ENRICO III re di Francia
Figlio di Enrico II e di Caterina de' Medici, ultimo re della stirpe dei Valois, nacque il 19 settembre 1551. L'ingegno penetrante, la vasta cultura, la parola calda e illuminata dal fine sorriso gli procurarono forti simpatie. Ma, circondato, adulato dalle dame di corte, si effeminò, senza però perdere la grande ambizione, alimentata dalla madre che sognava per il prediletto figlio, allora solo duca di Angiò, una corona illustre quanto quella di Francia. Cominciò presto a guerreggiare: dopo la battaglia di Saint-Denis (10 novembre 1567), ebbe infatti il comando dell'armata contro gli ugonotti, sotto la tutela dei duchi di Nemours e di Montpensier e del maresciallo di Cossé. Prese parte alla battaglia di Jarnac (13 marzo 1569), nella quale cadde il Condé; poi, il 3 ottobre 1569, mentre su Parigi incombeva la minaccia della marcia dei calvinisti, a Moncontour strappava un notevole successo. Ma la rivalità fra il re e il fratello si fece adesso più grave e distrusse i frutti di Moncontour. Quando il Coligny fu guarito, il partito calvinista sembrò risorgere dalle ceneri; e il vincitore di Moncontour riconobbe l'editto di Saint-Germain (8 agosto 1570) che concedeva agli eretici la libertà di coscienza in tutto il regno e la libertà di culto in alcuni luoghi. Gli è che Caterina lavorava per una lega tra Francia e Inghilterra contro la Spagna, sotto forma di matrimonio tra Elisabetta e il duca d'Angiò. Così il prediletto Enrico sarebbe diventato un potente monarca e i due re Valois, alleati coi protestanti della Germania, avrebbero avuto nell'impero maggiore potenza della casa d'Austria. Ma Elisabetta non poteva conciliare il cattolicismo del pretendente con l'intransigenza degl'Inglesi, e così il progetto naufragò. E invece dell'accordo con l'eretica Elisabetta, si ebbe nel 1572 la strage della notte di San Bartolomeo, di cui E., insieme con la madre e con alcuni pochi cortigiani, fu il promotore. A lui anzi toccò, subito dopo, il compito d'investire la Rochelle: ma dovette lasciare l'impresa, perché chiamato al trono di Polonia. Contro gli altri due candidati al trono polacco, Ivan il Terribile e l'arciduca Ernesto, l'uno antipatico come barbaro, l'altro come appartenente ad una dinastia di despoti, Enrico presentava la possibilità di un'intesa col Turco e della formazione di una flotta nazionale nel Baltico. Ma egli dovette accettare restrizioni all'autorità regia, giurare di "mantenere e difendere la pace fra le diverse religioni" e di riabilitare le vittime della notte di San Bartolomeo. Il 24 giugno firmò le condizioni di pace con i difensori della Rochelle: la libertà di coscienza era concessa a tutti i protestanti e quella di culto limitata alla Rochelle, a Nîmes, a Montauban. Poi lasciò la Francia. Ma pochi mesi tenne la corona di Polonia, ché, il 30 maggio 1574, moriva Carlo IX; e, nella notte dal 18 al 19 giugno, Enrico, eludendo la vigilanza dei sudditi, lasciò la Polonia. Le accoglienze di Venezia rivelavano le speranze che la penisola, già stanca del giogo spagnolo, riponeva nel nuovo re di Francia; ma a Venezia Ennco non vide che bellezze e delizie, che bruciavano il suo animo cupido di sensazioni e di piaceri. S'indugiò in Italia, mentre Damville realizzava l'unione tra i politici e i protestanti, basata sull'esercizio libero e intero delle due religioni, e lasciò passare il momento giusto per imporre la sua volontà. Non capì che nel colloquio di Torino con Damville si sarebbe dovuto concretare la soluzione di una pericolosa situazione. Quando giunse in Francia, non capì nulla della violenta opposizione al governo di Caterina. Approvò, anzi, il piano di governo di sua madre e accentuò il carattere assoluto della monarchia. Si circondò di una clientela, la cui devozione era procurata con favoritismi e, sotto la direzione della madre, si allontanò dalla politica di conciliazione. Ma l'unione dei cattolici associati e dei protestanti rispose organizzando il governo delle provincie del sud e del centro. In questa umiliazione del potere sovrano, il re celebrò a Reims il suo matrimonio con Luisa di Vaudémont, lorenese, che gli costò la cessione dei suoi diritti di sovranità sul ducato di Bar allo zio della sposa (14 febbraio 1575). Credeva facile ottenere la pace. Ma gli associati ponevano a base della pacificazione l'editto di gennaio. La guerra continuò. La monarchia, sotto la minaccia del congiungimento delle armi straniere coi ribelli condotti dall'erede presuntivo, subì le condizioni del nemico. Enrico deplorò la strage della notte di San Bartolomeo, ne riabilitò le vittime, concesse ai protestanti l'esercizio del culto "senza restrizione di tempo e di persona" e otto piazze di sicurezza; a Francesco d'Alencon diede in appannaggio l'Anjou, la Touraine e il Berry (editto di Beaulieu, 6 maggio 1576).
L'impotenza del re era manifesta. Le masse cattoliche si diedero a organizzare l'unione di tutti i fedeli lealisti, ma la Lega di Peronne divenne strumento formidabile nelle mani di Enrico di Guisa, in cui l'ambizione si mescolava col fanatismo, tanto che i calvinisti diffusero la voce che il duca di Guisa mirasse a detronizzare i Valois. Enrico III credette utile servirsi delle forze della Lega e farsene capo. Esitava, tuttavia, a dichiarare la guerra agli eretici. Finalmente, il 29 dicembre, nel consiglio dichiarò di voler ristabilire l'unità religiosa. Negli stati di Blois nobiltà e clero si pronunciarono per l'unità; e il Terzo stato finì con l'essere trascinato. I primi due ordini dimostrarono un concetto eccessivo della loro autorità, chiedendo che le deliberazioni degli Stati avessero valore di leggi. Enrico non cedette; ma dovette elemosinare con le lagrime agli occhi il denaro. Il Terzo stato strepitava che aveva chiesto l'unità religiosa e non la guerra; il re dichiarò che, essendogli stati negati i mezzi per agire, rinunciava a stabilire l'unità della fede. Gli è che più che i protestanti temeva, ora, il duca di Guisa. Perciò l'editto di Poitiers, che confermava il trattato di Bergerac (17 settembre 1577), scioglieva tutte le leghe: protestanti e cattoliche.
Ma il paese non ebbe la pace. Il duca d'Angiò era fuggito nel suo appannaggio di Angers; il Mezzogiorno era in piena anarchia; Bellegarde tesseva intrighi col duca di Savoia e, alla fine, invadeva il marchesato di Saluzzo; Enrico di Navarra s'impadroniva di La Fère e di Cahors. L'effeminatezza del re, la sua intimità coi mignons, la creazione di una vera e propria clientela; la pressione tributaria, la corruzione degli ordini, i soprusi della guardia del corpo che distruggeva perfino gli ospedali della stessa città di Parigi; i grandi doni ai favoriti, l'annichilimento del commercio, tutto rivelava sfacelo nell'organismo statale. Le cose si complicarono ancora, quando, morto l'erede presuntivo, duca d'Angiò nel giugno 1584 si presentò alla ribalta della vita francese Enrico di Navarra. I cattolici opposero all'eretico il duca di Guisa; e il 31 dicembre 1584 due ambasciatori del re di Spagna, il rappresentante del cardinale di Borbone, del duca di Guisa e del duca di Mayenne concludevano il trattato segreto di Joinville per la formazione di una "Sainte Ligue offensive et défensive perpetuelle". A Parigi e nelle provincie le leghe furono organizzate in segreto dalla media borghesia. Col manifesto di Peronne fu sferrato l'attacco contro Enrico III, accusato di favorire i protestanti. Il re rispose vantando il suo zelo religioso, rinfacciando ai tre Stati di non avergli permesso la guerra all'eresia col negargli i sussidî e affermando che la decisione della successione non si doveva avere con la guerra. Ma la Lega iniziò le insurrezioni. Il 19 luglio 1585 il re ponendo in esecuzione il trattato di Nemours (7 luglio 1585) vietò il culto protestante, ordinò ai suoi ministri di lasciare subito il regno e ai semplici fedeli riformati di passare al cattolicismo o di lasciare il paese; e ottenne da Sisto V la bolla (9 settembre 1585) che dichiarava Enrico di Navarra e il Condé decaduti, come eretici. Ma egli era deciso ad impedire ai Guisa di segnalarsi nella guerra: così, preso tra due opposte forze, la paura che la Lega gl'imponesse la lotta contro il Navarrese, e il timore dello strapotere dei Guisa, prima concluse una tregua col nemico; poi riprese la guerra, con la speranza che da essa uscisse la fine del Guisa. Ma il Guisa riportò il successo di Auneau ed Enrico fu accusato di aver impedito la vittoria decisiva. I leghisti stabilirono una nuova formula di giuramento, che condizionava l'obbedienza al re solo nel caso che si mostrasse cattolico. Contro il divieto di Enrico III, il Guisa giunse a Parigi. Era il momento di agire, ma Enrico III ebbe paura, e il Guisa divenne più provocante. A Parigi si venne alle barricate (12 maggio 1588). I leghisti miravano al Louvre per prendere "ce bougre de roi" e il re fuggì, inseguito dall'oltraggio del trionfatore. Finalmente, agli Stati generali di Blois, pieni di ardenti deputati, ebbe momenti di energica reazione: "Io sono il vostro re datovi da Dio e sono il solo che possa veramente e legittimamente dirlo". E dichiarò netto che in avvenire non avrebbe più permesso la Lega nel suo regno. Ma poi giurò fedeltà all'editto dell'Unione. La riconciliazione fu effimera. Enrico diffidava; gli Stati generali lo umiliavano spietatamente quando chiedeva sussidî per la guerra; le dimissioni del Guisa da luogotenente generale gli sembrarono minaccia. E volle la strage del pretendente e di suo fratello, che fu eseguita a Blois. Ma Parigi, fomentata dai predicatori, insorse per vendicare gli assassinati. La Sorbonne deliberò che i sudditi erano liberi dal giuramento di fedeltà al re. Boucher iniziò il suo "De iusta Henrici tercii abdicatione" per dimostrare che la Chiesa e il popolo avevano il diritto di deporre Enrico III, spergiuro, sacrilego; quando giunse la notizia dell'accordo tra Enrico III e il re di Navarra e della marcia vittoriosa dei due sovrani su Parigi, il re venne decapitato in effige. Da questa folla di esaltati e di fanatici uscì un frate di 22 anni, Jacques Clément (v.) che pugnalò Enrico III (1° agosto 1589). Prima di morire, il re ebbe il tempo di abbracciare Enrico di Navarra e di nominarlo successore, dopo averlo impegnato a farsi cattolico.
Bibl.: P. v. Dyke, Catherine de Médicis, voll. 2, Londra-New York, 1822; H. Mariéjol, Catherine de Médicis, 2ª ed., Parigi 1920; F. Rocquain, La France et Rome pendant les guerres de religion, Parigi 1923; Duc de Noailles, Henri de Valois et la Pologne en 1572, voll. 3, Parigi 1867; G. Picot, Histoire des Étas généraux, III, Parigi 1888; H. de l'Epinois, La Ligue et les papes, Parigi 1886; M. Hume, Philippe II of Spain, Londra 1897; I. Raulich, Storia di Carlo Emanuele I duca di Savoia, Milano 1896; J. H. Mariéjol, La Réforme et la Ligue, in Lavisse, Histoire de France, VI, Parigi 1904.