ENRICO IV re di Francia
Nacque a Pau il 14 dicembre 1553 da Antonio di Borbone (v.) e da Giovanna d'Albret (v.). La morte immatura del padre (1562) lo fece a nove anni capo della casa di Borbone e primo principe del sangue. Divenne alla morte della madre (1572) sovrano del regno di Navarra, della contea di Foix e degli altri stati della casa d'Albret. La morte dell'ultimo figlio di Enrico II, Francesco duca d'Angiò (10 giugno 1584), lo fece erede presuntivo della corona. Enrico III lo riconobbe solennemente, al letto di morte, per successore (1° agosto 1589). Regnò fino al 14 maggio 1610. È il fondatore della dinastia dei Borboni.
La sua vita si può dividere in quattro periodi. Fino al 1576 egli resta un semplice ostaggio nelle mani di Caterina de' Medici. La sua duplice qualità di principe del sangue e di erede della Navarra, i precedenti politico-religiosi della sua famiglia che lo disponevano a divenire il capo naturale degli ugonotti del sud, rendevano necessario da parte della corte di Francia un controllo diretto su lui e naturale il progetto di servirsene come pegno o come strumento nella lotta sempre più aspra tra i Borboni e i Guisa. Nel 1567, divenuti manifesti i prodromi di una nuova conflagrazione religiosa, Giovanna d'Albret riesce con l'astuzia a impadronirsi del figlio e a portarlo con sé nel Béarn: il 26 settembre 1568 lo accompagnava ella stessa a la Rochelle presso l'esercito dei principi, e, caduto il Condé nella giornata di Jarnac, gli faceva pronunziare dinanzi alle truppe, come nuovo capo, il giuramento solenne di fedeltà alla causa. Ma Caterina seppe ricondurre il principe nei lacci della corte col mezzo di un matrimonio non rifiutabile: con sua figlia Margherita. Le nozze furono celebrate il 17 agosto 1572. Sette giorni dopo avveniva la strage della notte di S. Bartolomeo. I numerosi gentiluomini ugonotti che il re di Navarra aveva condotti al suo matrimonio furono uccisi; pare che egli sia stato avvisato da Carlo IX e da lui trattenuto nei suoi appartamenti fino al mattino. Dovette abiurare (26 settembre). Fu costretto a firmare come sovrano del Béarn degli editti contro il culto protestante (10 ottobre) e a partecipare alla spedizione dell'allora duca d'Angiò contro la Rochelle (febbraio-luglio 1573). La sorveglianza su di lui si venne facendo sempre più rigorosa, specie quando lo si vide partecipare ai piani di evasione dell'allora duca d'Alençon, tenuto da Caterina in una cattività della stessa natura. Dopo l'infelice cospirazione di La Mole e Cocconato (aprile 1574), alle finestre dei suoi appartamenti vennero apposte delle inferriate. Poté fuggire quella corte tragica, popolata di spie, di sicarî, di avventurieri, ove si portava il giaco sotto le vesti brillanti, solo nel febbraio 1576. La situazione era allora tale da stimolare a un atto decisivo di audacia. Imponenti forze straniere, agli ordini del Condé e dell'Elettore Palatino, avevano passato la Mosa e il duca d'Alençon, fuggito fin dal settembre 1575, era pronto a congiungersi con l'invasore. Si era certo alla vigilia di avvenimenti importanti ed era necessario non lasciarsi escludere dal patto che li avrebbe conclusi.
Il secondo periodo (1576-1584) è un periodo di preparazione e di attesa. Conquistata la libertà personale, il giovane E. cerca di procurarsi le forze materiali che gli mancano per difendere la propria vita e il proprio avvenire. L'editto di pacificazione di Beaulieu (maggio 1576) conteneva la conferma della sua carica di governatore della Guienna, carica già tenuta dal padre e già trasmessagli nominalmente dopo la morte di lui. Di quel governatorato, che arrotondava i possessi di cui era già sovrano, egli seppe fare una vera e propria signoria indipendente, spezzando gl'intralci creatigli dalla corte. La cosiddetta "guerra degl'innamorati" (1580), iniziata con la brillante presa di Cahors (29 maggio), fu assai probabilmente un colpo di forza per scuotere il giogo del maresciallo di Biron, postogli al fianco da Caterina come luogotenente generale per sorvegliarlo e minarne il prestigio. Probabile erede della corona, si valse della sua opera di governatore - restauratrice della tolleranza, dell'autorità, della disciplina - per dare un'idea di ciò che sarebbe stata la sua opera di re di Francia e crearsi una larga base di popolarità e di amicizie. Mirò soprattutto a conquistarsi un partito, e un partito armato; cioè, visto che il partito cattolico era già accaparrato dai Guisa, a mettersi alla testa del partito ugonotto (ritornò ufficialmente al calvinismo il 13 giugno 1576). Riuscì nell'impresa, nonostante la tenace opposizione del Condé, salito al primo posto durante la sua cattività parigina, e nonostante la diffidenza che ispiravano la sua tepidità tollerante e il suo visibile intento di raccogliere sotto la sua bandiera anche i cattolici. Benché la sua parola restasse di prudenza e di pace, finì col suonare come quella di un capo. Fu lui a tentare presso gli Stati di Blois (1576) un passo moderatore; la sesta guerra di religione fu grazie a lui in Guienna meno aspra che altrove; la pace di Bergerac (17 settembre 1577) è in molta parte opera sua. Il suo prestigio di patrono si estende e nel 1581 può convocare una assemblea delle chiese a Montauban. La cancelleria della piccola corte di Nérac lo presenta e lo difende come capo presso le potenze protestanti. Il suo ascendente è consolidato dal fatto che, largo e conciliante nelle questioni confessionali, è intransigente per l'esistenza pratica del partito, cioè quanto alle "places de sûreté".
Il terzo periodo (1584-1594) è quello della vera e propria guerra tra E. e la Lega. La morte del duca d'Angiò e di Enrico III hanno precipitato verso la crisi finale il tremendo dissidio che da trent'anni divideva la Francia e hanno messo a nudo ciò che v'era d'insostenibile nella situazione di Enrico IV. Necessità vitali, e tra le altre quella di non lasciarsi sopraffare dai Guisa, avevano fatto di E. un capo ugonotto; ora, a parte il conflitto dinastico, la grande maggioranza del regno non si sapeva e non si poteva adattare all'idea di un re non cattolico. E. era convinto anche lui che fosse necessaria la conversione e in ogni tempo lasciò capire, sia pure con la dovuta circospezione, di esservi, in fondo, disposto (lettera agli Stati di Blois nel 1588; dichiarazione di Saint-Cloud del 4 agosto 1589). Ma si rendeva conto pure della situazione nel suo complesso, delle cupidige concrete dei Guisa, degl'interessi internazionali impegnati nella lotta; capiva che un partito protestante quale egli se lo era plasmato era necessario alla Francia perché gli stati protestanti contribuissero a salvarla dalle ambizioni fanatiche di Filippo II; era necessario a lui, perché esse, per salvarsi, gli salvassero il trono. Finché la Lega era in piedi in tutta la sua potenza, l'abiura, facendogli perdere le sole forze che si era faticosamente procacciate, avrebbe solo giovato ai nemici. E. restò dunque ugonotto. Egli condusse la lotta con lucidità di visione e con coerenza di piani, evitando finché visse Enrico III, anche quando questi era uno strumento dei Guisa contro di lui, di apparire un ribelle alla monarchia, mantenendo fino all'ultimo al conflitto il carattere di difesa della monarchia legittima, della Francia tradizionale, contro gli attentati di una fazione al soldo dello straniero. La lotta fu lunga e terribile. E. datava la sua prima canizie dal trattato di Nemours (7 luglio 1585), con cui Enrico III, sotto la pressione dei Guisa, dava ai protestanti sei mesi di tempo per convertirsi o lasciare il regno. I momenti di quella gravità furono molti. Il 9 settembre 1585 era pubblicata in Francia la bolla papale che lo scomunicava e dichiarava decaduto da ogni diritto alla successione. Nel 1586 la sua provincia fu invasa contemporaneamente da tre eserciti. Alla morte di Enrico III si vide abbandonato dalla metà delle truppe. Gli crearono un anti-re: suo zio, il cardinale di Borbone. Due volte è costretto a levare l'assedio d'intorno a Parigi; due volte il talento strategico del duca di Parma ha ragione delle sue qualità esclusivamente soldatesche. Ma egli non si lasciò abbattere da nessun disastro. Seppe aumentare il proprio prestigio e accrescere le file dei suoi partigiani con brillanti vittorie militari dovute per molta parte alla sua bravura personale: Coutras (20 ottobre 1587), Arques (21 settembre 1589), Ivry (14 marzo 1590). Riuscì a strappare degli aiuti all'Inghilterra. Venne intensificando la propaganda interna e l'attività diplomatica. Sfruttò gli errori degli avversarî. Lasciò, grazie all'inflessibile resistenza, che per lui lavorasse il tempo (preziose gli furono, tra l'altro, le morti del Joyeuse, del duca di Guisa, dello stesso Enrico III, del Condé, ecc.) e che agissero i germi di disgregazione che la Lega portava nel suo seno: le sue divisioni interne, gli eccessi rivoluzionarî del comitato di Parigi, la reazione nazionale e gallicana, l'indignazime provocata dall'impudente avidità della Spagna. Gli giovarono la stessa lunghezza del conflitto, le enormi rovine da esso prodotte, accrescendo sempre di più il numero dei politici. Riuscì ad ottenere che l'opinione pubblica associasse insensibilmente il suo nome all'idea, sempre più assillante, della pace. Quando vide che la Lega era al declino e che Filippo II, troppo incerto ormai sui vantaggi che potesse trarne, le riflutava danaro e soldati, quando il crescere delle diserzioni lo avvertì dello sfacelo della parte avversa, si decise all'abiura (2 luglio 1593) per accelerarne il dissolvimento. Si sentiva vincitore. Il 22 marzo 1594 entrava in Parigi.
Il quarto periodo (1594-1610) è quello del suo regno vero e proprio: periodo di mirabile attività per completare e organizzare la pace interna, per cacciare lo straniero, per ristabilire l'autorità monarchica, per ridare alle forze produttive della nazione il loro ritmo normale, per collocare la Francia al suo antico posto in Europa. Conquistata Parigi, procedé alla riconquista del resto del regno: col denaro, con le pensioni, coi posti, con le armi. La lotta contro le ultime resistenze ligueuses prende allora il suo vero carattere di offensiva contro la Spagna (1595-7): il vittorioso attacco di Fontaine-Française (ove E. attaccò con soli 300 uomini un corpo di 1200 cavalieri), la ripresa di Amiens (25 settembre 1597) confermano brillantemente la sua reputazione di re soldato e conducono alla pace di Vervins (5 maggio 1598) che segna la liberazione del territorio. Un'azione vittoriosa contro Carlo Emanuele I (1600) aggiunge al regno i territorî della Bresse, del Bugey, di Valmorey e di Gex. Nel suo lavoro di ricostruzione E. è guidato dallo stesso concetto di unità, statale e nazionale, che ha sorretto i migliori dei suoi partigiani durante le lotte civili. Ha l'intelligenza - rara in quel tempo - di non credere indispensabile all'unità nazionale l'unità della fede e con l'editto di Nantes (13 agosto 1598) garantisce agli antichi compagni libertà di coscienza e di culto; ma proibisce loro di darsi un vero e proprio capo, fa capir loro che ha vinto la monarchia e non il partito. Poco mutò all'organismo amministrativo, giudiziario, finanziario, militare della Francia: gli bastò di rimettere in moto, grazie alla sua personale energia e a quella dei suoi collaboratori, del Sully soprattutto, il sapiente congegno delle istituzioni monarchiche già esistenti. Si preoccupò soprattutto della disastrosa situazione finanziaria e riuscì in un tempo relativamente breve a porvi rimedio. Si mostrò praticamente avverso agli Stati generali, ai parlamenti, a tutto ciò che potesse limitare la volontà del sovrano. Di maniere familiari, d'indole allegra e chiassosa, abituato, da una dura esperienza, alla dissimulazione, profondo conoscitore degli uomini, egli si sforzò di apparire, anche sul trono di Francia, quello che era stato in Guienna: il buon gentiluomo rurale che amministra paternamente il suo feudo. In realtà egli riprese il programma di assolutismo integrale di Luigi XI, di Francesco I, di Caterina de' Medici. Ne ripeté anche senza scrupoli le costose follie. Le provvidenze ch'egli adottò per l'industria, per l'agricoltura, per il commercio, rientrano nella sua politica di risanamento finanziario, politica che è stata nel suo complesso di una crudezza spietata. Dei Valois pare abbia ripreso anche il sogno imperiale. Gli è attribuito un grande disegno: quello di creare una specie di Stati Uniti d'Europa, tale che risultasse impossibile l'egemonia della casa d'Austria. Certo tentò, tra l'altro, di condurre sotto la direzione della Francia i varî stati della Germania protestante. Nel febbraio 1610 riusciva ad associare alle rivendicazioni francesi circa la successione di Clèves e Juliers una parte dei principi tedeschi. L'intervento della Francia in quella faccenda significava la guerra all'impero, e mostrava in Enrico IV propositi di politica estera più che arditi. Il coltello d'un pazzo, Ravaillac, lo colpì a morte quando stava forse per rivelarsi in lui una nuova e più potente personalità.
Non avendo avuto figli da Margherita di Valois e desiderando avere degli eredi diretti, E. IV fece riconoscere nullo dal papa il suo primo matrimonio e sposò nel 1600 Maria de' Medici, nipote del granduca di Toscana, da cui ebbe tre figli (Luigi, il futuro Luigi XIII: Nicola, morto a 4 anni; Gian Battista Gastone, il futuro duca d'Orléans) e tre figlie (Elisabetta, che fu moglie di Filippo IV re di Spagna; Cristina, che sposò Vittorio Amedeo I duca di Savoia; Enrichetta, che sposò Carlo I re d'Inghilterra). Parecchi figli egli ebbe pure dalle numerose sue amanti. Ché fu uomo di vivissima, morbosa carnalità, degno del soprannome di Vert Galant con cui è rimasto nella tradizione. Tra le sue amanti meritano particolare menzione la contessa di Guiche, Gabriella d'Estrées, Enrichetta d'Entraigues, Jacqueline de Bueil. Una strana passione lo sconvolse nel suo ultimo anno di vita, a 56 anni, per la quindicenne Carlotta di Montmorency.
I suoi ultimi anni furono rattristati dalla coscienza di essere poco amato dalla nazione. Il malcontento era profondo in tutte le classi per la gravità dell'oppressione fiscale, per l'eccessiva personalità del governo, per l'indifferenza con cui il principe si estraniava dagl'interessi particolari. Il pubblico era urtato dagli scandali della sua vita privata. Le ambizioni e i fanatismi continuavano a fervere nel segreto. Nel 1602 Enrico dovette far decapitare per tradimento il maresciallo di Biron. Gravava su lui, e con ragione, l'incubo degli attentati. Dopo la morte divenne uno dei re più cari alla Francia, il re francese per eccellenza. Si formò una specie di leggenda. Si celebrò il re della "poule au pot". Il promulgatore dell'editto di Nantes fu amato ed esaltato come un precursore della moderna libertà di pensiero (cfr. l'Henriade del Voltaire). A parte le deformazioni particolari impresse dalla leggenda alla sua figura, resta che E. IV era degno di divenire leggendario. Egli ha impersonato e in parte compiuto uno dei maggiori miracoli della storia francese: quello di rifare la Francia, condotta dalle lotte interne e dalla situazione internazionale a un passo dalla rovina.
Fonti: Avviamenti generali importanti allo studio delle fonti su E. sono: A. Poirson, Histoire du règne de Henri IV, 3ª ediz., Parigi 1865-6, III, Parigi 1912 e IV, Parigi 1915. Da segnalare particolarmente le Lettres missives d'Henri IV, pubblicate da Berger de Xivrey (I-VII) e da Guadet (VIII-IX) nella Collection des documents inédits relatifs à l'histoire de France. Tra le storie, la Histoire universelle del D'Aubigné, la Chronologie septenaire e la Chronologie novenaire del Palma-Cayet, le Historiae sui temporis del De Thou, la Histoire de Henri IV roi de France et de Navarre del Mathieu, la Décade contenant la vie et gestes de Henri le Grand del Legrain, la Historia delle guerre civili di Francia del Davila. Tra le memorie, i Mémoires-Journaux di Pierre de l'Estoile, i Mém. d'Estat del Villeroy, di Margherita di Valois, di Cheverny, di Bassompierre, di Saux-Tavannes, i Mém. et Correspondance del Du Plessis-Mornay, i Mém. des sages et royales øconomies d'Estat, ecc., di Sully (v. alle rispettive voci). Si veda pure Desjardins, Négociations diplomat. de la France avec la Toscane.
Bibl.: La complessa figura di E. IV non ha ancora trovato uno storico che la scolpisse degnamente: Michelet è stato, nei due volumi della Hist. de France che lo riguardano, assai inferiore a sé stesso. Utili per la storia dei tempi molto più che per l'intima intelligenza del personaggio, i due voll. di J. H. Mariéjol (V e VI della Histoire de France del Lavisse). Non mancano i buoni lavori di divulgazione, tra cui notevoli quelli di Guadet, Henri IV, Sa vie, son øuvre et ses écrits, 2ª ed., Parigi 1882; di P. de Vaissière, Henri IV, Parigi 1925; di H. de La Ferrière, Henri IV, le roi, l'amoureux, Parigi 1890.
Da vendersi G. Fagniez, L'économie sociale de la France sous Henri IV, Parigi 1897. Per la politica estera: M. Philippson, Henrich IV und Philipp III. Die Begründung des französischen Uebergewichtes in Europa, Parigi 1870-1876. Per i rapporti particolari con la Germania: L. Anquez, Henri IV et l'Allemagne, d'après les mémoires et la correspondence de Jacques Bongars, Parigi 1887; Baudrillart, La politique de Henri IV en Allemagne, in Revue des questions historiques, 1885; coi Paesi Bassi, A. Waddington, La République des Provinces-Unies, la France et les Pays-Bas espagnols, vol. I, Lione e Parigi 1895; col papato, H. de L'Epinois, La ligue et les papes, Parigi 1886; I. Raulich, La contesa fra Sisto V e Venezia per Enrico di Francia, Venezia 1892; C. Manfroni, La legaz. del card. Caetani in Francia, Torino 1893; id., Nuovi doc. intorno alla legaz. del card. Aldobrandini in Francia, in Arch. della Soc. Rom. di st. patria, XIII; con l'Inghilterra, L. A. Prévost-Paradol, Élisabeth et Henri IV (1594-1598), Parigi 1862. Per la Savoia si veda carlo emanuele i. Per Venezia v. venezia.