, p. 430), lo omaggiò di una scagliola raffigurante S. Giovanni Gualberto in adorazione della Croce (Firenze, Museo degli argenti).
Nel gennaio del 1771 l'H. fu chiamato a Firenze da Ignazio, quasi impossibilitato a muoversi per l'artrite. Ammalatosi egli stesso, morì il 1° febbr. 1771 (Fleming, p. 107).
La fama internazionale della sua virtuosa maestria gli sopravvisse: nello stesso anno una sua scagliola con Prospettiva di mare, ora dispersa, fu donata al papa Clemente XIV da monsignore Cesare Massa Salazzo di Tortona e collocata nel Museo Vaticano; nel 1779 Giuseppe Bencivenni Pelli, per incarico del granduca Giuseppe, acquistò dagli eredi di Ignazio quattro Paesaggi dell'H., due dei quali sono oggi conservati al Museo dell'Opificio delle pietre dure a Firenze e un terzo con Veduta di Porto a Palazzo Pitti (Giusti, pp. 348 s.). Accanto alle scagliole citate, sono da ricordare le venti ancora oggi nell'abbazia di Vallombrosa, che si possono dividere in due nuclei tematici: una serie di sette episodi ispirata alla Vita di santi e monaci dell'Ordine, un'altra di dieci Vedute e paesaggi; a queste si aggiungono due Nature morte di fiori e il Ritratto dell'abate Pietro Migliorotti, per il quale l'H. si avvalse di un'incisione di Girolamo Frezza. Spesso alla base delle soluzioni compositive e stilistiche di questi quadretti stavano i disegni di Anton Domenico Gabbiani posseduti dal fratello Ignazio; ma l'H. guardò pure alla produzione grafica di Remigio Cantagallina, di Ercole Bazzicaluva e di Stefano Della Bella, senza contare le celebri Vedute delle ville e d'altri luoghi della Toscana di Giuseppe Zocchi, edite nel 1744, che per tutto il secolo funzionarono come modelli. L'affollamento delle citazioni si risolve però spesso in composizioni non del tutto equilibrate, in cui i piani prospettici non sono chiaramente distinguibili. Il sapore di una lettura quasi naïve del paesaggismo sei-settecentesco si accresce negli episodi della vita dei monaci, dove però l'ambientazione di maniera, arricchita da inserti di rovinismo, si riscatta per la freschezza naturalistica nella rappresentazione di azioni e gesti quotidiani. Nelle Vedute di porto con figure turchesche spicca invece la costruzione architettonica, con i marmi in perfetto trompe-l'oeil. Il gioco prospettico dei basamenti marmorei è il tema dei due quadretti con vasi di fiori, qui esaltato dallo sfondo nero intenso e lucido, la cui essenzialità richiama le decorazioni grafiche dei manoscritti di Vallombrosa, fin dal Seicento centro vivissimo di studi naturalistici, per quanto lo spunto di partenza rimangano i florilegi dei naturamortisti fiamminghi, come le incisioni di Jan Sädeler. Sugli insegnamenti dell'H., si creò a Vallombrosa una fiorente scuola dell'arte della scagliola, destinata a notevole fortuna tra i collezionisti e i naturalisti del tempo, con gli allievi Pietro Belloni, Torello Mannini e Gori.
Fonti e Bibl.: Oltre alle indicazioni fornite nella biografia del fratello Ignazio Enrico si veda: Serie degli uomini i più illustri nella pittura, scultura e architettura, III, Firenze 1770, p. 45; Supplemento alla Serie…, ibid. 1776, coll. 802-805; H. Walpole, Correspondence with sir Horace Mann, a cura di W.S. Lewis, New Haven 1954-60, I, pp. 36, 41, 58, 123, 199 s., 482; II, pp. 87, 89, 106, 214; III, pp. 423, 427, 430, 510; IV, pp. 23, 88, 93; T. Sala, Diz. storico biografico di scrittori, letterati ed artisti dell'Ordine di Vallombrosa, I, Firenze 1929, pp. 144, 232, 306-309; J. Fleming, The Hugfords of Florence, in The Connoisseur, CXXXVI (1955), pp. 106-110, 196; M. Webster, in Firenze e l'Inghilterra. Rapporti artistici e culturali dal XVI al XX secolo (catal.), Firenze 1971, nn. 122-125, 180; R.N. Vasaturo - G. Morozzi - G. Marchini, Vallombrosa nel IX centenario della morte del fondatore Giovanni Gualberto 12 luglio 1073, Firenze 1973, pp. 20 n. 94, 171; F. Borroni Salvadori, Le esposizioni d'arte a Firenze dal 1674 al 1767, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, XVIII (1974), pp. 27 n. 115, 32 s., 39 s., 42 s., 49 s., 68, 95, 150; A.M. Giusti, in Il Museo dell'Opificio delle pietre dure a Firenze, a cura di A.M. Giusti - P. Mazzoni - A. Pampaloni Martelli, Firenze 1978, pp. 39, 343, 348-352; L. Tongiorgi Tomasi - A. Tosi, E. H. e la "Galleria della scagliola" a Vallombrosa, in Artista, III (1991), pp. 90-103 (con bibl. precedente); J. Cook, Masters of the art of scagliola, in Country Life, XXIX (1994), pp. 84-87; A.M. Massinelli, Scagliola: l'arte della pietra di luna, Roma 1997, pp. 24-29, 31-36, 49, 141, 213, 250-253, 257 s., 261-264; P. Spotorno, Monaci e vita monastica a Vallombrosa nei secoli XV-XIX, in Vallombrosa: santo e meraviglioso luogo, a cura di R.P. Ciardi, Pisa 1999, pp. 18, 22; A. Cecchi, La pittura a Vallombrosa dal Quattrocento al Cinquecento, ibid., pp. 124 s., 148, 151, 153, 155, 169, 175, 186; M. Visonà, La cappella dei Dieci beati vallombrosani, ibid., pp. 210, 213, 216-222; A. Tosi, "Vallis ego memor umbrosae", ibid., pp. 275-279, 286-288, 298, 302, 315; S. Rolfi, Gori, Lamberto Cristiano, in Diz. biogr. degli Italiani, LVIII, Roma 2002, pp. 36 s.; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XVIII, pp. 80 s.