Villena, Enrique de
Nome con cui è più noto lo scrittore spagnolo Enrique de Aragón (1384-1434), discendente dalle famiglie reali di Aragona e di Castiglia, che ebbe anche fama di mago e alchimista, soprattutto per la leggenda di aver stretto un patto col demonio. Oltre a diverse opere originali di astrologia, stregoneria e mitologia, è autore delle prime traduzioni in castigliano dell'Eneide e della Commedia. A richiesta del marchese di Santillana, secondo quanto lo stesso V. asserisce, fece la versione della Commedia, portata a termine nel 1428, dieci mesi prima di quella catalana di Andreu Febrer. La traduzione castigliana rimase praticamente sconosciuta, perché ancora inedita, e fu considerata perduta fino al secolo scorso.
Spetta a M. Schiff la scoperta del codice, nel 1899, nel tentare una ricostruzione dei libri appartenenti alla biblioteca del Santillana. Il codice, un volume cartaceo rilegato in pergamena, si trova ora nella biblioteca Nazionale di Madrid (n. 10186) e contiene il testo in italiano della Commedia, copiato nel 1354, qualche glossa marginale e aggiunte varie, in latino e in castigliano, e in più il sommario del Paradiso di Mino di Vanni di Arezzo e il Credo. I larghi margini del codice furono sfruttati per scrivervi, accanto a ogni verso della Commedia, una traduzione castigliana in prosa letterale, che Schiff non dubitò d'identificare con quella fatta dal Villena. Se l'assegnazione non è incontrovertibile, nemmeno si son potuti dimostrare certi recenti atteggiamenti ipercritici che negano o mettono in dubbio l'attribuzione.
La traduzione è l'unica completa della Commedia esistente nella letteratura spagnola fino alla seconda metà dell'Ottocento, perché quelle di cui si ha notizia nel Secolo d'Oro sono frammentarie o parziali. Dopo la scoperta del manoscritto, fu abbastanza concorde il parere negativo della critica per le molte sviste ed errori in cui cadde il traduttore. Il Farinelli credeva che lo Schiff attribuisse alla versione " merito artistico maggiore " di quello che lui non riuscisse a vederci. Ma, con tutte le ben giustificate riserve sulla portata artistica della traduzione, pare impossibile che sia stato trascurato l'innegabile interesse del documento, la cui estrema letteralità permette un confronto linguistico atto a misurare lo sforzo di adeguazione del castigliano del primo trentennio del '400 alla lingua dantesca.
Allo stato attuale delle ricerche bisogna mettere a fuoco certi giudizi della consueta tradizione critica: i dubbi di M. Penna e di M. Morreale circa l'attribuzione a V., se indicano la mancanza di prove concludenti sull'autenticità della traduzione, dimostrano pure quanto sono poco convincenti le eventuali obiezioni. All'estremo opposto, non si può nemmeno accettare, col Brummer, che la versione sia autografa del Villena. Ormai pare definitivamente comprovato da certe varianti, fatte notare dall'Arce e dal Pascual, che la traduzione non si basa sul codice italiano sui cui margini è scritta (come pensano invece Schiff, Penna, Brummer); e inoltre è indiscutibile che il testo castigliano fu copiato sotto dettatura (Pascual). Con questi criteri, che spostano la prospettiva negativa tradizionale, si può concludere che il traduttore non è sempre diretto responsabile di molti degli errori.
Bibl. - M. Schiff, La première traduction espagnole de la Divine Comédie, in Homenaje a Menéndez y Pelayo, I, Madrid 1899, 269-307; A. Farinelli, D. in Spagna, Francia, Inghilterra, Germania, Torino 1922, 88-93; W.P. Friederich, Dante's Fame abroad 1350-1850, Roma 1950, 27-28; M. Penna, Traducciones castellanas antiguas de la D.C., in " Revista de la Universidad de Madrid " XIV (1965) 81-127; J. Arce, La lengua de D. en la D.C. y en sus traductores españoles, ibid., 9-48; J.A. Pascual, La traducción castellana de la D.C., atribuida a D. Enrique de Aragón, Salamanca 1971 (riassunto di un'importante tesi di dottorato, ancora inedita); R. Brummer, Bemerkungen zu einer Madrider Handschrift von Dantes D.C. mit der spanischen Marginalübersetzung des Don Enrique de V., in Studien zu D. (Sonderdruck aus der Festschrift für Rudolf Palgen), Graz 1971.