TOTI, Enrico
– Nacque il 20 agosto 1882 a Roma, quartiere San Giovanni, da Nicola, ferroviere di Cassino, e da Semira Calabresi, da Palestrina.
Terzo di quattro figli, nel 1897 si imbarcò come mozzo sulla nave scuola Ettore Fieramosca. Rimase in Marina fino al 1905, dapprima sulla corazzata Emanuele Filiberto, poi sulla nave Barbarigo e infine sull’incrociatore Coatic. Congedatosi, venne assunto nelle Ferrovie dello Stato come fuochista. Il 27 marzo 1908 fu investito da un locomotore in manovra presso la stazione di Colleferro e gli si dovette amputare la gamba sinistra poco sotto il bacino. Rimasto invalido e senza lavoro a 26 anni, non si avvilì. Dotato d’indubbia forza d’animo e spirito d’intraprendenza, diede avvio a piccole attività artigianali e coltivò il fisico con nuotate nel Tevere e lunghi giri in bicicletta, giungendo a compiere vere e proprie imprese sportive. Viaggiò in Europa e in Africa sulle due ruote, lavorando come artista e attrazione nelle fiere e nei circhi. Esperienze compiute per spirito di avventura, amore per lo sport, ma soprattutto per dimostrare a tutti di essere un uomo integro, anzi un atleta.
Allo scoppio della guerra mondiale, vedendo molti amici ciclisti partire volontari, per spirito patriottico e per desiderio di sentirsi ‘normale’, Toti chiese per ben tre volte alle autorità militari di poter essere arruolato, ricevendo sempre un netto rifiuto. Decise allora di recarsi autonomamente al fronte: si fece confezionare un simulacro di divisa militare e con la propria bicicletta a inizio luglio del 1915 raggiunse Cervignano, cittadina del Friuli austriaco occupata dall’Esercito italiano, sede del comando della 3a armata e di innumerevoli ospedali, uffici e magazzini militari. In breve fraternizzò con militari e graduati, compiendo piccoli servizi e ricevendo in cambio vitto e alloggio. Ottenne anche, in maniera non ufficiale, di svolgere alcune mansioni per conto degli uffici del comando di tappa, tra cui il ritiro della posta nei punti di raccolta dei vari reparti e il suo trasporto all’ufficio ferroviario di Cervignano, dove la corrispondenza veniva vagliata, censurata e successivamente smistata verso il resto del Paese. Frequentava uffici e officine militari, legò con i soldati e passava con loro il tempo nelle osterie del paese.
Però a Toti questo non bastava. Sognava il fronte, la trincea, il combattimento a cui non poteva partecipare. Più volte, eludendo la sorveglianza dei militari, valicò il limite territoriale in cui erano relegati i borghesi, per dirigersi verso le zone riservate ai combattenti. In una di queste occasioni, intercettato da una pattuglia di carabinieri, venne fatto ritornare a Cervignano e successivamente, ritenuta irregolare la sua posizione, rispedito a Roma.
Dopo innumerevoli suppliche presso uffici e ministeri e un’appassionata lettera al comandante della 3a armata, Emanuele Filiberto di Savoia, duca d’Aosta (Fabi, 2005, pp. 186-189), riuscì a ritornare nuovamente a Cervignano nei primi mesi del 1916. Il 6 aprile di quell’anno ebbe il permesso di rimanere in zona di operazioni come civile aggregato all’ufficio postale militare presso il comando d’armata. In virtù del legame con soldati e ufficiali, sorpresi e affascinati dal suo ardore patriottico, riuscì a farsi portare con il reparto in prossimità delle trincee, come accadde nelle vicinanze delle cave di Selz presso Monfalcone. In seguito, Toti passò dai ricoveri del 14° reggimento fanteria (brigata Pinerolo) a quelli del III battaglione Bersaglieri ciclisti: «Una sera il Colonnello Razzini dei Bersaglieri ciclisti, di passaggio con il suo reparto per Monfalcone, noto ammiratore e amico del nostro battaglione di ferro, s’inerpicò fino ai nostri ripari, cercò Rizzo e gli reclamò il bersagliere Toti. Per il valoroso fu una festa quella sera. Forse aveva un presentimento. Il Colonnello Razzini accomiatandosi ci diceva – Sarà la nostra Mascotte!» (Sillani, 1924, pp. 94 s.).
Dal maggio del 1916 Toti venne dunque informalmente aggregato al III Bersaglieri ciclisti. Tra i suoi compiti, raccogliere la posta e consegnare giornali, sigarette, generi di conforto portati dalle retrovie. Aiutava a distribuire il rancio e, godendo di relativa libertà di manovra, compiva piccole commissioni per i soldati che non potevano allontanarsi dal reparto. Da maggio ai primi d’agosto del 1916 visse probabilmente uno dei più bei periodi della sua vita. Ritrovò quel mondo maschile dal quale per lungo tempo era stato respinto o mal sopportato. Non era più isolato, era soldato tra i soldati, apparteneva alla cosiddetta comunità della trincea, fatta di solidarietà, comprensione, complicità, pulsioni diverse, sensazioni forti. La guerra e, soprattutto, la tenacia e perserveranza di Toti, sembravano riequilibrare un destino di mutilazione, vergogna, virilità compromessa, perdita di valore sociale e individuale. I fanti che se lo trovavano accanto lo guardavano con simpatia, ma anche con preoccupazione. Nei confronti dei ‘suoi’ soldati si comportava come un fratello maggiore un po’ invadente; non mancava occasione per riprenderli e spronarli, con un paternalismo accentuato da una non comune percezione di sé e del suo patriottismo combattentista.
Il 6 agosto 1916, nel quadro delle operazioni della sesta offensiva dell’Isonzo che portò alla presa di Gorizia e al crollo del primo fronte carsico, il III Bersaglieri venne incaricato, assieme ad altre unità, di attaccare le trincee austro-ungariche di Quota 85, a est di Monfalcone. Proveniente dalle retrovie, Toti chiese e ottenne dai superiori, seppur in maniera del tutto informale e contro qualsiasi regolamento, il permesso di partecipare all’assalto, con fucile ed elmetto. Durante l’azione venne visto sparare con il moschetto contro le mitragliatrici avversarie; poi, una volta colpito, mollare il fucile, gettare la stampella, morire fra le braccia dei compagni.
Il lancio della stampella e i momenti che lo precedettero fanno parte del mito, sviluppatosi già nel corso del conflitto per interessamento dello stesso duca d’Aosta. Il gesto di Toti venne reso noto agli italiani dalla copertina di Achille Beltrame per La Domenica del Corriere (24 settembre - 1° ottobre 1916). Dal re Vittorio Emanuele III gli venne concessa motu proprio (poiché non era regolarmente arruolato) la medaglia d’oro al valor militare. Nell’ottobre del 1916 Leonida Bissolati, deputato socialista e anziano volontario di guerra, lo commemorò a Roma come esempio di combattentismo. La figura dell’eroe monco e il gesto della stampella vennero propagandati soprattutto nell’ultimo anno di guerra, quando, con l’esercito schierato lungo la linea Grappa-Piave e il Friuli e parte del Veneto invasi dagli austro-ungarici, bisognava sostenere l’opinione pubblica con immagini eroiche a cui tutti, militari e civili, potessero appellarsi.
Nel dopoguerra il mito venne fatto proprio dal regime fascista, che in lui volle vedere l’eroismo popolano dell’Italia proletaria e fascista. I momenti significanti della rinnovata mitizzazione furono il ritorno della salma dell’eroe (inizialmente sepolto nel cimitero militare di Monfalcone) a Roma, il 23 maggio 1922, nonché le solenni celebrazioni che ne conseguirono, funestate tuttavia da violenti scontri nel quartiere San Lorenzo. Pochi giorni dopo, il 4 giugno, con l’intitolazione del monumento di Arturo Dazzi al piazzale del Pincio, Toti venne ufficialmente inserito tra gli eroi più fulgidi della patria vittoriosa. Il 24 maggio 1923 lo stesso Benito Mussolini, allora capo del governo e del partito fascista, dopo aver inaugurato, assieme al re Vittorio Emanuele III e al duca d’Aosta, il cimitero degli Invitti della 3ª armata sul colle di Sant’Elia, si recò a rendere omaggio al cippo sorto a Quota 85 presso Monfalcone, dove l’eroe era caduto.
Per il regime Toti rappresentava lo spirito stesso dell’Italia, era il figlio esemplare di un popolo predestinato a grandi cose, pronto al massimo sacrificio per il bene della nazione. Con lapidaria concisione la motivazione della medaglia d’oro aveva affidato a scrittori, cronisti, disegnatori, il compito di diffondere e far diventare leggenda patriottica l’atto di cui si davano scarne ma utilissime coordinate: «Volontario, quantunque privo della gamba sinistra [...] lanciavasi arditamente sulla trincea nemica, continuando a combattere con ardore, quantunque già due volte ferito. Colpito da un terzo proiettile, con esaltazione eroica lanciava al nemico la gruccia e spirava baciando il piumetto, con stoicismo degno di quell’anima altamente italiana» (Fabi, 2005, p. 135).
Assiduo protagonista dei bellicosi racconti della scuola del Ventennio, gli si dedicarono vie, piazze, scuole, circoli e associazioni. Il mito, tuttavia, non scomparve con il crollo del regime, sopravvivendo anzi ben oltre e non solo nei libri di scuola. Nel 1955 la sua storia ispirò il film di David Carbonari, Bella non piangere! e nel 1958 la città di Gorizia gli eresse una statua in bronzo nella centrale piazza Cesare Battisti. La Marina militare italiana intitolò a Toti il primo sommergibile del dopoguerra, costruito nei cantieri di Monfalcone, in servizio dal 1968 al 1999, esposto dal 2005 presso il Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci di Milano.
Fonti e Bibl.: T. Sillani, Lettere di E. T., Firenze 1924; M. Vignini Paloschi, E. T., Milano 1940; L. Fabi - M. Flores, Il monco di Trastevere e l’eroe di Monfalcone: E. T. tra realtà e mito, in Quaderni piacentini, 1984, n. 15, pp. 45-62; G. Toti, “Nun moro io...”. In vita e in morte di E. T., Udine 1998; L. Fabi, E. T. Una storia tra realtà e mito, Cremona 2005.