Enrico VII di Lussemburgo, Imperatore
Figlio di Enrico, conte di Limburgo (m. 1288) e di Beatrice di Beaumont e Avesnes, nacque in un anno compreso tra il 1270 e il 1280 (1274?). Educato presso la corte di Francia, risentì dell'influenza sempre crescente del prestigio della monarchia francese, sì da accettare una rendita fissa, nel 1294, in cambio di un appoggio indiscriminato alla politica di Filippo il Bello. Tuttavia alla morte di Alberto d'Austria (1308), resasi vacante la corona imperiale e riusciti vani i tentativi dello stesso Filippo di far designare al trono del Sacro Romano Impero il fratello Carlo di Valois, E., che già godeva fama di principe giusto e di buon amministratore dei suoi territori e poteva contare, tra gli elettori tedeschi, sull'appoggio del fratello Baldovino arcivescovo di Treviri, fu designato, il 27 novembre 1308, come re di Germania e incoronato in Aquisgrana il 6 gennaio 1309, prima ancora che giungesse la notizia del gradimento pontificio, che, peraltro, non tardò molto (29 luglio; cfr. Regestum Clementis V, n. 4302). La politica del re si dimostrò accorta muovendosi su due direttrici principali, miranti a evitare uno scontro con gli Asburgo, che vedevano sottratta alla propria casa la corona imperiale, e a costituire una base di potenza personale più larga di quella rappresentata dai domini aviti del Lussemburgo. Fu così raggiunta una pace con gli Asburgo e, mediante il matrimonio del figlio di E., Giovanni, con Elisabetta di Boemia, il nuovo re di Germania otteneva il controllo diretto di un vastissimo territorio (agosto 1310). Nell'atto di comunicare il proprio plauso all'elezione di E., Clemente V, alla legazione che da parte del re gli aveva recato la notizia dell'incoronazione di Aquisgrana, aveva indicato come data per l'incoronazione, da tenersi in Roma, il 2 febbraio 1312: ma alla dieta di Spira (fine agosto 1310) la spedizione in Italia apparve cosa decisa e preparata.
Vi si era giunti dopo una serie di sondaggi di legati di E. a varie città e signori italiani e, soprattutto, dopo il compimento di una delicata missione di Amedeo V di Savoia presso il papa, intesa a conoscere la reazione di questi a una discesa anticipata di E. in Italia, a un desiderio di affrettare i tempi dell'incoronazione e di ottenere un sostanziale aiuto finanziario da parte della curia. Clemente V non aveva sollevato obiezioni all'idea di una discesa in Italia, ma non aveva acconsentito ad anticipare la data d'incoronazione imperiale o a sborsare somme di denaro in aiuto dell'imperatore designato. In cambio, aveva ottenuto il giuramento da parte di E. di aiutare in ogni circostanza la Chiesa, di riconoscere i diritti di quest'ultima su tutta una serie di terre e città dell'Italia centrale (v. Bowsky, Henry VII in Italy, p. 46) e di mostrare benevolenza nei riguardi dei guelfi d'Italia. E. aveva accettato: troppo gli necessitava l'aiuto papale, sia pure nella semplice forma di un consenso.
Superate le Alpi al valico del Cenisio, E. giungeva a Susa (23 ottobre 1310), passando successivamente per Torino, Asti, Vercelli, Novara, ed entrando in Milano il 23 dicembre dello stesso anno, accolto ovunque con i massimi onori e circondato dalle più grandi speranze. Imposta con il proprio arbitrato la pacificazione tra Guido della Torre e Matteo Visconti, contendenti (il primo guelfo, il secondo ghibellino) per la signoria di Milano, E. cingeva la corona ferrea (6, gennaio 1311), e otteneva la somma di centomila fiorini come dono della città di Milano, grazie a un'abile manovra di Matteo Visconti che mise, in pari tempo, in cattiva luce presso il popolo milanese il rivale Guido della Torre. A Milano, inoltre, erano convenuti rappresentanti di moltissime città dell'Italia settentrionale e centrale: ma non di Firenze e dei guelfi toscani. Avviata la sua opera di pacificazione in Italia, mediante l'imposizione di altrettanti arbitrati ai turbolenti comuni delle regioni settentrionali (Cremona, Reggio, Modena, Lodi, Crema), senza però riuscire a risolvere tutti i casi offerti dal caleidoscopio politico italiano, specie per il problema del rientro degli esiliati nelle città di origine; cassate tutte le sentenze di condanna per motivi politici (23 gennaio 1311), dopo che a ogni città italiana, in luogo di podestà, capitani e rettori, erano stati assegnati dei vicari regi ed era stato nominato vicario generale il cognato Amedeo V di Savoia, E. poté illudersi di aver dato un primo assetto alla vita politica italiana. Ma nell'inverno del 1311 la sua opera si rivelò insufficiente: si ribellarono prima Milano - dove E. dovette sbandire sia Guido della Torre sia Matteo Visconti ripristinando le autonomie comunali - poi Crema, Brescia, Cremona, Reggio, Parma e Lodi.
Preoccupato per le possibilità di una reazione papale e guelfo-toscana a una politica di repressione da parte sua, E. preferì mostrarsi conciliante con i ribelli, ottenendo in breve il ritorno alla fedeltà ai patti di pacificazione precedentemente accettati di quasi tutti i comuni settentrionali: con le sole eccezioni di Cremona e Brescia e dei Torriani. Nello stesso tempo, consentendo la nomina quali vicari imperiali in molte città dei signori ghibellini - tipico il caso di Alboino e Cangrande della Scala a Verona - E. tentava di dare una base più realistica al suo controllo dell'Italia settentrionale: ma restava, perciò stesso, impaniato nelle pieghe del gioco politico cittadino, non più, nonostante le dichiarazioni, superiore e imparziale " rex iustus et pacificus ". In tal senso la sua azione acquistò una decisa coloritura antiguelfa per l'assedio posto a Cremona, semidistrutta tra la fine di aprile e il 10 maggio 1311, e per il duro trattamento imposto a Guido della Torre, rifugiatosi nella città ribelle e poi dichiarato dall'imperatore designato " ribelle all'Impero e traditore "; più ancora, E. si alienò definitivamente gli animi di quei guelfi che ancora esitavano, con il supplizio orrendo di Teobaldo Brusati, capitano di Brescia, anch'essa conquistata e severamente punita (1 ottobre 1311). Così, mentre il papa Clemente V già nella primavera del 1311 mostrava indubbi segni di mutare atteggiamento nei riguardi dell'azione complessiva di E., cui raccomandava la clemenza, assicurandogli, falsamente, la sostanziale fedeltà dei comuni guelfi toscani, Firenze si prodigava nella ricerca di alleanze contro la temuta discesa dell'imperatore designato, chiamato, negli atti ufficiali della cancelleria della città guelfa toscana " re di Germania " e non " re dei Romani " come pur sarebbe stato giusto, atteso che egli era imperatore designato: segno che, senza cadere palesemente in atteggiamenti di palese disobbedienza verso il legittimo sovrano temporale - quello che appunto sarebbe stato il " re dei Romani " - Firenze non intendeva assolutamente venire a patti con Enrico. Le alleanze furono presto trovate: Bologna già dall'aprile del 1311 si schierava con Firenze, e se re Roberto d'Angiò, anche per l'eventualità di una minaccia da parte di Federico III di Trinacria, si mostrava esitante, più decise a contrastare il passo al " re di Germania " apparivano Lucca, Siena e le numerose fazioni guelfe dell'Italia centro settentrionale. A compimento dell'indirizzo decisamente ghibellino di E. sopravvenne il 13 luglio 1311 la nomina a vicario, per Milano, di Matteo Visconti.
Con l'esercito decimato dal protrarsi delle lotte a Cremona e a Brescia, insidiato dalla pestilenza, E. si volgeva finalmente verso sud, per raggiungere Genova, dove arrivò nell'ottobre dello stesso 1311. Firenze e i suoi alleati della lega guelfa, tuttavia, non si perdettero d'animo, tentando di attirare nella lega stessa Parma e Reggio sì da sconvolgere tutto lo schieramento in profondità della spedizione di E.: il tentativo riuscì coinvolgendo (dicembre 1311) ancora Brescia e Pavia e Cremona. Pur se di breve durata - nei primi mesi del 1312 molte delle città nuovamente ribellatesi erano domate - il successo della lega guelfa mostrò la precarietà della posizione di E., che s'indusse, il 24 dicembre 1311, dopo la comprovata contumacia dei Fiorentini, a dichiarare la città ribelle all'Impero, liberando i debitori fiorentini dall'obbligo della restituzione delle somme dovute. Nell'intento di assicurarsi ancora una volta e con maggior successo le spalle, E. nominò Cangrande della Scala vicario imperiale a Vicenza (febbraio 1312) e Werner di Homburg capitano generale di Lombardia, in sostituzione di Amedeo V di Savoia. In tal modo il 6 marzo del 1312 E. giungeva a Pisa: nonostante alcune resistenze alle richieste di fedeltà assoluta formulate dall'imperatore designato ai Pisani (come già del resto era avvenuto a Genova), il soggiorno pisano segnò un periodo di ripresa delle sorti imperiali in Italia: Roberto d'Angiò, pur appoggiando le città guelfe dell'Italia settentrionale, era sempre disposto a secondare un antico disegno di Clemente V che contemplava un'alleanza matrimoniale tra le case del Lussemburgo e di Angiò: d'altra parte, con il fratello del re di Napoli a Roma in posizione di forza, e con l'approssimarsi dello stesso E. alla città, era vantaggioso anche per l'imperatore designato tentare un accordo con l'Angioino.
Ma in questa fase delicatissima dell'impresa di E. s'inserì decisamente l'azione della corte di Francia: una lettera di Clemente V al duca di Gravina, scritta dietro richiesta di E., perché sospendesse ogni attività ostile all'imperatore designato in Roma e si ritirasse dalla città, fu bloccata, per la ragione, addotta dal re di Francia, che la posizione di Roberto ne sarebbe stata indebolita e così anche quella della stessa Chiesa romana. Comunque si voglia spiegare questo atteggiamento di condiscendenza di Clemente V, che da tempo doveva essersi ricreduto sul conto di E., rimane indubbio che esso rappresentò un voltafaccia nei riguardi del designato imperatore (fine marzo 1312), pur tenuto conto del fatto che erano già in corso trattative per un'alleanza militare tra E. e Federico di Trinacria.
Il 23 aprile 1312, E. lasciava Pisa, entrando in Roma, dopo una breve scaramuccia con le truppe angioine, il 7 maggio: ma la città non fu perciò interamente occupata dalle forze imperiali. San Pietro, la torre delle Milizie e Castel Sant'Angelo erano in mano degli Angioini. Vani furono i tentativi di E. di vincere con l'astuzia la resistenza dei fautori dei guelfi e degli Angioini, per ottenere il libero accesso a S. Pietro; inutile un'ambasceria al papa, che risolvesse le perplessità dei legati pontifici inviati a Roma per l'incoronazione, circa la legittimità di una cerimonia che si svolgesse altrove che a S. Pietro (e tra essi vi erano il cardinale di Ostia e Velletri, Niccolò da Prato e Luca Fieschi, cardinale diacono di S. Maria in Via Lata, sostenitori di E.); senza esito le proposte di Roberto d'Angiò per un patto di alleanza con lo stesso E. che tutelasse il re angioino da eventuali aggressioni di Federico di Trinacria, come condizione per un libero svolgimento dell'incoronazione in S. Pietro. Solo dopo che una sconfitta nelle vie cittadine, subita dalle truppe di E. il 26 maggio, dimostrò l'impossibilità di una soluzione militare della questione, e dopo che i Romani richiesero ai legati di procedere all'incoronazione in S. Giovanni in Laterano, come del resto lo stesso re dei Romani aveva precedentemente richiesto in via alternativa, la cerimonia ebbe luogo: il 29 giugno 1312 E. veniva incoronato imperatore.
Ma la scena politica generale mutava: il 10 luglio si concludeva formalmente, con la promessa di un matrimonio tra i figli dei due sovrani, il trattato di alleanza tra Federico di Trinacria ed E., che comprometteva qualsiasi possibilità d'intesa con Roberto di Napoli; d'altro canto, l'atteggiamento del papa era sempre più ambiguo: dieci giorni prima dell'incoronazione di E., egli scriveva proponendo la sua mediazione tra il sovrano tedesco e l'Angioino; ancora sei mesi dopo la cerimonia di S. Giovanni in Laterano, Clemente V non si rivolgeva a E. come a imperatore. L'esercito imperiale, del resto, si sfaldava in parte per il ritorno a nord e in Germania di molti sostenitori dell'imperatore. Ciononostante, E. decise di muovere alla volta di Firenze, che egli alfine riconosceva - troppo tardi - come ganglio dell'opposizione guelfa. Posto l'assedio alla città nella seconda metà di settembre, E. non riuscì nemmeno a cingere di truppe le mura fiorentine e dovette abbandonare l'impresa, di fatto, in ottobre, lasciando i suoi soldati nel contado dove aveva ottenuto qualche successo. Ritiratosi a Pisa (10 marzo 1313), l'imperatore pensò di volgersi contro Roberto, ormai postosi chiaramente a capo dei guelfi: ma volle prima delineare i presupposti teorici della sua concezione del governo imperiale nelle cosiddette " Costituzioni pisane " (aprile 1313), in cui ribadiva la sudditanza di tutti gli uomini all'Impero, negando implicitamente la validità della donazione di Costantino e formulando una precisa definizione del " ribelle all'Impero ". In tal modo, egli dichiarava il 26 aprile 1313 " ribelle " Roberto d'Angiò: ma la campagna militare contro di lui non poté iniziarsi subito a causa della grande penuria di uomini e di mezzi finanziari che costituzionalmente afflisse l'imperatore. Solo dopo mesi di richieste, di patteggiamenti, di concessioni fatte ai danni della stessa autorità imperiale, in favore di città e signori ghibellini, l'8 agosto 1313 E. lasciava Pisa per il sud, iniziando un'impresa combinata terrestre e navale che avrebbe dovuto, occupata Roma, colpire all'inizio di settembre il territorio del regno. Ma occorreva superare intanto l'ostacolo di Siena: come già al tempo dell'assedio di Firenze, E. fu colpito da febbre malarica; trasportato a Buonconvento, vi moriva il 24 agosto 1313. Se il nome di E. non fosse stato collegato sin dal Boccaccio con la composizione della Monarchia e se questo collegamento non importasse tuttora una serie di implicazioni esegetiche connesse con la cronologia di tutta l'opera dantesca - per lo meno quella di incerta datazione -, il posto riservato da D. all'imperatore della casa di Lussemburgo, indubbiamente notevole, non avrebbe assunto nella critica e nel commento danteschi le proporzioni di un elemento essenziale e il rilievo di una vera e propria e celebratissima ‛ crux '. E. è menzionato nell'opera dantesca nei seguenti casi: Epistole: V 3 Titan... pacificus; 4 Moysen alium; 5 clementissimus Henricus, divus et Augustus et Caesar; 7 cum sit Caesar; 10 quoniam Augustus est; 15 vestra salus; 16 novus agricola Romanorum; 17 Hectoreus pastor; 19 regi vestro; 30 quem Petrus, Dei vicarius, honorificare nos monet; VI 5 in romani Principis, mundi regis et Dei ministri, gloriam fremuistis; 12 delirantis Hesperiae domitorem; 25 Romanae rei baiulus hic divus et triumphator Henricus; VII: tutta la lettera è dedicata al Santissimo gloriosissimo atque felicissimo triumphatori et domino singolari domino Henrico divina providentia Romanorum Regi et semper Augusto, devotissimi sui...; nel testo della lettera occorrono espressioni come le seguenti: 5 Caesaris et Augusti successor... Titan praeoptatus; 7 sol noster; 8 Dei ministrum et Ecclesiae filium et Romanae gloriae promotorem; 22 praeses unice mundi; 23 excellentissime principum; 29 proles altera Isai. Nella Commedia, menzioni esplicite o inequivoche in Pg VI 102 tal che 'l tuo successor temenza n'aggia (si tratta dell'apostrofe ad Alberto tedesco, il cui successore sarebbe stato appunto E.); Pd XVII 82 ma pria che 'l Guasco l'alto Arrigo inganni; XXX 137 sederà l'alma, che fia giù agosta, / de l'alto Arrigo.
Non pare che si possa elencare tra i riferimenti inequivoci, come vuole il Toynbee (Dictionary, p. 62) il passo di Pg VII 96 sì che tardi per altri si ricrea, verso che solo per amore di completezza potrà essere preso in considerazione tra quelli che chiameremo di dubbio o ipotetico riferimento a Enrico. Questi ultimi sono: If I 101 infin che 'l veltro / verrà, che la farà morir con doglia; IX 85 Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo; Pg XXXIII 43-44 un cinquecento diece e cinque, / messo di Dio. Nella Monarchia, nessuna menzione esplicita è fatta di E.: ma ove si accogliesse la tesi di una composizione dell'opera in occasione della sua discesa in Italia, a lui indubbiamente dovrebbe essere rivolto il pensiero di D. nell'atto d'immaginare un esecutore del disegno politico tracciato nell'opera. Tutta la questione, comunque, sarà presa in esame a parte.
Cominciamo col considerare intanto il gruppo di riferimenti sicuri: le tre lettere (V, VI, VII), indirizzate ai " Principi e popoli d'Italia ", ai " Fiorentini ", allo stesso E., e scritte rispettivamente nel settembre-ottobre 1310, il 31 marzo 1311, il 17 aprile 1311, presentano, negli appellativi e nella titolografia di E., tipici elementi culturali medievali e moduli altrettanto tipici danteschi. Così il Titan... pacificus (Ep V 3), che ha un riscontro nel Titan praeoptatus (VII 5), rimanda a Aen. IV 119 (" extulerit Titan radiisque retexerit orbem "), a Met. II 118 (" iungere equos Titan velocibus imperat Horis "), a Phars. I 15, a Theb. I 501, V 297; e rimanda a Pg IX 1 (La concubina di Titone antico), se pur dev'essere presa in seria considerazione la variante Titan attestata dal Vat. lat. 3199 e presente a Pietro che commentava: " Est notandum, quod Titan est Sol... ". E. è, infatti, costantemente visto nelle lettere in cui è menzionato, come un sole nascente (Titan exorietur pacificus [Ep V 3]; Titan praeoptatus exoriens [VII 5]; sol noster [§ 7]). Che in V 5 D. chiami E., prima ancora dell'incoronazione imperiale, Augustus, oltre che Caesar, con un titolo cioè proprio dell'imperatore già incoronato, non può stupire, vuoi per una prassi che anche nel Medioevo era invalsa, in casi simili (per personaggi che si apprestassero a cingere la corona imperiale), vuoi perché appare evidente l'intenzione dantesca di avvicinare per quanto possibile E. a Ottaviano. E. baiulus di Ep VI 25 non può non far pensare a Pd VI 73 (Di quel che fé col baiulo seguente), che è esplicitamente riferito a Ottaviano, mentre il Dei ministri di Ep VI 5 appare da riportarsi - a parte ogni questione di cronologia - a Mn I XVI 2 (Vere tempus et temporalia quaeque piena fuerunt, quia nullum nostrae felicitatis ministerium ministro vacavit), passo per il quale sembra assolutamente esatta la notazione del Vinay (commento a Monarchia, p. 101 n. 7) circa il fatto che " tutto quanto occorreva alla felicità degli uomini trovò al tempo di Augusto gli organi e i mezzi politici e spirituali adeguati "; onde veramente si rende più perspicuo tutto l'accenno di D. alla gravità della ribellione dei Fiorentini contro il " ministro di Dio ", per il carattere di profondo turbamento di un ordine che ha avuto un solo riscontro nella storia. A E. - Augusto rimanda, ovviamente, Pd XXX 136-137 (l'alma, che fia giù agosta, / de l'alto Arrigo), ed è ugualmente trasparente il collegamento E. - Augusto, discendente da stirpe troiana, per l'uso dell'appellativo di Ep V 17 (Hectoreus pastor). Tipico anche l'accostamento, d'ispirazione scritturistica, a Mosè, sulla cui importanza e ricorrenza nell'opera dantesca si veda Toynbee (pp. 451-452).
Per Pg VI 102 la critica moderna non ha posto grossi problemi interpretativi. Per Casini-Barbi, per Scartazzini-Vandelli, per Grabher, per Momigliano non v'ha dubbio che il successor di Alberto d'Austria, cui D. allude, sia E.: e nessun problema di particolare sfumatura esegetica sembra che questo diverso atteggiamento di D. nei riguardi dell'alto Arrigo - sempre lodato nel corso della Commedia, sia nei riferimenti espliciti, sia in quelli impliciti, così come sempre lodato appare nelle lettere - abbia fatto sorgere. Più sensibile a ciò si mostra il Sapegno, che chiosa 'l tuo successor " che sarà Arrigo VII. Ma nel contesto del poeta, l'allusione rimane indeterminata ". E infatti non si può non notare che più che E. in quanto persona determinata e storicamente individuata, l'apostrofe dantesca (giusto giudicio da le stelle caggia / sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto, / tal che 'l tuo successor temenza n'aggia!) si rivolge al successore di una dinastia che ha fatto, agli occhi di D., cattiva prova di sé: e si badi che, tutto sommato. E. di Lussemburgo non era discendente di Alberto,
Si potrebbe, mantenendo così all'apostrofe dantesca un carattere esemplare e mantenendo la distinzione ben netta tra E. e il successore di Alberto tedesco, in quanto tale, recuperare anche il significato profetico che i più dei commentatori hanno attribuito alle parole giusto giudicio da le stelle caggia / sovra 'l tuo sangue come aperta allusione all'improvvisa morte di Rodolfo, figlio di Alberto d'Asburgo e premorto al padre nel giugno del 1307: un significato profetico che il Sapegno, nel citato commento, respinge, almeno nella misura in cui possa essere assunto come " un indizio sicuro per la cronologia della composizione di questa parte del poema " (per la presenza di E. nel Purgatorio e il rapporto tra le due allusioni nei canti VI, VII e quella del XXX del Paradiso vedi anche G. Petrocchi, Itinerari danteschi, Bari 1969, 104-108). Né si può dimenticare che nella stessa Ep VII 7-14 gl'indugi di E. sono giudicati severamente da D.: a segno che D. può artificiosamente chiedersi: Tu es qui venturus es, an alium expectamus?, riecheggiando Matt. 11, 3 e Luc. 7, 19. Ma è, a un tempo, artificio retorico e preoccupazione appena adombrata, anche se reale. Di qui, crediamo, la genericità giustamente sottolineata dal Sapegno, dell'allusione: che non sarebbe, peraltro, la sola se accettiamo di non forzare l'interpretazione di Pg VII 94-96 Rodolfo imperador fu, che potea / sanar le piaghe c'hanno Italia morta, / sì che tardi per altri si ricrea. Se, come la maggioranza dei commentatori (Casini-Barbi, Scartazzini-Vandelli, Grabher, Pietrobono, Momigliano) ha ritenuto, quell'altri è E., non si evita l'aporia rilevata dal Sapegno, secondo il quale " coloro, e sono i più, che vogliono leggervi un'allusione all'impresa italiana di Arrigo VII, sono costretti... a supporre che Dante scrivesse questi versi dopo il fallimento del tentativo di Arrigo. Il che non si vede bene come possa accordarsi con l'opinione, generalmente adottata dagli stessi commentatori, che a quell'impresa il poeta si riferisca con animo fiducioso e pieno di speranza più avanti, in Purg., XXXIII, 37-51 ". Vero è che il D'Ancona pensava di risolvere questa apparente contraddizione (cfr. Lett. dant., p. 818) in tal modo: " E qui Dante parrebbe contraddire a quanto poi scriverà nella terza cantica " - non solo la generica speranza di Pg XXXIII 37-51, ma la precisa indicazione di Pd XXX 136-137 - " che cioè Arrigo venne ‛ prima ' che l'Italia fosse ‛ disposta ' a riceverlo signore e paciere. Ma l'una cosa e l'altra ha del vero, secondo l'aspetto dal quale si consideri... ". Ancor di più conciliatore dell'apparente contraddizione il Savj-Lopez (Lett. dant., pp. 1982-1983), che afferma: " Né può dirsi contraddizione. Troppo tardi, se si pensa alle favorevoli condizioni in che si trovò il predecessore Rodolfo... Troppo presto, guardando alle mutate condizioni d'Italia nel tempo che vi scese dalle Alpi quel piccolo conte del Lussemburgo... A lui né l'ora potea dirsi propizia, né fu benigno il fato... ". Come si vede, a non voler accettare il valore indistinto di quel per altri, non si eliminano in alcun modo stridenti contraddizioni.
A questo punto s'inserisce tutta la discussione sulla cronologia della composizione dell'Inferno, della Monarchia, del Convivio, del Purgatorio e del Paradiso: perché solo in un quadro cronologico definito - comunque si voglia risolvere la questione della datazione delle opere dantesche - allegorie e interpretazioni delle allegorie possono risolversi in una linea non contraddittoria.
È pertanto opportuno richiamare le posizioni che oggi, nel campo della dantistica, possono essere considerate riassuntive di congetture e dibattiti che in serie lunghissima si sono succeduti in proposito. Tali posizioni possono essere indicate in quelle di chi vuole vedere nel pensiero di D. circa l'Impero e la Chiesa un'evoluzione, e pone quindi una relazione strettissima tra la discesa di E. in Italia (o meglio l'elezione e la discesa di E. in Italia) e la composizione del Purgatorio, costituendo la Monarchia e specie il Paradiso l'espressione dell'amara delusione di D. per gl'inganni di Clemente V ('l Guasco) consumati ai danni de l'alto Arrigo; e chi, invece, riconosce nella composizione delle opere dantesche il coerente approfondimento di temi essenziali: rapporti tra Chiesa e Impero, rapporti tra fede e ragione, rapporti tra teologia e filosofia. E, per questa posizione, nella quale consiste poi la ragione profonda dell'originalità della ‛ dantologia ' di Bruno Nardi, il collegamento della figura storica di E. con le immagini del veltro, del cinquecento diece e cinque, con le allusioni implicite, ricordate nei versi elencati all'inizio, acquista piuttosto il carattere della dimostrazione di una tesi generale, che sfocia nella profezia della Commedia, anziché il segno di un preciso momento storico dell'evoluzione del pensiero politico dantesco. E riscontriamo tutto ciò nell'analisi dei passi in questione.
Per quello che propriamente concerne la possibilità di vedere nel veltro un'allusione a E., i commentatori antichi non forniscono alcun elemento: propendendo alcuni (Pietro, Buti) a riconoscere in esso Cristo, che vive " inter coelum et coelum ", dato che il cielo, come il feltro, è di materia solida; mostrando altri di voler restare nel generico, pur avanzando qualche idea circa un'interpretazione topica precisa relativamente a feltro e feltro (ancora Pietro, ma anche Benvenuto, che però preferisce intendere " inter coelum et terram "; l'Anonimo; il Boccaccio, che accenna a un'identificazione veltro-Cangrande, ma per concludere: " tenga di questo ciascuno quello che più credibile gli pare ").
Successivamente, la tesi del veltro-Cangrande della Scala si fece strada imperiosamente: il Castelvetro, il Gozzi, il Venturi, il Cesari, il Tommaseo, a tacer d'altri. Restava comunque la difficoltà cronologica; perché se la prima cantica si cominciò a stendere prima ancora dell'esilio, secondo un'improbabile datazione del Boccaccio, bisognava ammettere che D., pensando a Cangrande come a colui che avrebbe dato i segni del suo valore prima dell'inganno di Clemente V a E. - distinto dal veltro, naturalmente - e pertanto prima del 1312, fosse tornato sui versi del I canto dell' Inferno e avesse aggiunto quelli relativi al veltro. E se invece la prima cantica aveva avuto una prima stesura verso il 1306-1307, bisognava immaginare che D. avesse profeticamente intuito le virtù di Cangrande ancora giovanetto: tutte difficoltà che non paiono insormontabili a chi come T. Lucrezio Rizzo (Allegoria, allegorismo e poesia nella D.C., Milano-Messina 1941, 148-158) accetta in pieno l'identificazione con Cangrande. Per chi d'altro canto, come il Parodï e come l'Ercole, non aveva dubbi che si dovessero distinguere fasi nettamente distinte nel pensiero dantesco riflettentisi in momenti diversi delle opere del poeta (Convivio e Inferno composti contemporaneamente; Monarchia, Epistole politiche e Purgatorio frutto di una stessa temperie spirituale e di uno stesso periodo), il veltro doveva conservare la sua indeterminatezza, dacché su di esso si sarebbe steso un velo di silenzio nel corso di tutto il poema: e a fortiori non poteva essere identificato con E. in quanto la presenza di questo imperatore alla mente di D. avrebbe suggerito, appunto con la composizione di Monarchia, Epistole e Purgatorio, riferimenti ben più precisi e trattazioni sistematiche di un pensiero politico che nella fase di composizione di Convivio e Inferno o non esistevano affatto o erano sostanzialmente diverse (cfr. E.G. Parodi, La data di composizione e le teorie politiche dell'Inferno e del Purgatorio, in " Studi romanzi " III [1905] 15-52; F. Ercole, Il pensiero politico di D., II ,Milano 1927-28, 273-407).
Il veltro doveva, in questa impostazione generale della cronologia del pensiero e delle opere di D., necessariamente perdere ogni connotato troppo preciso, anche se lo si fosse voluto a forza identificare con un imperatore, come notava finemente il Barbi (Per la genesi e l'ispirazione centrale della D.C., in Problemi fondamentali per un nuovo commento della D.C., Firenze 1956, 37): " anche se il Veltro sarà un imperatore " - comunque non un preciso personaggio storico, non E. - " il suo ufficio per quanto riguarda la caccia alla lupa sarà ufficio straordinario, diverso da quello solito della sua carica... ". La posizione del Barbi rappresenta il più sagace tentativo di salvare il senso di mistero che il veltro ha nel pensiero dantesco, senza vanificare l'immagine in qualcosa di nebuloso e senza proporre identificazioni largamente improbabili. L'idea del veltro ‛ liberatore ', laico o ecclesiastico, era e rimane un punto di arrivo comune alla maggior parte dei moderni commentatori, al di fuori di ogni precisa identificazione; anche se Francesco Mazzoni, nel suo Saggio di un nuovo Commento alla " D. C. " ( Firenze 1967, 131-135), è tornato decisamente sulla questione, concludendo che bisogna " individuare nel veltro... non un Papa santo o un riformatore religioso... ma piuttosto un imperatore venturo... Interpretazione, dunque, del veltro in termini tutti laici, e se non ‛ ghibellini ', certamente aderenti alla visione politica del reale e alle concrete assunzioni di responsabilità, prima e dopo l'esilio, da parte di Dante... riteniamo, nella profezia del veltro, non solo di poter individuare genericamente un imperatore, ma il preannuncio della elezione di Arrigo VII ". Ovviamente per il Mazzoni la Monarchia è scritta all'atto della discesa di E. in Italia e la cronologia del primo canto dell'Inferno rimanda al 1308: dopo circa un quinquennio di esilio, la notizia d'imminenti elezioni imperiali anche se non ancora avvenute - faceva sì che D. caricasse l'avvenimento di un valore e di un significato eccezionali (cfr. Mazzoni, op. cit., p. 133). Non dice il Mazzoni come pensi di ovviare alla difficoltà già obiettata - e risolta - dall'Ercole circa l'invettiva scagliata contro Clemente V (If XIX 79-87), che porta a concludere che, nel momento in cui venivano scritti quei versi, D. sapesse già della morte del pontefice Guasco, ma non volesse accennare all'inganno teso a E. per non turbare l'armonia della prima cantica, ispirata a ideali diversi da quelli che avrebbero animato Purgatorio e Paradiso: così D. avrebbe scritto quei versi dopo aver composto la prima cantica, ma non avrebbe fatto menzione all'inganno teso da Clemente V a E., non menzionato mai nell'Inferno, per ragioni di coerenza concettuale. Nessuna menzione del canto XIX, si diceva, è nel Saggio mazzoniano; ma sì la ripresa e rivalutazione dell'interpretazjone di A. Regis (E sua nazion..., in " Studi d. " IV [1921] 85-97) circa l'allusione alle urne di legno imbottite di feltro " che si usavano comunemente ai tempi di Dante per le elezioni " e dalle quali egli avrebbe atteso " il nuovo ‛ Imperator electus ' ". Con il che, peraltro, il Mazzoni non ritiene di dover dare eccessivo peso al fatto che il veltro è caricato di attributi trinitari (sapïenza, amore e virtute), che possono ben conferirsi a chi come l'imperatore ha come " solo, unico, vero elettore " Dio stesso, mentre " i principi tedeschi son da considerarsi dei semplici strumenti nelle mani della Provvidenza " (Mazzoni, op.cit., p. 134). Imperatore, dunque, ed E., il veltro per il Mazzoni: e legata all'Impero la profezia di Beatrice di Pg XXXIII 43-44, " anche se... sarà mutata la persona del destinatario ". È un'interpretazione che accoglie sostanzialmente il nesso tra il veltro e il ‛ DXV ' nei termini in cui lo aveva posto il Barbi (Problemi fondamentali... cit., p: 38): " L'idea, nel Veltro e nel DXV, è sempre la medesima... ", pur se il Barbi non ritenne di distinguere due personaggi, diversamente da come avevano fatto coloro che, col Parodi e con l'Ercole, avevano distinto diverse fasi del pensiero dantesco. Per il Parodi e per molti commentatori non v'ha dubbio che la profezia di Beatrice, accennando a qualcosa di molto più imminente di quanto non fosse preannunciato nel veltro, accenni senz'altro a E.: confortato in ciò da un'osservazione del Davidsohn, per cui sommando i dati numerici del 25 dicembre 800 e del 515, si otteneva 1315, anno in cui D. avrebbe ritenuto che si sarebbero verificati avvenimenti di grande importanza (per tutta la questione v. Rizzo, cit., pp. 162-163). L'accostamento a E. è stato seguito da molti commentatori moderni: Scartazzini-Vandelli (" poiché Dante mostra di avere in mente un personaggio determinato, potrà ben esser Arrigo VII e la profezia sarà scritta lui vivo "), Casini (" è probabile che nel momento in cui Dante scriveva gli ultimi canti del Purgatorio, egli pensasse ad Arrigo VII "), Momigliano (" Che possa essere Arrigo VII è provato da Par., XXVII, 61-3 e da questo passo dell'Epistola VII: Eia itaque, rumpe moras, proles altera Isai...); Isidoro Del Lungo (" un ritmo augurale, che accompagnò la gesta imperiale d'Arrigo, lo designa siccome ‛ Dei missus dux ', con letterale anagrammatica identità al ‛ DXV messo di Dio ' ").
Di diverso parere il Pietrobono, per il quale il DXV, identificato con il veltro, altri non sarebbe che il " Domini Xristi Vertagus ", il Veltro di Cristo.
Rimane in ogni caso pregiudiziale il problema cronologico anche in questo caso; giustamente può scrivere F. Lanza (Lect. Scaligera II 1223): " se il Dux o il liberatore deve necessariamente identificarsi con Arrigo VII di Lussemburgo, la composizione del canto non può che datare dal 1311 al 1312, agli anni cioè più fervidi delle rifiorite speranze ghibelline in Italia. Se si invalida con argomenti esterni questa cronologia... l'identità Arrigo = Dux perde ogni consistenza, perché non è pensabile che dopo la triste fine dell'imperatore il poeta, assegnandogli un seggio nell'Empireo " - e sapendo già E. ingannato dal Guasco, aggiungiamo noi, secondo Pd XVII 82 - " commettesse ancora a lui... un'impresa che sapeva fallita ". Per gli antichi commentatori, senza nessuna esclusione, il cinquecento diece e cinque aveva avuto un'univoca interpretazione: D. allude a un ‛ DVX ', inviato da Dio (messo di Dio); non convincenti i tentativi, compiuti dal Torraca nel suo commento alla Commedia, di mantenere ‛ DXV ' contro la ovvia inversione, per cui D. avrebbe alluso a un vicario di Cristo, " Domini Xristi Vicarius ", poiché è impensabile che D. immaginasse un papa come uccisore della fuia e del gigante, cioè della curia pontificia e del re di Francia; o dall'Arezio, per cui ‛ DXV ' (e non ‛ DVX ') ricorderebbe il motto impresso dal sigillo di Guido di Spoleto, in un diploma dell'892, e starebbe per " Dominus Xristianorum Universalis "; o dal Chistoni, secondo il quale in ‛ DXV ' si dovrebbe vedere il monogramma di Cristo; altre interpretazioni, riferentesi a Cangrande (lo stesso Zingarelli [Dante 1165] abbandonò l'interpretazione tradizionale ‛ DVX ' e pensò d'intendere, con un vero artificio, " Dominus Kanisgrandis Veronae " !), sono riportate e confutate nel citato lavoro del Rizzo (pp. 167-169). Ma a parte questa e altre acribie numeriche, rimane abbastanza evidente l'influsso apocalittico (cfr. Apoc. 13, 18: il numero della bestia è seicentosessantasei; per le figurazioni numeriche e le relative interpretazioni si veda, per curiosità, più che per reale valore interpretativo, E. Proto, L'Apocalisse nella D.C., Napoli 1905; D. Guerri, Di alcuni versi dotti della D.C., Città di Castello 1908). E proprio a un preciso influsso apocalittico, e liturgico a un tempo, ha pensato in un dotto articolo R.E. Kaske (Dante's DXV and ‛ Veltro ', in " Traditio " XVII [1961] 185-254), che nel ‛ DXV ' vede la riproduzione di un monogramma, diffuso nella cultura liturgica dei secc. XII e XIII, rappresentante l'unione in Cristo delle due nature, l'umana (U) e la divina (D): la X starebbe a rappresentare il simbolo di Cristo stesso. Evidente, per il Kaske, l'influsso apocalittico del 666 per il 515, il quale ultimo sarebbe in antitesi all'anticristo.
Quanto al veltro, esso starebbe a indicare una futura riforma ispirata dai frati ( feltro e feltro rimanderebbe alla ‛ vilitas ' dei panni dei frati stessi) degli ordini mendicanti. ‛ DXV ' e veltro sarebbero due aspetti della tensione escatologica medievale: la predicazione della riforma della Chiesa, pregiudiziale necessaria della venuta di Cristo (veltro). A parte i debiti del Kaske a un particolare tipo d'interpretazione (von Richtofen, Olschki, Tondelli), nella sua tesi è manifesto quello che giustamente è stato definito un " vizio strutturale di uso indiscriminato delle fonti " (cfr. " Studi d. " XLIII [1966] 303); che se può, in qualche modo, essere congenito in ogni interpretazione cronologicamente slegata - e quindi, al limite, anche in alcune posizioni del Nardi (v. oltre) - nel saggio in questione viene radicalizzato al punto tale che di E., sia pure come identificazione da respingere totalmente, non si parla. Ma il caso del Kaske non sembra destinato a ripetersi o a riprodursi con larghezza; i commentatori moderni che abbiamo sin qui considerati rimangono per lo più legati abbastanza strettamente a interpretazioni connesse con una cronologia puntuale e, al tempo stesso, occasionale: il veltro, il ‛ DXV ' (‛ DVX ') potranno o non potranno essere riferiti - entrambi o parzialmente - a E. solo nella misura in cui si continuerà ad accettare di collegare la composizione della Monarchia alla discesa dell'imperatore in Italia, a dare cioè un valore determinante, per tutta la concezione religiosa dantesca, a un fatto contingente, anche se certamente intensamente vissuto dal poeta e non solo da lui.
Per chi, come Bruno Nardi, il pensiero di D. matura più secondo una linea di sviluppo interno che per suggestione esterna, i problemi interpretativi relativamente a If I 101 e a Pg XXXIII 43-44 sono a un tempo più semplici e meno rilevanti per la figura storica di E., che in tutta l'opera nardiana appare menzionata nei luoghi in cui lo studioso confuta le argomentazioni addotte per collegare la composizione della Monarchia con la discesa dell'imperatore in Italia, più che per proporre nuove interpretazioni o riproporre antiche congetture. E. non è per Nardi il personaggio centrale di nessun'opera dantesca. Non della Monarchia, composta, per il Nardi, dopo il Convivio e prima della Commedia e comunque tra il 1307 e il 1308; non dell'Inferno o del Purgatorio, di cui poté far vibrare particolarmente alcune profezie senza che queste perdessero il loro senso generale, dacché per tutto il poema vale il giudizio " possiamo anche ritenere, che gli eventi che accadevano intorno a lui l'abbiano indotto più volte a mutare il giudizio su talune persone e sulle loro azioni, a sopprimere episodi e introdurne di nuovi che meglio rispondessero al corso delle vicende umane " (B. Nardi, Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960, 132). Ma prima ancora che avesse potuto sapere dell'elezione di E., secondo il Nardi, D. " era ormai entrato nell'ordine d'idee dei fautori di una riforma religiosa basata sul precetto espresso di Cristo che vietava alla Chiesa ogni possesso di beni terreni e ogni forma di ‛ potestas in temporalibus ' " (p. 133). Di qui l'estrema coerenza dell'impostazione nardiana: la Monarchia è il presupposto della Commedia (Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, 294), che a sua volta se ne distingue per il carattere tutto profetico, di visione, che deliberatamente e subitamente D. ha ritenuto di dover dare al poema sacro. In tal modo le allegorie del veltro - e del DXV - appaiono per il Nardi più allegorie d'idee che di personaggi; ed egli può anche concordare con l'Ercole (Saggi, cit., p. 294) circa lo sviluppo dell'idea del veltro (che significativamente il Nardi - pp. 263 e 264 - definisce una volta come " Impero " e altra volta come " idea storica viva ") e ammettere che " nel Purgatorio, la sua coscienza si trasforma addirittura in quella del Battista, che scorge già il Messo di Dio e l'addita. La speranza e l'attesa s'abbreviano, ma la fede è la stessa " (p. 265). Così, proprio perché la fede è la stessa nelle tre cantiche - ed è fede nella necessità di una Chiesa senza cupidigia, purgata dal veltro - al Nardi può apparire del tutto naturale che nel c. XIX dell'Inferno (vv. 79-87) si parli di Clemente V, senza che vi sia un accenno a E.: quel canto, oltre a segnare la condanna di Clemente V, come simoniaco e non come ingannatore di E., contiene l'invettiva contro la donazione di Costantino, prima radice dei mali della Chiesa e del mondo.
Solo come frutto di una speranza improvvisa di una possibilità di composizione del dissidio fra Papato e Impero, senza nessuna concessione teorica circa l'autonomia imperiale, va, per Il Nardi, intesa l'epistola v: nella quale anzi la definizione di E. come Titan pacificus, come " sole ", proverebbe che " al simbolo consueto del sole e della luna " - presente ancora a raffigurare la Chiesa e l'Impero nella Monarchia - si sostituiva nel suo spirito di poeta l'ardita e inconsueta immagine dei " due soli... " (Dal Convivio..., cit., p. 207). In tutta l'opera del Nardi E. non è mai più che il contenuto contingente di una speranza, non può mai essere il motivo profondo di una profezia.
Bibl. - Opere di carattere generale: K. Wenk, in Allgemeine deutsche Biographie, XI (1880) 443-449; F. Schneider, Kaiser Heinrich VII, Greiz i. V. 1924-1928, con ampia bibl.; K. Gräfe, Die Persönlichkeit Kaiser H. VII, Lipsia 1911. Tra le opere citate nel corso della voce si vedano in modo particolare: T.L. Rizzo, Allegoria, allegorismo e poesia nella D. C., Milano-Messina 1941; B. Nardi, Dal Convivio alla Commedia, Firenze 1960; W.M. Bowsky, Henry VII in Italy, Lincoln, Nebraska, 1960; B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967.