Enrico Opocher
Pensatore dalla forte vocazione filosofica, sempre pervasa da un’alta ispirazione etica che percorre l’intera sua opera e tutta la sua attività, Enrico Opocher fu allievo di Adolfo Ravà e di Giuseppe Capograssi. Da quest'ultimo fu formato a una visione ampia e profonda del diritto, incentrata sull’idea dell’individuo concreto, che lo portò a elaborare un’originale ‘filosofia dell’esperienza giuridica’ nella quale si scorgono gli echi di filosofi amati, da Agostino a Blaise Pascal, da Giambattista Vico a Henri Bergson. In polemica tanto contro la riduzione normativistica del diritto a forza, quanto contro quella realistica del diritto a fatto, ma altresì in una prospettiva pienamente autonoma rispetto al neoidealismo di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile, all’interno della cui temperie filosofica la sua prospettiva teoretica si era formata, Opocher rivendica la specificità e l’irrinunciabilità del valore del diritto, non riducibile alle dimensioni di altri e diversi momenti dell’esperienza, dall’agire economico all’agire etico.
Nato a Treviso il 19 febbraio 1914, Opoche si laureò in giurisprudenza all’Università di Padova il 3 luglio 1935, con una tesi su La proprietà nella filosofia del diritto di G. A. Fichte discussa con Adolfo Ravà. Nel 1948 fu chiamato alla cattedra di filosofia del diritto nella stessa università, dove per un breve periodo fu anche assistente di Norberto Bobbio. Per oltre quaranta anni fu titolare di quell’insegnamento presso la facoltà di Giurisprudenza; tenne inoltre i corsi di storia delle dottrine politiche e di dottrina dello Stato presso la facoltà di Scienze politiche. Inoltre, dal 1955 al 1959 fu preside della facoltà di Giurisprudenza, quindi prorettore e poi rettore dell’ateneo patavino dal 1968 al 1972, anni di acute tensioni politiche, dedicandosi con grandissimo amore alla didattica e alla formazione umanistica degli studenti, che amava e rispettava profondamente; anche quando – come accadde nei difficili ‘anni di piombo’, in cui continuò a perseguire e professare l’ideale della tolleranza – dissentiva fermamente da talune loro posizioni.
Insigne maestro nel campo della filosofia giuridica e politica e presidente della Società italiana di filosofia giuridica e politica dal 1976 al 1983, raccolse nella sua scuola personalità di spicco nel panorama delle discipline filosofico-giuridiche, nell’ambito delle quali ha rappresentato per decenni una guida morale autorevole e stimatissima. Morì a Padova il 3 marzo 2004.
L’itinerario del pensiero filosofico-giuridico di Opocher prende avvio con una riflessione prevalentemente sviluppata intorno al problema dell’individualità, che gli consente di impostare alcuni fondamentali temi filosofico-giuridici (per es., quello della socialità del diritto come dimensione originaria dell’uomo) nell’ambito di una prospettiva caratterizzata dal tentativo di cogliere il mondo del diritto nell’esperienza, oltre gli schemi astratti dell’idealismo.
All’interno di questa prima fase del suo cammino di riflessione, si segnalano una serie di saggi fichtiani, in particolare l’ampio scritto Il superamento fichtiano dell’individualismo nell’interpretazione di G. Gurvitch (1940), con il quale conseguì la libera docenza in filosofia del diritto, e il volume G. A. Fichte e il problema dell’individualità (1944), che lo portò alla cattedra nel 1948. Quest’ultimo saggio, composto nella suggestione dell’idealismo etico di Ravà, colloca al centro del pensiero fichtiano il problema concreto dell’individualità, inteso come «il problema della coscienza contemporanea», e rinviene nell’analisi di Johann Gottlieb Fichte «le profonde ragioni della crisi del nostro tempo».
Dopo questo contributo fondamentale apportato alla storiografia di Fichte, ma che rappresenta nel contempo il chiarimento e la definizione delle basi teoretiche della sua prospettiva, negli anni 1945-50 Opocher delinea una concezione dell’esperienza giuridica in cui l’esigenza di mantenere il contatto con il concreto, e al tempo stesso la necessità di cogliere le implicazioni sociali dell’esistenza individuale e dell’esperienza etica che vi si connette, pongono la riflessione di fronte alle istanze esistenzialistiche. Da un simile confronto non poteva non nascere un ampio ripensamento del diritto come valore, articolatamente enunciato nel volume Il valore dell’esperienza giuridica (1947).
Lungi dall’esaurirsi nella sua positività formale, nella prospettiva antiformalista di Opocher il diritto è concepito come valore, un valore che tuttavia non è mai definito in modo astratto e precostituito rispetto all’esperienza, e che non è quindi mai esposto al rischio dogmatico di una metafisica dei valori, ma che si viene invece definendo problematicamente nella concretezza dei singoli momenti dell’esperienza stessa, nei quali l’attività della coscienza sceglie e preferisce un’azione a un’altra. Quest’impostazione teorica, che si radica su una concezione assiologica del diritto, si collega coerentemente con una prospettiva processuale del diritto che, riprendendo con originalità alcuni spunti di Capograssi e Salvatore Satta, ma anche di James Goldschmidt e di Piero Calamandrei, vede il processo come momento originario e specifico del diritto: un momento in cui il fenomeno giuridico, sfuggendo a una prospettiva soggettivistica e coscienziale, trova una sua oggettivazione, organizzando attorno alla controversia giudiziale l’intera esperienza giuridica, il cui valore intrinseco consiste in un far valere durevolmente una serie di principi validi non solo per il singolo ma anche per gli altri, e così salvando l’azione umana dal contingente fluire delle cose.
Straordinario di filosofia del diritto dal 1° dicembre 1948 (dopo essersi misurato con il marxismo a partire da posizioni esistenzialistiche nello scritto Lo Stato e il problema della verità, 1948), Opocher tiene a Padova nel 1949 la prolusione al suo insegnamento universitario, Il diritto senza verità: la crisi dell’ideologia 'laica' nell’esperienza giuridica contemporanea (pubblicata nel 1950). In essa, all’indomani del tragico crollo del totalitarismo, vengono denunciate con chiarezza la crisi dello Stato di diritto e della ideologia giuridica borghese che vi si connette, e i relativi miti dell’autosufficienza e della neutralità dell’ordinamento giuridico.
La tesi per cui «il diritto del nostro tempo è un diritto senza verità» e per cui «l’attuale crisi dell’esperienza giuridica è, nella sua essenza più profonda, una crisi della verità del diritto» rappresenta anche un’idea guida di quelle Lezioni di filosofia del diritto (1949, ultima ed. 1993) sulle quali si sono formate generazioni di giovani giuristi lungo un arco di tempo più che trentennale; queste lezioni sono dominate dall’intento di fondo capograssiano di riconnettere la filosofia e il diritto alla vita. Le tracce profonde lasciate sul pensiero di Opocher dal cruciale incontro padovano (tra il 1938 e il 1940) con Capograssi risultano infatti evidenti nelle Lezioni, che esplicitano il rifiuto dell’autore di
una concezione della filosofia del diritto come mera e meccanica applicazione dei principi di questo o quel sistema filosofico alle schematiche costruzioni del diritto.
D'altra parte esse pongono con grande sincerità e immediatezza al centro dei problemi il tema dell’esperienza giuridica e del suo movimento. L’esistenza e la personalità degli individui non vi sono considerate da un punto di vista ontologico, ma come un incessante prodursi secondo la logica della libertà e in rapporto ai problemi che la vita e l’esperienza comune destano nella coscienza dei singoli.
L’adozione di questa prospettiva permette a Opocher di mantenere una posizione egualmente distante tanto dall’ideologia positivistica, in particolare dal formalismo kelseniano, quanto dalle dottrine del diritto naturale moderno, accusate di essere «barocche costruzioni dogmatiche»; e di manifestare piuttosto qualche apertura verso il realismo giuridico, specie di matrice scandinava. Il tutto ha alla sua base una concezione del diritto come valore, come esito cioè di atti dell’esistenza che, orientando l’agire, attribuiscono al diritto stesso un significato positivo e consentono di sottrarsi alla dispersione del contingente.
Sempre nelle Lezioni, trova iniziale trattazione uno degli aspetti più originali del pensiero di Opocher, che sviluppa con forza un’intuizione capograssiana: la prospettiva processuale del diritto, quella per cui il momento originario, caratteristico e genetico del diritto non è tanto rappresentato dalla norma, quanto dal processo. In altre parole, il vero destinatario delle norme giuridiche non è da considerarsi il cittadino, ma il giudice. Le norme forniscono infatti al giudice i criteri sulla cui base svolgere la caratteristica e fondamentale funzione di dirimere le controversie.
L’attenzione di Opocher al lavoro dei giuristi (e in particolare agli studi di Giuseppe Chiovenda, Calamandrei, Satta, Enrico Allorio, Elio Fazzalari, Goldschmidt) lo induce a riprendere tale prospettiva processualistica, già delineata nelle Lezioni, nel saggio Riflessioni su diritto e processo nella filosofia dell'esperienza giuridica di G. Capograssi (1991), nel quale si ribadisce efficacemente che il diritto esiste in funzione della possibilità di controversie, le quali debbono essere definite e concluse da un giudizio; individuando dunque nella controversia il nodo attorno al quale si costituisce l’intera esperienza giuridica.
Ma in un certo senso il culmine e la summa del pensiero opocheriano può essere considerata l’Analisi dell’idea della giustizia (1977), in cui, qualche anno prima della fondamentale opera di John Rawls (A theory of justice, 1971, che avrebbe aperto un estesissimo dibattito internazionale), raccoglie le sue più mature riflessioni, individua gli aspetti teoretici del rapporto che intercede tra giustizia e verità e tenta di fondare una prospettiva caratterizzata dal primato del momento del ‘giudizio’ su quello della ‘norma’. Il volume (non a caso dedicato «ai miei cari Maestri, Adolfo Ravà e Giuseppe Capograssi, che con diversa dottrina, ma con lo stesso spirito, mi insegnarono a scorgere nella maestà della giustizia la forza liberatrice della verità»), raccoglie scritti precedenti (tra cui la voce Giustizia scritta nel 1966 per l’Enciclopedia del diritto), e l’autore vi riversa tutta la sua ‘passione’ per il valore che egli ritiene sorregga il mondo del diritto, ossia per la giustizia.
Nelle premesse, Opocher dichiara di non presumere di risolvere il difficilissimo problema di definire la giustizia, ma più modestamente di voler contribuire a una corretta impostazione del problema. Pienamente e lucidamente consapevole delle enormi difficoltà, tanto di ordine storico quanto di ordine teoretico, che si frappongono a una definizione dell’idea della giustizia, «tanta è la sostanza che separa nella giustizia il sentimento dalla definizione» – dato che definire il valore giustizia equivarrebbe per la ragione alla pretesa di definire se stessa come principio etico –, l’originale approccio opocheriano evita di proposito sia una trattazione ideologica, sia una teorizzazione morale degli atti giusti. Anzi, riprendendo in chiave filosofica un suggerimento della metodologia analitica (da Moritz Schlick ad Alfred J. Ayer, da Charles L. Stevenson a Herbert L.A. Hart e Bobbio), si impegna nell’impostare la prospettiva di un concetto formale di giustizia che riporti il dibattito alle sue originali impostazioni aristoteliche. Ciò non significa, per Opocher, prefigurare il rapporto tra forma e contenuto della giustizia sul piano dell’indifferenza, ma invece determinare il concetto formale della giustizia come conformità a un ordine oggettivo.
Una volta distinte tre possibili prospettive inerenti ai contenuti assiologici del concetto formale di giustizia, e dunque individuati i tre diversi tipi di giustizia come legalità, come ideologia e come riconoscimento della verità, l’analisi opocheriana riconosce il rapporto indissolubile e la connessione profonda che, nell’unità dell’idea di giustizia e nell’unico processo di oggettivazione sociale della libertà, si istituiscono tra questi tre diversi tipi di giustizia; e perviene alla conclusione che, nonostante sul piano degli ordinamenti giuridici sia stata alternativamente ravvisata sul piano di ciascuna delle tre prospettive, è alla giustizia come riconoscimento della verità, in quanto presupposto delle altre due prospettive, che dev'essere indubbiamente riconosciuto un incontestabile primato, giacché essa «implica ciò che vi è di veramente incorruttibile nel contenuto dell’idea della giustizia».
Il richiamo di Opocher all’idea di verità nel diritto, che si salda strettamente alla sua tesi più specifica secondo cui la competenza originaria del giudice consiste nel ‘dire’ la verità, offre così un’indicazione suggestiva nella sua originale classicità, e nel contempo sposta il centro di gravità dell’idea di giustizia sul momento processuale. Infatti il ‘far valere’ del diritto è un far valere secondo verità, e conseguentemente la ‘lotta per il diritto’ si qualifica come una lotta per la verità. Ma qui la verità non è da intendersi con la maiuscola, ma come «le piccole, quotidiane verità degli accadimenti, ciò che è avvenuto, che avviene e che potrà avvenire, nelle vicende degli uomini e, dunque, della loro storia».
Un altro ricorrente tema di riflessione negli scritti di Opocher è quello che si concentra sulle questioni del potere e della tolleranza (Elogio della tolleranza, 1975; Filosofia e potere, 1980).
Approfondendo il tema del rapporto tra filosofia e potere, la riflessione filosofico-politica di Opocher muove da un principio fondamentale: il potere è un fatto irrazionale e arbitrario, ma necessario. L’aspetto profondo e, se vogliamo, paradossale del potere, sta nel fatto che esso consiste in una relazione di subordinazione con soggetti potenzialmente liberi ed è per questo motivo che la questione di cosa esso davvero sia, incrocia inevitabilmente quella della libertà dell’individuo, messa costantemente a repentaglio dalla volontà e dalla forza tendenzialmente sopraffattrice del potere e da «un sistema generale di obbedienze» che esso implica. Opocher sottolinea di conseguenza il ricorrente tentativo, da parte di quest’ultimo, di razionalizzare la propria essenza irrazionale assicurando quella funzione hobbesiana di ordine e di pace che la storia gli assegna. Ma rimarca altresì l’arduo compito del filosofo di fronte al potere, quello di farsi «franco tiratore della ragione», e quindi della libertà, giacché
l’intervento della ragione contribuisce, almeno nel suo iniziale momento critico e cioè nel suo negativo, a contenere l’esercizio arbitrario del potere, a denunciarne, appunto, il limite soggettivo e quindi a permettere che l’esercizio del potere si accompagni ad una progressiva razionalizzazione della vita sociale [...] tenendo così aperta […] l’opera creatrice della libertà (Filosofia e potere, 1980, p. 48).
La profonda diffidenza di Opocher nei confronti del potere politico in quanto rapporto intersoggettivo incapace di fecondare qualunque valore, non implica tuttavia un esito anarchico, ma invece l’assunzione di un compito critico e demistificante, pur nel riconoscere che la condizione umana rende indispensabile, in una forma o nell’altra, il fenomeno del potere. In tal modo il dato della forza è, in questa prospettiva realistica, ricondotto, tramite la conoscenza, alla ragione.
La prospettiva di Opocher si può dunque sinteticamente qualificare come un capitolo originale di quella ‘filosofia dell’esperienza giuridica’ aperta in Italia da Capograssi, che ha nel significato esistenziale dell’esperienza giuridica, nel valore della coscienza, nella responsabilità morale dell’intellettuale in ogni momento storico dinnanzi al fatto del potere i suoi temi fondamentali e ricorrenti.
L’ultima dimensione, ma non certo la meno importante, della personalità di Opocher è quella dell’uomo pubblico, impegnato con una totale autonomia di pensiero e di azione nelle contraddizioni della politica e della società. Fin dagli inizi della Resistenza egli fu protagonista della lotta di liberazione e autorevole esponente di quel gruppo di illustri studiosi, da Concetto Marchesi a Ezio Franceschini, da Egidio Meneghetti a Bobbio, che fecero dell’Università di Padova uno dei centri motori della Resistenza al nazifascismo nel Veneto. Nel secondo dopoguerra fu per tredici anni presidente dell’Istituto veneto per la storia della Resistenza, dove promosse gli studi sulla lotta di liberazione, assicurando alla cultura storica un ricchissimo patrimonio documentario sulla Resistenza veneta.
Opocher influenzò con la ricchezza del suo patrimonio ideale la maturazione di molti giovani, orientandoli agli ideali di giustizia e libertà di cui si faceva interprete il Partito d’azione, con la sua fede spesso impolitica in un’Italia delle autonomie e delle libertà. Nel volume Discorsi civili (1985), che raccoglie gli articoli scritti da Opocher per il quotidiano veneziano «Il Gazzettino» tra il 1976 e il 1981, lasciò la lezione di un realista riformista, che voleva persuadere l’opinione pubblica di un’idea alta e morale della democrazia, che riscoprisse però costantemente i valori essenziali della civiltà umanistica.
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Nell'anniversario della scomparsa di Enrico Opocher, dossier di «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 2005, 2, pp. 189-272 (D. Fiorot, Diritto e potere nella filosofia giuridica politica e civile di Enrico Opocher, pp. 189-214; F. Gentile, Enrico Opocher, pp. 215-34; M. Borrello, La questione della legge nella relazione tra Rousseau e Kant. La legge come etica e l’etica pura di kantiana, pp. 235-72).
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