ente
Il concetto di ente si definisce in rapporto con quello di essere (➔), di cui, dal punto di vista grammaticale, è participio presente. Parmenide considerò l’«essere» (εἶναι) la forma comune e universale di ogni asserzione di realtà, unica realtà vera, superiore alle contraddizioni del particolare. Di qui il termine di ὄν «quel che è» (in assoluto, e senz’altra predicazione) sentito ancora come participio piuttosto che come sostantivo. L’«essere» di Parmenide nella storia del posteriore eleatismo (Melisso) venne sempre più assumendo quei caratteri di identità, stabilità e inalterabile costanza, che non erano più incompatibili, in linea di principio, con l’ammissione di una molteplicità di enti, forniti appunto di questi caratteri. E infatti il pluralismo adoperò il termine anche al plurale, per designare le realtà ultimamente vere secondo la propria concezione: e così più tardi per Platone furono ὄντα («enti») le idee. La critica aristotelica dissolse il concetto assoluto dell’ὄν, chiarendo i molti sensi che di volta in volta poteva assumere la predicazione dell’essere. Si distingue così, da un lato, l’e. per se, quando l’essenza che si predica appartiene substantialiter all’e., e, dall’altro, l’e. per accidens, quando tale essenza gli sia in qualche modo associata. L’essenza è, in termini aristotelici, la «potenza» di essere dell’e.; l’atto è perciò il suo esistere determinato, e secondo l’atto (che il pensiero cristiano attribuisce a Dio) i diversi e. si distinguono in: e. reale, e. di ragione, e. immaginario, e. finito, e. ideale, e. creato. Dio che è l’Atto puro occupa il posto massimo nella gerarchia degli e.: e. infinito, e. supremo, che ha in sommo grado, in grado infinito, la capacità dell’essere; si potrebbe dire in grado assoluto, giacché – secondo il pensiero tomista – Dio solo è e. per essentiam, mentre le creature lo sono per partecipazione. Di qui perciò quella distinzione di essenza ed esistenza, che doveva restare acquisita al pensiero posteriore e ricondurre verso il significato del primo termine anche quello di ente. E così il pensiero moderno, che per lo più identificò il concetto di e. a quello di essere, gli conservò, nei rari casi in cui lo mantenne nella sua forma specifica, il senso della realtà trascendente e ideale di contro a quella materiale ed empirica: come per es. nella formula giobertiana dell’e. che crea l’esistente.