ENTE (gr. ὄν, lat. ens)
Il concetto filosofico di ente nacque nella filosofia greca per opera di Parmenide, che, vedendo nell'"essere" (εἶναι) la forma comune e universale d'ogni asserzione di realtà, la considerò senz'altro come unica realtà vera, superiore alle contraddizioni del particolare. Di qui il termine di ὄν "quel che è" (in assoluto, e senz'altra predicazione), che nei primi Eleati è quasi certamente sentito ancora come participio e non come sostantivo. Per riflesso polemico, le realtà molteplici propugnate dal pluralismo assunsero poi anch'esse il nome di ὄντα: e ὄντα (o più specificamente, per antitesi a quelle, ὄντως ὄντα "enti essenzialmente, realmente") furono per Platone le idee, in quanto partecipavano dell'eterna identità formale, prospettata da Melisso come carattere eleatico, che il molteplice avrebbe dovuto possedere per esser vero. La critica aristotelica dissolvette il concetto assoluto dell'ὄν, chiarendo i molti sensi che di volta in volta poteva assumere la predicazione dell'essere (πολλαχῶς λέγεται τὸ ὄν); ed esso non poté quindi risorgere che nel neoplatonismo, il quale diede di nuovo alla suprema realtà il nome eleatico di ὄν insieme con quello, che gli era coessenziale, di ἕν ("uno"). Il Medioevo, barcamenandosi tra platonismo e aristotelismo, estese da una parte il nome di entia a tutte le realtà (suddividendo però quelli, allora, in molte classi: enti per sé, enti di ragione, ecc., ai quali tutti sovrastava poi Dio, ens realissimum), e d'altra parte fissò quella distinzione tra "essenza" ed "esistenza", che doveva restare acquisita al pensiero posteriore e ricondurre verso il significato del primo termine anche quello di ente. E così il pensiero moderno, che per lo più identificò il concetto di ente a quello di essere (v.) e risolse quindi nelle concezioni di quest'ultimo i problemi a cui l'altro dava luogo (onde l'indistinzione terminologica del francese, che ha solo être, e dell'inglese, che ha solo Being, mentre nel tedesco Sein corrisponde a "essere" e Wesen insieme a "ente" e a "essenza"), gli conservò, nei rari casi in cui lo mantenne nella sua forma specifica, il senso della realtà trascendente e ideale di contro a quella materiale ed empirica: come per es. nella formula giobertiana dell'ente che crea l'esistente.