TRIVELLI, Enrico
– Nacque a Napoli nel 1709 dal conte Giuseppe Trivelli e dalla nobildonna Leonilda Leone, entrambi originari della città di Vasto.
Il capostipite Lucio Trivelli ottenne il titolo di conte solo due anni prima, nel 1707, quando don Cesare d’Avalos, marchese del Vasto, lo dichiarò «Magnate d’Ungheria e Conte, con titolo trasmissibile ad infinitum» (Benedetti, 1962, p. 25), per la fedeltà dimostratagli dopo la caduta del Regno nelle mani degli spagnoli; tuttavia, d’altra parte, quella stessa fedeltà fece cadere in disgrazia la famiglia Trivelli obbligando il conte Giuseppe a fuggire a Napoli con sua moglie, così da non dover subire altri soprusi.
Dopo aver vissuto qualche anno a Napoli, i Trivelli tornarono a Vasto, ed è qui che l’ancora giovanissimo Enrico venne avviato agli studi di grammatica, retorica e filosofia. In seguito, negli anni Venti, la famiglia si trasferì di nuovo a Napoli: qui Trivelli intraprese gli studi superiori, dedicandosi alla retorica e alle lettere, nonché alla filosofia, alla giurisprudenza e alla geometria.
Nel 1730, all’età di 21 anni, si spostò a Roma, non si sa con certezza se per cercare un impiego o se per fuggire in seguito a un omicidio compiuto. Stando alla cronaca di padre Placido Eustachio Ghezzi citata da Alessandro Ademollo (1882), infatti, nel 1730 Trivelli avrebbe ucciso l’uomo che doveva sposare sua sorella e, di conseguenza, sarebbe stato costretto a lasciare Napoli e a cercare riparo a Roma. Poiché nelle cronache di Vasto non sembrano esserci riferimenti a questo omicidio, la notizia riportata da Ghezzi potrebbe anche essere volta a screditare questa «figura di poeta satirico dal passato oscuro» (Oliva, 1982, p. 95); è più probabile che Trivelli abbia deciso di spostarsi in cerca di fortuna e fama.
A Roma si ritrovò solo, senza protettori e senza mezzi di sussistenza; a quel punto fece il possibile per cercare di procurarsi un lavoro regolare, ma non gli riuscì e finì per ritrovarsi in una situazione di indigenza che lo portò a contrarre debiti. Fu così che, giunto nella bottega di Martorello e Martino Dominici, cominciò a svolgervi l’attività di copista. Divenne, inoltre, frequentatore abituale di caffè e iniziò a farsi conoscere e stimare negli ambienti letterari.
A questo periodo risalgono le prime prove letterarie, sia in versi sia in prosa. Nel 1732 fece stampare un componimento scritto nel 1730 per l’esaltazione al trono del pontefice Clemente XII (Canzone del Conte Trivelli per l’esaltazione di N.S. Papa Clemente XII, Firenze 1732); del volume, all’altezza del quarto decennio dell’Ottocento, si conservava solo il primo foglio (Marchesani, 1838, p. 333). Pare che in questa edizione venisse annunciata la prossima pubblicazione di un «voluminoso» Canzoniere e di «eruditissimi» Discorsi intorno all’Arte poetica, che poi non ebbe luogo (ibid.). Del 1732 è anche la Lettera filologica del conte E. T. dedicata all’Illustrissimo, ed Eccellentissimo Signore il Signor D. Francesco Caraffa, Principe di Colobrano (Napoli 1732), un «breve, ma arruffato manualetto di retorica bizzarra» (Benedetti, 1962, p. 27). Risale allo stesso anno l’Ode in diciotto ottave recitata in Campidoglio per il concorso dell’Accademia del Disegno, poi pubblicata nel volume Gli eccelsi pregj delle Belle Arti e la scambievole lor Congiunzione con le Mattematiche Scienze (Roma 1733): in questo componimento Trivelli esalta di nuovo Clemente XII, il papa che lo farà poi decapitare. Scrisse anche molte altre poesie, che non vennero però pubblicate.
Per l’apprezzamento che Trivelli riuscì a procurarsi, il custode generale dell’Arcadia Francesco Lorenzini lo volle nella sua Accademia con il nome di Idasio Nivalgo.
Nonostante i riconoscimenti, la situazione economica nella quale versava Trivelli era divenuta sempre meno sostenibile, tanto da spingerlo a contrarre continuamente debiti.
Nel 1736 il clima romano cambiò: a Roma gli spagnoli iniziarono a reclutare uomini in maniera violenta, utilizzando anche escamotages di diverso tipo, come travestimenti e prostitute, per riuscire ad avere coscritti. Il popolo, con la complicità del silenzio del papa, rispose alle violenze con tumulti e rivolte. La situazione si fece sempre più tesa e, ispirati dalla crisi in atto e dalla debolezza mostrata dal papa, iniziarono a circolare scritti politici e pasquinate contro il pontefice, per via della poca decisione con cui fronteggiò gli eventi. A questo punto, sentendosi minacciate, le autorità ecclesiastiche si mossero e diedero ordini perché fossero individuati gli autori.
Trivelli, da parte sua, oltre che prendere parte alle proteste tramite il proprio lavoro, scrisse in questo periodo testi satirici, dialoghi fra cardinali, componimenti contro i rappresentanti della Chiesa e opere di stampo politico ispirate alle rivolte popolari del 1736; tra queste ultime, il Consiglio dato al Re delle Due Sicilie da un ministro di quella Corte fu uno degli scritti responsabili dell’arresto e poi della condanna a morte.
Questo trattato, incompiuto, oltre a ripercorrere, con vena provocatoria, gli eventi che portarono al consolidamento dell’usurpato potere temporale del papa, sostiene che la Chiesa non abbia in realtà alcun diritto sul Regno di Napoli e, al tempo stesso, suggerisce al re di non fidarsi del mondo ecclesiastico, «riserbando all’autorità del medesimo il solo culto delle cose sagre e degl’altari» (Toniolo, 2003, p. 235). Nel Consiglio Trivelli, oltre a inveire contro la S. Sede, che avrebbe fomentato i tumulti del 1736, si scaglia contro il popolo romano, reo di non aver avuto alcun rispetto delle autorità spagnole.
Se in pochi mesi Trivelli venne arrestato e poi condannato a morte, fu perché ai suoi danni era stato in realtà ordito un complotto (ricostruito nel dettaglio da Toniolo, 2003). Il bargello, infatti, incaricò Martino Dominici, presso la cui bottega lavorava Trivelli, di raccogliere e fargli avere tutti i testi satirici che circolavano, in modo da contrastarne la diffusione; in cambio promise, a lui e ai copisti che lo avrebbero aiutato, l’impunità e una ricompensa per ogni manoscritto consegnato. Trivelli, che versava ancora in condizioni di indigenza e ristrettezze economiche, sicuro dell’impunità si prodigò nella scrittura di opere politiche e pasquinate, che poi, di volta in volta, consegnò regolarmente al bargello per averne in cambio una ricompensa in denaro. Tuttavia il poeta venne arrestato proprio mentre consegnava la parte conclusiva di un’opera. Il 30 ottobre 1736 ebbe inizio il processo a suo carico, che terminò il 21 dicembre; nel mese di febbraio del 1737 giunse la sentenza: Trivelli fu condannato a morte «per composizioni di scritture malediche e sediziose contro il Pontefice della Santa Sede».
Prima dell’esecuzione, sicuro e confortato dalla sua integrità morale, scrisse una Protesta contro le autorità ecclesiastiche che lo avevano tratto in inganno, nella quale non mancò di ribadire la sua fede religiosa; dettò anche un’ode-supplica rivolta al papa, Clemente XII, dove tentò di gettare luce sulle proprie ragioni, nell’estrema speranza di essere graziato. Compose, inoltre, un Testamento in versi, al tempo stesso ironico e drammatico, nel quale, rivolgendosi ai presenti, nell’ultimo tentativo di difendere la propria innocenza, mostrava ancora come le autorità ecclesiastiche lo avessero tratto in trappola.
Il 23 febbraio 1737, a 27 anni, dopo aver recitato per l’ultima volta il Credo e chiesto perdono, fu decapitato nella piazza affollata di ponte Sant’Angelo.
Fonti e Bibl.: L. Marchesani, Storia di Vasto, città in Apruzzo citeriore, Napoli 1838, passim; A. Ademollo, Le giustizie a Roma dal 1674 al 1739 e dal 1796 al 1840, Roma 1882, pp. 133-145; L. Anelli, Ricordi di storia vastese, Vasto 1906, passim; L. Benedetti, Tre istoniesi a Roma, Roma 1962; G. Oliva, Un poeta al patibolo, in Id., Le frontiere invisibili. Cultura e letteratura in Abruzzo, Roma 1982, pp. 87-108; M.C. Toniolo, Letteratura clandestina e complotti politici nella Roma di primo Settecento: il caso di E. T. (1736-1737), in Roma moderna e contemporanea, XI (2003), 1-2, pp. 229-251.